Il lirismo suggestivo di Lav Diaz
Nato Lavrente Indico Diaz, il regista è ad oggi un patrimonio della cinematografia internazionale. Le sue pellicole sono reliquie inestimabili, che intersecano lodi e idiosincrasie verso la sua terra, le Filippine. Muove i suoi primi passi nell’industria come critico, lavorando per il quotidiano Manila Standard alla fine degli anni Ottanta. Scrive varie storie brevi ed è autore di comics per diverse pubblicazioni finché non atterra nella “Grande Mela”. La seconda meta della sua carriera è infatti New York, dove inizia il suo percorso accademico in filmmaking. L’epifania di un amore viscerale per il cinema, però, arriva negli anni dell’infanzia e da quel momento non si è mai consumato. Questa simbiosi si alimenta nel tempo, tanto da portarlo ad essere autore di più di 30 lungometraggi. Il lirismo suggestivo di Lav Diaz diverrà presto un universo indispensabile per la sopravvivenza del cinema autoriale.
Slow Cinema: una corrente contemplativa
Le opere di Lav Diaz creano un ecosistema artistico tale da resuscitare un cinema intellettuale. Formulazioni erudite che si discostano dal comune consumo di pellicole. Ogni componimento del regista avvia un fenomeno culturale e si inserisce in dibattiti pubblici scomodi ma necessari. Così la narrazione di Lav Diaz si esplica in storytelling dove regna la sobrietà. Vi sono un’austerità ed essenzialità di trama che prediligono la quiescenza del quotidiano. I personaggi se ne stanno afflitti seduti sulle sponde di un fiume o coricati immobili su un letto dalle travi cigolanti. Riprese lunghe e ininterrotte di donne e uomini che “non fanno nulla” oltre che esserci. La drammaticità e la struttura dell’azione sono esili, le inquadrature statiche e i tempi lunghi se non lunghissimi. Questi, oltre ad essere elementi chiave della filmografia di Diaz, sono tratti che gli studiosi individuano come descrittivi di quello che da quasi due decenni è definito Slow Cinema, nonché una corrente contemplativa che all’intrattenimento contrappone la meditazione.
Lav Diaz: un autore prolisso
La maggior parte dei suoi film hanno una durata superiore alle 8 ore. L’acclamato Evolution of a Filipino Family del 2004 dura 647 minuti, ovvero quasi 11 ore ed è uno dei film non sperimentali più lunghi della storia del cinema. La sua protesta contro l’accorciamento di Batang West Side (di 315 minuti, all’incirca 5 ore e 15 minuti) a tre ore da parte del suo produttore per motivi commerciali può dimostrare il suo impegno nel demolire le prassi dell’industria dell’intrattenimento, che dirompono l’arte per poi assemblarla in un prodotto appetibile alle nostre “società liquide”. Rifiuta con temerarietà il vincolo dei 90 o 120 minuti di durata, aspirando semplicemente ad un cinema “libero” perché “il cinema è cinema”. Diaz non permette alla critica di sottometterlo ad un universo distante dal cinema (così come esso debba essere concepito), né si definisce “altro”.
Evolution of a Filipino Family
Ambientato in un arco storico che va dal 1972 al 1987, Evolution of a Filipino Family ripercorre i trascorsi dei componenti di una famiglia contadina per tutta la durata della carica di amministrazione di Ferdinand Marcos. Attraverso le loro abitudini e la loro passiva quotidianità, il regista riesce eloquentemente a porre una lente sulle stratificazioni gerarchiche della popolazione, documentando gli effetti di una spietata dittatura su una massa indigente. Pensieri e azioni dei protagonisti sono scanditi dai ritmi lenti ma anelanti alla natura, che riserva loro il solo tempo di sopravvivere dietro a pesca e campi di lavoro. La realtà non li accarezza neanche, tant’è che il nome Marcos viene pronunciato solo a 3 ore dall’inizio del film, in maniera superficiale sotto le spoglie delle conversazioni ludiche da bar.
Le varie vicissitudini ruotano attorno a Raynaldo, un ragazzo abbandonato in un cumulo di rifiuti, trovato da una donna mentalmente malata, accolto e cresciuto da una famiglia di contadini. Chissà se Diaz abbia visto in Raynaldo uno specchio delle Filippine stesse. Nel corso degli anni il nostro protagonista perde il suo candore; le risate lasciano spazio a peccati mortali e ai crimini che come un’alluvione inondano le strade della città. Più insorge l’instabilità politica, più la gente si rende inerme consumando radiodrammi come se fosse una droga, un’umana ricerca di evasione.
