Abbiamo avuto la possibilità di conoscere Claudia Cipriani, regista e giornalista, e di vedere il suo ultimo docu-film sulla storia di Carlo Giuliani dal titolo Di vita non si muore, durante la rassegna del cineforum presso il Laboratorio Autogestito Paratod@s di Verona.
Durante quella serata primaverile Claudia Cipriani ha impressionato il pubblico non solo con il suo film, ma anche durante il dibattito, grazie alla sua personalità coraggiosa, empatica e profondamente sensibile. Di vita non si muore è un documentario che esplora gli eventi e le conseguenze legate alla morte di Carlo Giuliani, il giovane attivista italiano ucciso durante il G8 di Genova nel 2001. Attraverso interviste e testimonianze personali, il film cerca di offrire un ritratto umano di Carlo e di approfondire il contesto socio-politico di quei giorni drammatici.
Quali motivazioni hanno spinto a girare un docufilm sulla storia di Carlo Giuliani? Era un progetto contemplato già da tempo?
In realtà l’idea è nata quando ho incontrato Haidi Giuliani, la madre di Carlo, durante la presentazione a Genova di un mio precedente lavoro su Giuseppe Pinelli. In quell’occasione, parlai con lei della possibilità di raccontare Carlo. Fino a quel momento Haidi aveva sempre rifiutato le offerte di altri registi, sia perché non le piacevano le sceneggiature che le venivano proposte, sia perché diceva che era la morte di Carlo ad essere pubblica, mentre invece la sua vita doveva rimanere privata. Poi però mi disse che aveva ragionato sul fatto che, in questi ultimi 20 anni, sono state dette molte cose sulla vita di Carlo, soprattutto per infangarne la memoria e dunque forse era il momento di raccontare chi fosse davvero questo ragazzo.
Il montaggio del film dimostra la capacità e la sensibilità in grado di mostrare allo spettatore quanto Carlo fosse sia un ragazzo comune, come qualsiasi della sua età, ma anche un giovane con le sue peculiarità, la passione per la poesia e le grandi capacità di scrittura. Potremmo guardare alla figura di Carlo come a un leader che non voleva o meglio non era consapevole di esserlo?
Per me era molto importante andare al di là del simbolo che è stato costruito di Carlo Giuliani. C’è chi ne ha fatto una sorta di santino, raccontandolo come il militante duro e puro che si sacrifica, e chi invece lo ha strumentalizzato, dipingendolo come il ragazzo violento con l’estintore. Carlo non rispecchiava né l’una né l’altra delle etichette che gli sono state appiccicate addosso. Inoltre, come dichiaro all’inizio del film, era una persona che tutto avrebbe voluto diventare fuorché un simbolo. Quando ho deciso di imbarcarmi in questo progetto, ho cercato di capire che senso potesse avere, per me e per un pubblico, raccontare la vita di Carlo. Dopo aver ascoltato tante testimonianze di chi lo ha conosciuto da vicino, quello che mi ha più affascinato di lui è stato il suo essere libertario in senso assoluto.
In che senso?
Intendo dire che Carlo era una persona molto lontana da qualsiasi atteggiamento dogmatico, manicheo, giudicante. Rifiutava di mettere etichette a persone e situazioni, e rifiutava di essere etichettato. Io penso che questo suo atteggiamento possa essere fonte d’ispirazione. Viviamo in un periodo in cui è dominante l’attitudine al manicheismo, a dividere tutto in nero e bianco, buono e cattivo e quindi a banalizzare qualsiasi discussione. Si creano capri espiatori in un clima da caccia alle streghe. Inoltre, mi sono sentita molto in sintonia con il modo di fare politica di Carlo, con quel suo essere periferico rispetto a molti gruppi e schieramenti politici.
Carlo Giuliani osservava attentamente ciò che lo circondava e ciò che accadeva nel mondo, ma la cosa più importante per lui era tenere unite le proprie scelte di vita e di fare politica. Io penso, come lui, che non abbiamo bisogno di simboli, né tantomeno di leader. Abbiamo bisogno di condivisione, di autogestione, di orizzontalità nelle relazioni e di persone che cercano di portare avanti scelte coerenti di vita. Ho cercato di intrecciare queste due linee narrative in modo fluido e armonico, per cui alcuni episodi della vita di Carlo diventano anche l’occasione per ampliare lo sguardo a ciò che accadeva nel mondo in quel momento.
