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Interviews

‘Playing God’ intervista con Matteo Burani e Arianna Gheller

Una scultura d’argilla prende vita nell’oscurità di un laboratorio, circondata da misteriose creature... Un cortometraggio diretto da Matteo Burani, animato (e prodotto) da Arianna Gheller

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matteo burani

In anteprima mondiale alla Mostra del Cinema di Venezia 2024 Playing God di Matteo Burani è l’unico film d’animazione in concorso quest’anno alla Settimana della Critica. Si tratta di un cortometraggio di nove minuti che ha come protagonista una scultura d’argilla che prende vita nell’oscurità di un laboratorio. Per la realizzazione Burani ha collaborato con Arianna Gheller, con la quale collabora dal 2017, e che ha lavorato alla produzione e all’animazione. La loro società, chiamata Studio Croma animation, realizza video in stop motion, videoclip e contenuti video per la pubblicità e il cinema, con un mix di tecniche di costruzione artigianale, tecnologia e processi digitali. Il film é stato realizzato anche con il sostegno di Emilia Romagna Film Commission.

Per capire meglio le tecniche utilizzate e conoscere in maniera più precisa questo tipo di animazione abbiamo fatto alcune domande a Matteo Burani e ad Arianna Gheller.

Matteo Burani e il suo Playing God

Come è nata l’idea di questo cortometraggio? Ho letto che è nato a seguito di un momento di crisi nel campo dell’animazione. Si può considerare, quindi, una sorta di rivalsa? Perché comunque hai spiegato questa crisi nell’animazione attraverso l’animazione, quindi Playing God è anche un po’ metacinematografico da questo punto di vista.

Matteo: Sì, sicuramente il sentimento è stato un sentimento di rivalsa nel voler creare un progetto che parlasse di questo, che tenesse, in un certo senso, alta la bandiera dell’animazione e potesse in qualche modo celebrare anche le potenzialità e l’espressività possibili con un certo tipo di animazione stop motion. Playing God nasce da un problema personale, da una situazione che ho vissuto ormai una vita fa.

Il problema di base era legato al fatto che sentivo una forte pressione sul lavoro e c’era un forte senso di insoddisfazione per vari tipi di giudizi negativi che ricevevo in termini di feedback riguardo a quello che producevo e a quello che realizzavo. Premetto che io nasco come scultore e pittore all’accademia e sono sempre stato condizionato dai giudizi in merito a quello che facevo perché comunque ho sempre prodotto tantissimo da un punto di vista artistico.

Immagine gentilmente concessa da ufficio stampa. Tutti i diritti riservati

Questo soggetto nello specifico è nato per caso quando ero a Milano. Stavo andando a lavorare su un set, era luglio 2017 e mi è venuta questa idea che ho scritto su un taccuino. All’epoca era solo il nucleo del cortometraggio, l’essenza. Poi, tornando in studio, nei mesi successivi con Arianna Gheller e Gianmarco Valentino, che è il co sceneggiatore assieme a me, abbiamo iniziato a trovare una quadra e la storia del cortometraggio si è sviluppata in corso d’opera, anno dopo anno molto lentamente. Anche perché è stato un percorso lento: da quando ho iniziato a scriverlo a ora sono passati quasi 7 anni di produzione. Anni che non sono stati mirati unicamente a questo, ma anche ad altri lavori, ma di fatto è passato molto tempo. Quindi possiamo dire che il concetto di rivalsa è stato un po’ il fuoco, una sorta di faro anche nel voler cercare di realizzare un progetto che parlasse di questo tipo di sensazione. Una rivalsa anche sul concetto di animazione e di come è vista in Italia.

Un lungo studio

Penso che la considerazione che si ha, soprattutto in Italia, del genere animazione abbia influito. Spesso è considerato una sorta di cinema di serie B, quindi penso, come hai anche detto, che si sia trattato di una rivalsa personale e di una rivalsa dell’animazione stessa.