L’arte della sospensione: cinema come approssimazione della realtà e della verità
Sesto lungometraggio di Lav Diaz, Evolution of a Filipino Family è forse la quintessenza dell’estetica e della sensibilità cinematografica del regista. Con esso il bianco e nero riaffiora come scelta preferenziale dell’autore, così come le inquadrature statiche. L’evoluzione nel film è palpabile al punto tale da rendere impalpabile il sottile confine tra finzione e realtà, tra personaggi e attori. Il film è stato girato nel corso di molti anni, questo attribuisce molta organicità alla produzione. La finzione messa in atto dagli attori si denuda poiché la drammaticità è del tutto prosciugata. Lo scoccare di ogni ora del film sembra una nuova pagina di un album fotografico sfogliato con risentimento; gli attori invecchiano insieme ai protagonisti sullo schermo. Non vi è recitazione, bensì persone che assumono atteggiamenti e comportamenti dinanzi ad una telecamera.
Con Evolution of a Filipino Family, Diaz masterizza l’arte della sospensione dando vita ad un cinema inteso come approssimazione della realtà e della verità.
Più ci si addentra nella storia più la pellicola sembra un documentario crudo e poetico di una disumanità.
Privazione come strumento di abbondanza e arricchimento: Melancholia
Nel 2008 vi è un degno erede di Evolution, un’opera che ancor di più scandisce l’arte della sospensione evocata dal lirismo suggestivo di Lav Diaz: Melancholia.
Si riapre il dialogo sui peccati coloniali espiati dalle nuove generazioni e si allarga il diametro di temi trattati ad un taglio più universale: l’identità. Il regista segue, o documenta, il percorso di terapia di diversi personaggi intenti a scrollarsi dalle memorie le ferite di un paese che li ha accantonati all’angolo come randagi. Una suora che per istituzione tiene fede al suo voto di celibato ed è in cerca di offerte per la sua chiesa, una prostituta, sua conoscente, ed infine un pappone. Si scoprirà poi che questi sono solo ruoli assegnatigli come esercizio della terapia.
Cosa è finzione e cosa è realtà? Mascherare la propria identità e recitare una parte per abbandonare i traumi del subconscio
Melancholia è uno strumento metatestuale attraverso il quale il regista porta lo spettatore a razionalizzare il potere del cinema quando esso è adottato come forma di riflessione piuttosto che di evasione. Ancora una volta si è di fronte ad un film che esercita la sospensione delle certezze di ciò che è vero e ciò che è falso. Melancholia sottolinea quasi ironicamente che il film è un documentario su se stesso, nonostante sia una produzione di fiction per il semplice fatto di essere una performance documentata. I personaggi sono di fantasia e la storia un’immaginazione del regista e sceneggiatore Lav Diaz, la pellicola però non offre intrattenimento. Le illusioni sono infrante così come il concetto di escapism.
L’Iperrealtà di Melancholia: dicotomia “performance” e “non performance”
Il film, premio Orizzonti alla 65° Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, scandisce la menzogna che si rivela essere la verità di molti filippini. I personaggi del film la raggiungono solo attraverso una versione performativa di loro stessi: una verità concretizzata dalla recitazione. A tratti è autoreferenziale per la comparsa di personaggi secondari che richiamano la vita di Diaz.
Cinema nel cinema
Melancholia è una sorta di documentario fittizio trascritto nelle pagine di un romanzo con sequenze di un film. Sequenze toccanti, riflessioni crude ed un finale agghiacciante: il maestro Diaz lega le sorti dei personaggi e le maschere che indossano ad un forte parallelismo con l’identità tumultuosa del cittadino filippino. Nessun intrattenimento, ma pura riflessione sull’agonia delle Filippine, un paese che come i nostri protagonisti-performer deve reinventarsi e vestire dei panni nuovi per poter costruire una nuova identità culturale.