Sono molte le persone che parlano nel corso del film, restituendo ciascuna un tassello di un mosaico che va a comporre la vita di Carlo, ma anche il contesto storico e politico dell’epoca. Mi piace dire che Carlo viene fuori tra gli interstizi di quei tasselli, perché non volevo dare di lui una visione definitiva e statica. Carlo stesso ci parla esclusivamente attraverso le sue poesie e i suoi scritti, che ci parlano di smarrimento, di rabbia, di dubbi, ma anche della bellezza che possiamo scorgere in ciò che ci circonda.
Il film è un docufilm: ovvero vediamo scene di vita realmente accaduta, soprattutto le immagini crude di quello che fu il G8 di Genova e scene recitate da attori. Il protagonista, che interpreta Carlo, è incredibilmente simile a lui. Come vi siete conosciuti e come è entrato a far parte di questo progetto?
Sì, nel film ho scelto di utilizzare anche sequenze di finzione. La finzione nel documentario è un terreno molto scivoloso e rischioso, e quindi ci ho pensato parecchio. È stata anche un’opzione necessaria perché di Carlo Giuliani esistono pochissime fotografie e un solo breve video filmato dal padre. A me non dispiace sperimentare e sconfinare tra i generi. Cerco soprattutto di trovare per ciascuna storia una modalità narrativa particolare, diversa da quella di altre storie che ho raccontato. Per questo film su Carlo ho utilizzato materiale d’archivio, sequenze di finzione e disegni che ho voluto animare come in una sorta di collage, mescolandoli con le fotografie.
La decisione di ricorrere alla finzione l’ho presa quando ho fatto le prime prove di ripresa con Ernesto Spazzali, che interpreta Carlo. Solo quando ho cominciato a seguirlo con la videocamera, tra i vicoli di Genova e le rovine di Forte Sperone, mi sono resa conto che quelle parti di finzione potevano funzionare. Ernesto è molto simile a Carlo non solo fisicamente, ma anche nella gestualità. Inoltre, abbiamo avuto subito una totale sintonia e ha capito benissimo come e perché volevo girare determinate scene. È stato molto bravo e lo sono stati anche gli altri ragazzi che hanno partecipato, tutti attori non professionisti.
La promozione del film ha superato anche i confini italiani, in Germania e in altri stati europei. Com’è sembrata l’accoglienza del pubblico di fronte a questa drammatica storia?
È stato molto importante per me relazionarmi con un pubblico fuori dall’Italia per capirne e valutarne le reazioni. Dopo le proiezioni, ci sono stati dibattiti molto interessanti che mi hanno fatto comprendere che ciò che viene raccontato nel film è condiviso da molte persone diverse, di diversa provenienza e di diverse età.
I coetanei di Carlo ritrovano parte della loro esperienza perché gli ideali di quegli anni e le pratiche concrete alternative al neoliberismo erano condivise da milioni.
Questa è stata una delle forze del cosiddetto Movimento No Global, un movimento che, nonostante le enormi differenze al suo interno, aveva dei forti obiettivi comuni. Questo è un po’ ciò che invece manca oggi.
I ragazzi più giovani trovano spesso molti spunti di confronto con l’attualità. Su questo ho voluto insistere nel film, perché sono convinta che le idee e le battaglie di 25 anni fa siano tutte qui e ora. Il racconto del passato non deve essere un esercizio sterile di memoria, ma penso debba aiutarci a capire e problematizzare il presente. Per questo sono stata felice quando i giovanissimi presenti in sala mi hanno chiesto di poter proiettare il film durante le autogestioni, negli istituti superiori e nelle università.
Per concludere, ci piacerebbe chiedere cosa riserva il futuro alla regista Claudia Cipriani. Ci sono progetti in corso di lavorazione?
Ho diverse idee, ma ancora non mi sono imbarcata in nessun progetto concretamente. Sono un po’ confusa al momento. Partire con un nuovo progetto, soprattutto quando si tratta di documentari, è molto faticoso. Devo cercare di capire a cosa dare la priorità in un momento in cui lo smarrimento regna sovrano. Intendo dire sia a livello generale che personale.
Editing Martina Volpato