Matteo Burani: Sì, diciamo di sì. Io ho iniziato ad approcciarmi per passione all’animazione stop motion come autodidatta insieme ad altri miei amici quando eravamo alle scuole superiori. Ho iniziato il mio percorso professionale proprio da lì e completamente da autodidatta, produzione dopo produzione. Tutto quello che ho imparato, quindi, riguardo questo mestiere è stato appreso dagli errori. E infatti è proprio questo il tipo di messaggio che in qualche modo volevo comunicare con Playing God: sbagliare, tutto sommato, è la strada più lunga però è quella che ti porta a una sorta di consapevolezza maggiore, almeno per quanto mi riguarda.

Un bel messaggio e una strada lunga in tutti i sensi quella che avete compiuto, visti i tempi per la realizzazione.

Matteo: Sì esatto. È stato difficile perché in quel periodo lavoravamo con altre produzioni tra cui Articulture a Bologna che ci ha prodotto diversi cortometraggi tra cui La Valigia. E poi abbiamo lavorato per Lo Zecchino d’Oro con video musicali. Quindi iniziare un progetto unicamente da soli senza l’appoggio di nessuna produzione non è stato semplicissimo. Ci siamo messi alla ricerca di produttori, cercavamo persone interessate, abbiamo provato a portare il progetto in giro per l’Europa raccogliendo feedback. Insomma è stato un percorso che è durato sette anni, ma che ci ha permesso di creare un po’ la nostra società e la nostra casa di produzione. Playing God è stato prodotto da noi e quindi è stato anche un trampolino di lancio, una scusa per buttarsi nella mischia.

matteo burani

Immagine gentilmente concessa da ufficio stampa. Tutti i diritti riservati

Metafore nel corto di Matteo Burani

Si tratta indubbiamente di un cortometraggio molto potente e, al di là di com’è nato, anche molto metaforico. Ho letto che c’è l’idea del laboratorio di Frankenstein che effettivamente è il primo riferimento che viene in mente guardandolo, ma non solo. Si potrebbero citare Pinocchio, la Creazione e anche, per certi aspetti, Tom & Jerry (con il padrone che, pur essendo celato, è un’entità superiore, un essere da rispettare). Qui lo Scultore è un’entità altra che può gestire e plasmare tutto a suo piacimento. In parte incarna il regista, in parte incarna, come si deduce dal titolo, una sorta di divinità, un Dio che plasma tutto dalla creta, come nelle migliori delle tradizioni.

Matteo: Il ragionamento sta proprio lì: creare questa sorta di dicotomia tra la figura dello scultore, che comunque rimane nascosta e celata (si ha una minima idea di quella che possa essere la sua faccia), e il fatto che si tratti di qualcosa di metaforico. C’è questa ricerca infinita di qualcosa e quel qualcosa è il mio messaggio. Poi, essendo tutto un po’ sfaccettato, ci si può trovare diversi significati in base alla soggettività.

In ogni caso volutamente non si capisce bene che cosa sta realmente ricercando e che cosa non sta andando bene all’interno di questa sua ricerca. Anche perché il film è diviso in due parti con tutta una prima parte della creazione, che coincide con l’introduzione del film, fino a quando non entra realmente questa figura dello scultore appoggiando il libro. Da lì c’è una sorta di cambio di registro: si entra in una fase di analisi che non si comprende bene e che rappresenta, in qualche modo, un tipo di giudizio che porta dolore. Tutti quanti sono stati vittime, in un certo senso, di questa soggettività che li ha rovinati nel tentativo di essere speciali.

Arianna Gheller e la realizzazione di Playing God

Come avviene concretamente la realizzazione di un cortometraggio come Playing God?

Arianna: c’è da premettere che siamo di fronte a un’animazione molto particolare. Di solito nella stop motion si tende a fare la classica puppet animation, ovvero costruire dei pupazzi e animarli. Invece in questo caso è stata una pura sperimentazione. Abbiamo scelto di utilizzare ben tre tecniche diverse tutte insieme, tutte con le loro difficoltà e i loro tempi di realizzazione.