Norte, the End of History di Lav Diaz
Patria, potere e parossismo di un popolo
Il filo diegetico di Lav Diaz è aspramente marcato dai rapporti contenziosi tra le autorità e il popolo. I suoi film hanno un sanguinoso impulso politico di protesta contro gli standard e le aspettative imposte agli artisti di accomodare le pratiche consumeristiche degli spettatori o delle case di produzioni. Dal colonialismo spagnolo al capitalismo americano e alle leggi di Marshall sotto il regime di Ferdinando Marcos, un clima culturale mutevole… Diaz documenta il macchinoso processo di formazione dell’identità filippina.
“Devi accettare la tua responsabilità nei confronti della cultura del tuo Paese. Essendo consapevole di ciò che il mio Paese ha trascorso, cerco solo di contribuire, anche in minima parte, al miglioramento dell’umanità o a far progredire la cultura”.
Cresciuto nella parte del sud delle Filippine, nell’isola Mindanao, senza elettricità e nella vastità di una foresta, il regista riesce a rianimare le vite inerti che hanno segnato il suo vissuto in proiezioni cinematografiche pulsanti. Circondato da diverse tribù e indigeni, ha potuto essere testimone della miseria dei più marginalizzati.
Così la sua carriera è un’eterna promessa di raccontare patria, potere e il parossismo di un popolo muto e mutilato.
“Avevo storie da raccontare, questo è il mio punto di partenza. Voglio condividere storie e le difficoltà della gente, le mie proprie difficoltà, le difficoltà dell’umanità”.
Lav Diaz crea pertugi storici dedicando ogni progetto ad una diversa era storica affrontata dal suo paese: la rivoluzione delle Filippine, l’era pre-ispanica, l’era di Marcos, l’era del dominio giapponese, il regime di Rodrigo Duterte.
La dialettica di Diaz: narrazioni concretizzate nell’attesa stessa
Il malumore, causato da una società che riduce gli esseri umani a meri randagi, unifica tutti i suoi personaggi e pellicole. Diaz è abile nell’evocare il senso di perdizione dell’identità filippina per mezzo di un linguaggio cinematografico preciso. Gli eventi sono minimi, le inquadrature sono statiche e riprendono lo stesso obiettivo invariato per decine di minuti: una rappresentazione “più emotivamente onesta per gli attori e la scena”, direbbe Diaz.
I tempi stagnanti di Diaz: il ritmo è deliberato
Nella maggior parte delle opere, il suono è composto unicamente da parole e rumori ambientali che diventano un discorso imperante. L’assenza di colonna sonora forza lo spettatore alla concentrazione. Il nitido bianco e nero è solitamente elemento imprescindibile nonostante vi siano eccezioni cruciali come Norte, the End of History, thriller drammatico psicologico del 2013 che racconta la genesi del fascismo nelle Filippine. Con questa produzione, il regista-sceneggiatore-montatore-produttore sviluppa a pieno la sua nozione di “cinema di habitat”.
In Norte vi è l’abbandono degli impeccabili giochi di chiaro-scuri di Diaz per una fotografia a colori. La scelta è dettata dall’intervento della natura allo sviluppo delle storie dei suoi filmati. La penna di Lav sibila verità legate alla terra. Il cinema si cova nell’habitat dei personaggi ispirandone le caratterizzazioni. I colori tornano dopo essere stati accantonati dal regista per dodici anni. Rapito dalla bellezza delle province di Ilocos, regione destinata alle riprese del film, una settimana prima del loro inizio, Diaz ha la sua epifania.
Spesso Lav ribadisce come i filippini fossero “governati dalla natura”, come se navigassero uno spazio libero prima che il colonialismo spagnolo introducesse il concetto di proprietà, ed ecco perché vi è molto rigore nella rappresentazione degli spazi naturali, con riprese dedicate ad una foglia mossa dal rasentare del vento o il sottile danzare delle acque di un fiume.
Narrazioni di ampio respiro: ribellione ai costrutti sociali portati dai forestieri
“Non si tratta di una riflessione teorica sul bianco e nero, ma di un rapporto con la natura del cinema. Se c’è musica nel film è parte di esso, della storia o dei personaggi. Non è una colonna sonora, non è un ornamento né un artificio per arrivare alle emozioni. È più parte del carattere del film. Se si vuole vivere il cinema come dovrebbe essere, dovrebbe essere una cosa collettiva, una cosa tribale, una cosa del corpo”.
