Alla 77esima edizione del Locarno Film Festival la cinefilia più rétro e sognante scorre tra fotogrammi in bianco e nero o a colori, tra primi piani divistici e talenti dimenticati, registi epocali e autori di nicchia, capolavori, versioni restaurate e perle misconosciute. La signora con la torcia è la retrospettiva dedicata al centenario della Columbia Pictures, casa di produzione fondata il 10 gennaio 1924, identificata nell’immaginario collettivo con un logo che più di altri ha saputo far breccia nella memoria degli spettatori, soprattutto statunitensi: la signora con la torcia è la donna con il drappo che simboleggia la Columbia, la personificazione femminile degli Stati Uniti d’America e per estensione, tramite la scoperta di Colombo, di tutto il continente americano.
Columbia Pictures, un successo che dura (quasi) tuttora
Inglobata nell’impero audiovisivo della Sony nel 1989, negli ultimi vent’anni la Columbia Pictures è stata co-artefice del successo di saghe come quella di Spider Man, Charlie’s Angels, James Bond, Men in Black, Jumanji, Ghostbusters, senza trascurare pellicole più autoriali (quelle di Quentin Tarantino). Nel periodo classico contemplato dalla retrospettiva, tra l’avvento del sonoro e la fine degli anni Cinquanta, a fare da padrone era letteralmente il fondatore Harry Cohn, personalità ambivalente, produttore lungimirante dal carattere titanico, tanto che la giornalista Hedda Hopper affermò di lui: “dovevi metterti in fila per odiarlo”.
Se il suo diktat lavorativo esigeva film realizzati con budget contenuto, girati in fretta e soprattutto “very well”, innegabile il lustro artistico che la Columbia seppe conquistarsi sotto la sua direzione, prima con i successi del muto, poi negli anni Trenta con altrettanti trionfi al botteghino (un nome tra tutti: Frank Capra).
Scrivendo il firmamento
Così una delle maggiori major dell’età aurea di Hollywood ci ha regalato tesori indimenticabili firmati da Howard Hawks, Frank Borzage, Dorothy Arzner, Fritz Lang, George Stevens e John Ford, il divismo di talento di interpreti come Rita Hayworth, Jean Arthur, Orson Wells, Rosalind Russell, Cary Grant, Boris Karloff, Richard Burton e William Holden. Il Locarno Film Festival ha permesso di ripercorrere i capitoli più fulgidi di questo longevo e propizio percorso produttivo che ha plasmato la storia del cinema americano e il patrimonio cinefilo degli spettatori, grazie a una selezione poliedrica ed esaustiva. Citando le parole del curatore Ehsan Khoshbakht:
pensate alle donne in carriera della screwball comedy, con la loro parlata frenetica, o ancora ai cowboy esistenzialisti, ai film a basso budget antifascisti e profetici e a quelli di sconcertante impatto sociale. Grazie a Sony, sarà possibile proiettare a Locarno, tra tanti capolavori della Columbia, anche le versioni restaurate di film di John Ford e Phil Karlson.
Al di là classici intramontabili e celebri come Ventesimo secolo (1934) di Howard Hawks, La signora di Shanghai (1947) di Orson Welles e Il grande caldo (1953) di Fritz Lang, proponiamo una mini guida critica a solo alcuni dei titoli più sorprendenti che, per qualità di stile o per sguardo registico originale, meritano di essere visti o rivisti, rintracciati e riscoperti: un viaggio nella Hollywood degli studios, non solo fabbrica di compromessi e meccanismi rodati, ma di sogni e slanci immaginifici.
Vicino alle stelle (Man’s Castle, 1933)
Altre pellicole degli anni Trenta avevano dispiegato il più classico dei soggetti “boy meets girl” nel quadro della Grande Depressione e nelle cadenze della commedia romantica (primo fra tutti, per primato agli Oscar, Accadde una notte di Frank Capra), senza però riuscire come Frank Borzage a infondere con il suo personale touch un’elevazione trascendentale nel realismo sociale, un’aura di incanto nei rapporti di forza dei personaggi, un fiducia nell’umano che non sfiora mai retoriche melense, una compassione che invoca dignità e non pietismo.