Immagine gentilmente concessa da ufficio stampa. Tutti i diritti riservati

In Playing God ci sono la classica puppet animation, la clay animation e la pixelation. Abbiamo dovuto studiarle un po’ per riuscire a realizzarle e unirle tutte insieme. E abbiamo scelto queste tecniche perché ognuna aveva una sua caratteristica. La clay animation, per esempio, si adatta molto bene a raccontare la sintesi della storia e volevamo dare l’idea della carne, dei fluidi per cui abbiamo scelto la plastilina che simula la creta. All’inizio del corto, per esempio, c’è questa fase di morphing in cui le forme si vanno a creare e si evolvono e la clay animation era l’unica tecnica che poteva servire al nostro scopo.

Non è stato facile realizzarlo perché anche noi abbiamo dovuto sperimentare e imparare a farla (infatti le prime animazioni sono state dei flop, abbiamo dovute cancellarle). Poi abbiamo affinato la tecnica durante gli anni. Si tratta di una tecnica molto complessa (alcuni frame hanno richiesto 30/40 minuti per realizzarli perché i personaggi sono interamente coperti di plastilina) alla quale bisogna prestare molta attenzione. Per la plastilina, in caso di rottura, andava ricostruita con un processo per ogni frame molto lento, che richiedeva lisciatura e attenzione all’anatomia del corpo. In tutto ciò bisognava concentrarsi sulle espressioni e sulle emozioni.

Ad aumentare la difficoltà posso dire che il protagonista è venuto fuori facendolo che è una cosa inconsueta per le produzioni in animazione perché di solito si tende a prevedere tutto in preproduzione. Qui, invece, è stata una continua esplorazione, arte pura.

Matteo Burani: ci sono tanti escamotage nel mondo dell’animazione stop motion per evitare la plastilina perché è un fattore incontrollabile, è un materiale che si modella e che va sempre ritoccato. L’idea di voler usare la plastilina era per rimanere il più puri possibili. Poi si è legato anche con la storia perché i personaggi sono fatti concettualmente di argilla, un materiale che si può modellare. Potevamo scegliere altro materiale più resistente e che si sarebbe modificato meno, ma non l’abbiamo fatto per una questione di aderenza alla storia. Così facendo, però, ci siamo allungati anche con i tempi di produzione, di animazione, perché abbiamo voluto mantenere tutte quelle piccole imperfezioni che la plastilina in animazione dà, come il creare un senso di matericità unica che solo la stop motion può regalare. Non a caso, infatti, il cortometraggio nasce proprio come un prodotto che poteva essere realizzato solamente in stop motion. Ed è stato questo un punto molto interessante perché noi siamo una produzione di animazione stop motion, ma il concetto iniziale era quello di creare un mondo fantastico di personaggi di argilla che interagivano con un essere umano. Insomma volevamo creare una connessione che fosse possibile solo attraverso l’animazione.

Immagine gentilmente concessa da ufficio stampa. Tutti i diritti riservati

Arianna: Sì e poi volevamo mantenere forte l’idea della carne, della matericità. Per aggiungere ancora più espressività abbiamo fatto una grossa ricerca sui fluidi corporei. Infatti nel corto si vedono le lacrime e la saliva ed è tutto molto materico perché volevamo accentuare queste sensazioni di carne. E non è stato facile. In animazione stop motion è molto difficile realizzarlo perché i fluidi, per la loro caratteristica, sono incontrollabili e nell’animazione abbiamo bisogno di controllare tutto. Quindi abbiamo fatto una grossa ricerca su quali potevano essere i materiali adatti per ricreare questi effetti. Siamo andati su delle colle elastiche, dei gel per ricreare le lacrime perché, essendo un po’ più densi, ti permettono di animarli.

Il metacinema

Quindi un lavoro impegnativo come tempi e come ricerche.

Matteo: ovviamente questo tipo di concentrazione, di lavoro e di qualità è stato possibile anche grazie al minutaggio. Sarebbe (stato) impensabile realizzare allo stesso modo un lungometraggio. Questo è un film che nasce per essere un cortometraggio e per quanto mi riguarda sarebbe impossibile trasportarlo in lungo. Quello che volevo raccontare doveva essere raccontato così.  Molto spesso il cortometraggio viene visto come un trampolino di lancio poi per andare a realizzare un lungo, ma non sempre è così. Il cortometraggio ha un senso perché ci sono storie che vale la pena essere raccontate solamente dentro questo tipo di minutaggio. È a tutti gli effetti una forma d’arte: l’audiovisivo che è una poesia.