Il regista decide di onorare usi e costumi dei suoi antenati che hanno sempre osannato spazi aperti e tempi lunghi, “tempi liberi” o “Malay”, dislocando il suo discorso cinematografico in pellicole di dieci ore. Alba e il calare della luna sono i modi in cui i filippini hanno sempre concretizzato il tempo. Lav soffre per il tempo misurato come un capriccio governativo.
Cineprese vecchio stampo, formati di 16 mm e poi la resa al digitale, esclusione di primi piani, tagli rapidi e assemblaggi in stile montage, la meticolosità dell’entrata e uscita degli attori da una scena e la selezione di interpreti alle prime armi: questa è la drammaturgia di Diaz.
Un cinema emancipato
The Woman Who Left di Lav Diaz
L’influenza della letteratura russa: il binomio tempo e essere umano
La sua autenticità può dirsi speculare alla mancanza del “vero” di Hollywood. Le sue acrobazie cinematografiche non trovano campo nella spettacolarizzazione. Lav Diaz si agguerrisce contro il guscio vuoto che si rivelano essere molte uscite contemporanee. La sua maestria sta nel tradurre la nevrosi di un popolo e rendere l’indifferenza accattivante con una luce lieve piuttosto che abbagliante. Sharmaine Uy scrive: “Lav Diaz ha l’aspetto di un autore, irradia l’energia di un filosofo e parla come un insegnante”.
Diaz crea un cinema ermetico nella sua vastità
La forma e il contenuto sono un sublime omaggio all’arte, in un’era in cui si insegue il solo dio denaro. Continuamente in cerca di qualcosa e in attesa, esplora i comportamenti umani. La sua scrittura ha toni romanzeschi e novellistici. Rivela un impeto poetico volto a misurare l’entropia umana con narrazioni insabbiati nell’abulia.
Dostoevskji o Tolstoj: le firme auliche che ispirano lo stile letterario della sua prosa cinematografica
Fin dal suo esordio questi due autori, così come il romanzo ottocentesco in generale, hanno guidato i passi del regista. Norte, the End of History è una lode e adattamento di Delitto e castigo di Dostoevskij. Oscurato da nubi filippine e dalla repulsione di un “copia e incolla”, il film mantiene ferree l’ossatura della cinematografia di Diaz.
The Woman Who Left
Il film di 228 minuti sonda le radici dell’umanità in un terreno fertile di empietà. Ispirato al racconto breve di nove pagine di Tolstoj intitolato Dio vede la verità, ma aspetta. L’opera è il primo film filippino vincitore di un Leone d’oro, alla 73° Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia. The Woman Who Left (Ang babaeng humayo, 2016) parla di vendetta. Horacia viene erroneamente condannata a trent’anni di carcere per un omicidio mai commesso. Incarcerata durante l’esordio del regime di Marcos, sarà rilasciata nel 1997 nel cuore dell’instabilità finanziaria, causa di furti e rapimenti volti a riscatti.
Dio vede la verità è un’ottima storia oscura su come si possono incontrare inaspettatamente nella strada della propria vita diversi cataclismi, ma è vita. Può cambiare a 360 gradi in qualsiasi momento, ed è la storia di The Woman Who Left. Ho ancorato il film al 1976, un periodo molto cupo in cui era prominente il divario tra ricchi e poveri quindi il tema è anche una questione di ceto sociale.
Fedelmente presenti nella sua descrizione sono gli archetipi del prete, la donna dissennata, una figura militare adiacente ai dettami del nuovo regime e il ragazzino abbandonato. Il suo sforzo cinematografico esercita una sovversione dei paradigmi. Il suo registro artistico, la ricchezza dei temi trattati (sessualità, colpa e redenzione, identità, salute mentale..) palesano l’influenza della letteratura russa che assume la sua massima padronanza nel binomio tempo e essere umano, esplorato didascalicamente dagli autori russi così come dal regista.
From What is Before di Lav Diaz
Lav Diaz presenzierà la Mostra del Cinema di Venezia 2024 con il suo ultimo film, Phantosmia.
Vincitore di premi plurimi e apprezzato dalla critica, Lav Diaz è una mente aberrante del cinema contemporaneo. Portavoce di un consumo cinefilo socialmente consapevole, la sua arte è una solenne denuncia che si alimenta del dolore abbandonato all’oblio.