Il plot che ruota attorno all’incontro di amorose corrispondenze tra Bill (Spencer Tracy), accattone che vive alla giornata, e Trina (Loretta Young), soave fanciulla a un passo dal suicidio, diventa, forzando la semplicità di vicenda comune, un ingranaggio narrativo dove la commedia degli equivoci flirta con la risata aperta, dove il romanticismo brilla tra luci dell’amore e le ombre della disillusione e della paura; in questo modo uno stereotipo ordinario, un cliché da canovaccio, si emancipa per invenzioni tenere e battute fulminanti.
Morbidezza delle inquadrature, sfumati giochi chiaroscurali, analogie al montaggio: la regia di Borzage concorre a plasmare un sottobosco antropico impalpabile e onirico pur nella concretezza del contesto, a fluttuare in una piccola commedia umana schietta e gentile, in una terra promessa di solidarietà e fratellanza (ma non ignara della negatività del vivere) dall’alone lunare. Un capolavoro senza eguali nel catalogo della Columbia.
Per concessione del Locarno Film Festival © 1933, renewed 1981 Columbia Pictures Industries, Inc. All Rights Reserved.
Mia sorella Evelina (My Sister Eileen, 1942)
Basato su una pièce di Joseph A. Fields e Jerome Chodorov, a loro volta ispirati da un’antologia di racconti autobiografici di Ruth McKenney pubblicati sul “New Yorker”, My Sister Eileen di Alexander Hall (che aveva girato l’anno prima il suo film migliore, L’inafferrabile signor Jordan), è una screwball comedy canonica e atipica allo stesso tempo, non serratamente ancorata allo schema ‘boy meets girl’, alla battaglia dei sessi o allo topos del ri-matrimonio. Si narrano le buffe disavventure di due giovani sorelle provenienti dal provinciale Ohio, Ruth ed Eileen, in cerca di fortuna a New York, la prima come giornalista, l’altra come attrice.
Pur scandito da una regia non sempre compatta e da un impianto scenico troppo statico e teatrale (come da origine), My Sister Eileen è una messinscena scoppiettante di risate, tragicomici imprevisti, battute fulminanti, girotondo di personaggi stralunati, come una bottiglia di modesto spumante al suono della sua apertura. È anche, seppur girato negli studi della Columbia a Los Angeles, uno spaccato verosimile dello stile di vita al Greenwich Village che trae più vivacità pittoresca dalla finzione che dalla realtà. Si staglia tra gli interpreti Rosalind Russell nel ruolo di Ruth, reduce dal successo di La signora del venerdì (1940) di Howard Hawks.
Per concessione del Locarno Film Festival © 1942, renewed 1981 Columbia Pictures Industries, Inc. All Rights Reserved.
Mysterious Intruder (id., 1946)
Se esistesse un dio minore figlio di Il grande sonno (1946) di Howard Hawks, per intreccio complicatissimo difficile da sbrogliare (persino per lo stesso autore, come fu per Raymond Chandler), questo sarebbe Mysterious Intruder, un breve lungometraggio di William Castle che iscrive intorno a sé uno contorno noir di aneddoti e storie pulp. Il film è basato sul dramma radiofonico The Whislter, andato in onda sulla CBS dal 1942 al 1955, dove le storie criminali raccontate, all’insegna di un beffardo destino, venivano introdotte e commentate da un anonimo e sinistro “fischiatore” e da un inquietante motivetto musicale, che troviamo anche in Mysterious Intruder.
Alla realtà del programma radiofonico si intreccia la carriera curiosa di William Castle (futuro produttore di Rosemary’s Baby), eccellenza alla Columbia dei B-movies girati in tempi serrati, che diresse anche quattro degli otto film della major basati su The Whistler (tutti dalla durata sui 60 minuti). Nonostante il budget ridotto, Castle riuscì sempre a ingegnarsi oltre misura attuando espedienti extra-filmici per mantenere viva la paura e la suspense, come quando per il film Il mostro di sangue (1959) inventò delle poltrone in sala munite di fili elettrici per simulare negli spettatori i brividi provati dai protagonisti sullo schermo.
Mysterious Intruder, considerato il migliore della serie The Whistler e incentrato sulla ricerca arzigogolata di un MacGuffin da parte di un detective privato senza scrupoli, può essere assurto a piccola summa dell’estetica figurativa e dei clichè, appassionanti, del noir: investigatori corrotti, bionde ingannevoli, identità fasulle, preziosità perdute, strade notturne, netti contrasti chiaroscurali, colpi di scena dove, come da canonica aspettativa, vige una fatalità ineluttabile.