In qualche modo si potrebbe quasi dire che Playing God rappresenta questa evoluzione e questo studio che avete fatto perché se all’inizio vediamo solo i personaggi di creta e il protagonista che viene modellato, poi appare lo scultore che richiama un po’ l’idea della realtà, cioè sembra un’animazione ancora più vicina alla realtà e rappresenta un po’ anche tutti i processi che avete fatto per arrivare alla creazione.

Arianna: mi viene da pensare che è ancora più metacinematografico dal momento che abbiamo utilizzato varie tecniche, che sono i vari livelli, e poi addirittura l’uomo, cioè Matteo, che è regista, ma è stato anche l’attore pixelation. In alcune scene ha dovuto proprio materialmente interagire con un grosso pupazzo che abbiamo realizzato (una riproduzione del suo corpo in dimensioni 1:1) perché in alcune scene era molto difficile far interagire le tre tecniche insieme e lasciare l’attore, cioè lui, tutto quel tempo sul set. Quindi abbiamo dovuto creare questo grande pupazzo e il discorso meta è ancora più meta perché dal momento che c’era questo pupazzo lui in alcune scene ha dovuto proprio interagirci entrandoci dentro e io lo animavo e quindi è una cosa ancora più meta effettivamente.

Immagine gentilmente concessa da ufficio stampa. Tutti i diritti riservati

Matteo Burani: approfitto di questo per aprire un’ultima piccola parentesi sul punto di vista tecnico. In animazione stop motion quando c’è una parte umana o più parti umane che interagiscono frame by frame si chiama come tecnica pixelation. A proposito di questa tecnica, che viene usata abbastanza, si può trovare qualcosa su youtube. Il problema, però, è che l’attore che si presta per l’animazione deve rimanere fermo per tutto il tempo e deve essere animato esattamente come un puppet. Questo significa che se in animazione stop motion un secondo di animazione corrisponde a 25 fotografie più o meno, per creare un secondo occorre realizzare 25 fotografie. Se poi andiamo a complicare la cosa dicendo che c’è anche un puppet, c’è anche la plastilina e ci sono le mani fra una fotografia e l’altra possono passare anche una ventina di minuti, a volte, per sistemare il frame.

Quindi le sessioni di animazione duravano ore e la preparazione, anche per piccole scene di pochi secondi dove comparivano le mie mani e che apparentemente possono sembrare estremamente facili, corrispondevano a mezze giornate o addirittura giornate intere di straziante tempo sul set a stare fermo. Ed è stato fisicamente molto complicato, con performance che richiedevano, prima di andare sul set, 20-30 minuti di concentrazione. Per fortuna abbiamo giocato molto su questo puppet che sostituiva il mio corpo, anche e soprattutto per le scene in cui serviva un’altezza maggiore, un corpo di maggiore stazza per simulare le differenze di grandezza, le maggiori prospettive e per dare un senso più fantastico e grottesco.

Le musiche di Playing God

Un altro aspetto interessante è quello relativo alle musiche. In Playing God non ci sono parole, ma è la musica a fare da collante.

Matteo: Devo dire che il cortometraggio nasce per essere muto. Io personalmente preferisco non avere parole nel formato cortometraggio. Ovviamente dipende dal tipo di film. In generale, però, preferisco un’espressività dovuta alla regia, alle immagini mischiate con le musiche. Riesco a trovare più emotività in questo tipo di narrazioni e, appunto, per Playing God siamo andati in questa direzione anche se non facile perché tutto deve parlare al posto delle parole, quindi ogni inquadratura deve essere equilibrata per comunicare il più possibile. E anche il montaggio deve cercare di essere il più possibile comunicativo. La musica, in questo caso, gioca un ruolo fondamentale e, insieme al suono, sono state le vere e proprie parole del cortometraggio.

La mia prima idea era di realizzare, insieme a Pierdario Forni, musicista di Bologna che però vive in Inghilterra e che, insieme ad altri ragazzi, fa parte di una band, qualcosa di diverso dal solito. Volevamo realizzare qualcosa che non fosse troppo aulico, ma che avesse una componente vocale molto presente all’interno. Alla fine abbiamo fuso questa intenzione, mischiandola con un po’ di industrial e con vari tipi di sonorità (abbiamo anche usato le ocarine di Budrio, strumenti in terracotta).

Secondo me questo tipo di musica insieme alle atmosfere cupe ha contribuito a creare una specifica atmosfera che richiama le tematiche principali.

Matteo: il rischio di andare a creare un cortometraggio horror sposandosi con le immagini era altissimo. Invece il ruolo della musica e tutto lo sforzo di dirottare proprio le immagini, già di per sé molto grottesche, hanno aiutato a evitare la creazione di un cortometraggio horror. Lo ha reso più sentimentale, dando ai personaggi aspetti che non richiamano l’idea dello zombie, ma quello di creature, quasi persone. Facendo così riusciamo a percepire la loro agitazione e la loro sofferenza. Per quanto mi riguarda questa è stata la più grande sfida nella parte musicale: non cadere nell’ambientazione horror.

Immagine gentilmente concessa da ufficio stampa. Tutti i diritti riservati

Il cortometraggio doveva e deve esprimere altro e l’idea era che ci si dimenticasse in un certo momento che si sta guardando dei mostri. Questo era un po’ l’obiettivo da ottenere con la musica.

Ma infatti la sensazione che si percepisce è quella di essere come il protagonista, un po’ oppressi. Non c’è orrore. Si notano i temi centrali (il giudizio degli altri, la cattiveria), ma non si percepisce un discorso relativo all’horror.

Arianna: siamo contenti di questo perché il nostro progetto era totalmente contrario alle regole di mercato. Ci sono sempre un po’ queste regole non scritte che un prodotto per essere accettato forse deve essere accomodante, rotondeggiante, con dei colori un po’ più vivaci, quindi avevamo un po’ paura che non venisse accettato.

Matteo Burani e Arianna Gheller a Venezia

E poi c’è la vetrina di Venezia.

Matteo Burani: Noi siamo ovviamente molto contenti di questa selezione. Da quando abbiamo finito il cortometraggio, più o meno a fine maggio, abbiamo iniziato un po’ a provare varie première puntando anche a grandi festival di animazione. Io, però, speravo tantissimo potesse entrare a Venezia proprio perché, nonostante fossero tutti festival internazionali, ci tenevo ad avere un palcoscenico italiano.

Perché è un qualcosa che, avendo iniziato molto presto, si è evoluto con me. Ho visto, nel mio piccolo, diversi step evolutivi riguardo l’animazione, soprattutto in questi ultimi dieci anni. Ed è una cosa che mi fa sorridere perché ricordo che quando ho iniziato non c’era assolutamente alcun modo di vedere delle immagini, di capire come muoversi per realizzare i primi puppet o le prime scenografie. L’unico modo era comprarsi i libri di backstage delle grandi produzioni che avevano quelle poche foto ogni tanto e da lì guardarle e studiare quel dettaglio che poteva interessare.

Adesso, invece, c’è una condivisione online su Youtube tra persone che fanno qualsiasi tipo di corsi, di masterclass, di video. Anche noi realizziamo i nostri contenuti social, anche basati su backstage, proprio per tenere informati il più possibile perché questo permette un aiuto importante a persone che vogliono iniziare questa carriera.

Spero, quindi, che tutto questo porti ad avere un occhio di riguardo sulle produzioni in animazione in Italia perché l’animazione è qualcosa che può essere utilizzato per raccontare storie per bambini, ma può essere utilizzato per raccontare anche storie per adulti ed essere forme d’arte a tutti gli effetti. A tal proposito si può citare il Pinocchio di Guillermo del Toro, una storia che parla di vita e di morte in una maniera adulta e che non è un Pinocchio per bambini come la maggior parte delle persone si aspettano.

Sono Veronica e qui puoi trovare altri miei articoli

Playing God

  • Anno: 2024
  • Durata: 9'
  • Distribuzione: Sayonara Film
  • Regia: Matteo Burani

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