Per concessione del Locarno Film Festival ©Columbia Pictures Industries, Inc. All Rights Reserved
Mani lorde (The Undercover Man, 1949)
Un film meno epocale ma riguardevole del più grande maestro statunitense di B-movie, Jospeh H. Lewis, che firmerà l’anno successivo un capolavoro del noir on the road, La sanguinaria. Con un taglio semidocumentaristico in voga nel cinema a stelle e strisce degli anni Quaranta, Mani lorde è un poliziesco a sfondo noir che segue le indagini di un agente federale (Glenn Ford) per arrestare il capo della malavita organizzata in una città senza nome identificabile con Chicago.
Ispirato a un articolo giornalistico sull’arresto di Al Capone (mai nominato), si distingue per l’abilità, propria del regista, di far respirare con pochi mezzi il clima malsano del sottobosco delinquenziale, in una narrazione tesa e asciutta, dove trovano spazio la statura morale del protagonista, quel romanticismo disperato ricorrente nella filmografia di Lewis, la precisione della macchina da presa che sopperisce alla frugalità del budget a disposizione. Ancora una volta, un piccolo manuale di regia.
Per concessione del Locarno Film Festival © 1949, renewed 1976 Columbia Pictures Industries, Inc. All Rights Reserved.
Mia sorella Evelina (My Sister Eileen, 1955)
Remake del film precedente ad opera di Richard Quine, con il medesimo plot, ma con un altro taglio di genere: nei toni della commedia garbata e a tratti sopra le righe per i suoi esuberanti personaggi, si iscrive un musical stilizzato dai toni pastello, con le coreografie del futuro regista Bob Fosse, qui per la prima volta impegnato al cinema. Con numeri danzati non inventivi ma di incantevole tenerezza e il tripudio di piani panoramici in CinemaScope non sempre funzionali al racconto, merita una visione più attenta del predecessore per un sostrato dolceamaro di malinconia che non incrina però la sua allegria di cartapesta.
In questo piccolo e affollato microcosmo racchiuso in un piccolo appartamento al Greenwich Village (ancora una volta irresistibilmente suburbano) il podio di bravura non spetta tanto alle due protagoniste (tra cui Janet Leigh, lontana dalla valorizzazione drammatica che ne darà Alfred Hitchcock) ma a un giovane Jack Lemmon agli inizi della carriera. qui negli inediti panni canori di un seduttore a cui l’attore dona, nel suo stile, accenti della sua istrionica e buffa ironia. Resterà negli annali anche per essere uno dei film preferiti di Jean-Luc Godard.
Per concessione del Locarno Film Festival © 1955, renewed 1983 Columbia Pictures Industries, Inc. All Rights Reserved
Assassinio per contratto (Murder by Contract, 1958)
A sancirne la qualità anticonvenzionale basterebbe una dichiarazione di Martin Scorsese: “è il film che più mi ha influenzato” (in particolare per Taxi Driver, ndr). Noir senza atmosfera di genere, poliziesco senza indagini, B-movie a basso costo che non sfigurerebbe nella filmografia di Robert Bresson. Con la regia di Irving Lerner (che faceva parte della lista nera di Hollywood) Assassinio per contratto delinea con uno stile sobrio ed essenziale il ritratto di un sicario, Claude, al soldo di un boss, incaricato di uccidere un testimone sotto scorta di un processo che avverrà tra pochi giorni. Controllato a vista da due scagnozzi del capo, che devono assicurare la riuscita del suo piano, l’omicidio risulterà meno facile del previsto per il protagonista: la vittima è infatti una donna; Claude non la ritiene un bersaglio fattibile e gli eventi presto precipitano in modo famigerato.
Regna un quid sfuggente, sinistro, inesorabile in Assassinio per contratto, contro l’imperturbabilità caustica e serafica del protagonista, la cui fede nichilista (si improvvisa killer per comprarsi una casa sulle rive del fiume Ohio) viene contraddetta da un residuo di etica camuffato per superstizione. Se una regia decisa e senza orpelli consegue il miracoloso equilibrio tra tensione narrativa e rarefatto manto psicologico che mira direttamente alle aporie dell’esistenza, il merito va riconosciuto anche al grande direttore della fotografia Lucien Ballard, che con limitati mezzi e una scena scabra (tra interni sobri ed esterni di quartiere) riesce a creare una spirale di qualcosa di metafisico che turba e intriga.
Per concessione del Locarno Film Festival ©1958, renewed 1986 Columbia Pictures Industries, Inc. All Rights Reserved