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‘Nobody leaves alive’ intervista con il regista André Ristum

La dolorosa storia vera di uno dei più grandi manicomi brasiliani

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Nobody leaves alive di André Ristum, che ha avuto la prima mondiale con grande successo al PÖFF – Tallinn Black Nights Film Festival, e la sua prima italiana al Social World Film Festival, ha vinto il premio per il miglior film e per la miglior sceneggiatura.

Nobody leaves alive è un film teso, che racconta la dolorosa storia vera di uno dei più grandi manicomi brasiliani, dove per decenni migliaia di pazienti, con o senza diagnosi di malattia mentale, sono stati ricoverati a forza e in molti casi sterminati, in una delle più gravi violazioni dei diritti umani nella storia recente del Paese. L’impatto dell’approccio di Franco Basaglia fu decisivo per cambiare la situazione, non solo in Italia, ma anche in Brasile, dove fino a allora i manicomi erano come prigioni.

Per capire meglio il film abbiamo fatto alcune domande al regista André Ristum.

André Ristum e il suo Nobody Leaves Alive

Come hai scelto questa storia? Considerando la tua versatilità sotto tutti i punti di vista (sei brasiliano, nato a Londra e vissuto a Roma), questo spaccato così variegato in qualche modo ti rispecchia? E poi c’è un legame con l’Italia (anche se non detto esplicitamente, c’è il richiamo alla legge Basaglia).

Sì, io sono figlio di padre brasiliano e mamma italiana. Sono cresciuto a Roma e poi mi sono trasferito in Brasile quando avevo 16 anni, quindi diciamo che tutta l’infanzia e la prima gioventù l’ho fatta in Italia. Ma sono nato a Londra. Comunque io vivo in Brasile da molto tempo e questa è una storia molto brasiliana. L’ho conosciuta tramite un libro, Holocausto brasileiro di Daniela Arbex che ha avuto un discreto successo qui in Brasile vendendo oltre 300 mila copie. Lei ha recuperato questa storia assurda, ma sconosciuta e scioccante. A me ha colpito subito e fatto pensare. Mi ricordo da piccolo tutte le manifestazioni pro legge Basaglia, quando vivevo a Roma, appunto, se ne parlava a scuola.

Quando ho letto il libro e ho visto che questo posto è esistito fino al 1984 mi sono trasportato tra la fine degli anni ‘70 e l’inizio degli anni ’80, nel periodo della legge Basaglia. Ho fatto una connessione immediatamente con quella storia. Andando avanti nella ricerca ho visto che anche lui è stato qui in Brasile e ha visitato questo posto, e aveva dichiarato in una conferenza stampa che era stato in un campo nazista, che non aveva mai visto un posto come quello.

Diciamo che, mettendo un po’ tutte queste cose insieme, se si va a cercare una sorta di connessione con le mie radici italiane, sicuramente c’è un legame. Poi ci sono anche le cose personali: mia mamma da giovane, prima che io nascessi, fu obbligata a fare un aborto perché era incinta prima di sposarsi. Quindi si può dire che il personaggio è anche un po’ ispirato alla storia di mia madre.

In realtà non avevo fatto questo parallelo finché non ho finito il film. In qualche modo ho visto che era molto simile alla storia di mia mamma, anche se lei ovviamente non ha sofferto di essere rinchiusa in un posto come questo.

Lì dentro oltre il 70% dei rinchiusi non aveva diagnosi di disturbi mentali, erano solo persone indesiderate dalla società. Il trattamento dato ai malati psichiatrici dell’epoca era sbagliato però era quello che esisteva.

Io ho letto questo libro e poi ho iniziato a fare una ricerca più approfondita sull’argomento e a trovare tante altre situazioni.

Sulla base di quello che mi dici, hai preso spunto da un personaggio del libro nel senso che il libro mostra più personaggi e tu ne hai scelto uno?

Sì, il libro dedica ogni capitolo a un personaggio. Ognuno è un esempio di un tipo di persona.

Dentro questa struttura sono morte oltre 60.000 persone e quindi molti casi sono simili: il caso della ragazza incinta è ripetuto decine di centinaia di volte, quello del gay che era mandato per essere curato, anche centinaia di volte e poi le amanti, le prostitute, gli ubriaconi. Diciamo che sono tutti esempi che ho voluto inserire nel film anche se un po’ più piccoli, come un contorno. Sono tutti presenti, ma alla fine per raccontare la storia ho dovuto concentrarmi su un personaggio.

Una donna protagonista insieme al bianco e nero

Collegandomi a quello che hai detto un’altra domanda che avrei voluto farti è perché hai scelto un personaggio femminile. In parte mi hai risposto, parlandomi del libro e di tua madre. Mi sembra che si possa dire anche che si tratta di una scelta molto attuale, contemporanea. E allo stesso modo è attuale l’evoluzione che ha il personaggio nella storia (all’inizio è un po’ indifesa, poi dopo riesce a ribellarsi ed è comunque disposta a tutto pur di sopravvivere).

Esatto. Sicuramente l’attualità e la crescita del personaggio sono qualcosa che ha un legame forte con i nostri giorni, però diciamo che tutto nasce razionalmente partendo dall’idea di pensare come fa un padre, una madre, uno zio, un nonno a inviare un figlio, una figlia, un nipote in un posto del genere solo per una questione sociale. Che livello di disumanità esiste in persone che hanno fatto questa scelta?

Quindi razionalmente si parte da questo, psicanaliticamente si parte forse dall’associazione con la storia di mia madre, quindi un desiderio, in qualche modo, di vendicarla sotto questo aspetto.

Entrando nel merito dello stile vorrei chiederti come mai hai scelto il bianco e nero. Ogni volta si ricerca un significato particolare e ben preciso che dia un valore in più a quello che viene mostrato. Qui penso che sia usato un po’ per raccontare il passato e un po’ per uniformare tutte le persone che vengono mostrate. Ognuno viene da un luogo diverso, ha approcci diversi ed è lì per motivi diversi.

Ti posso raccontare com’è avvenuta la scelta del bianco e nero. Io e il mio direttore di fotografia, Hélcio Alemão Nagamine, con cui collaboro già da molti anni e con il quale ho fatto tante cose, ogni volta che stiamo per far partire un nuovo progetto pensiamo dal punto di vista concettuale a come lo faremo e come lo vediamo.

Tante volte ci era venuto in mente di fare qualcosa in bianco e nero, però io non ero mai convinto nel senso che per me il bianco e nero in qualche modo è narrativo, cioè racconta naturalmente qualcosa di diverso. E lo vedo difficile da usare per un film al giorno d’oggi.

Questo film, invece, quando ho iniziato a pensarlo, vedendo nella mia mente le prime immagini riguardo questa storia era in bianco e nero. Non vedevo proprio colore nella vita di queste persone. Quindi, in qualche modo, mi è sembrata molto organica, molto naturale la scelta del bianco e nero per raccontare questa storia.

Poi posso aggiungere che ho fatto una grossa ricerca, tutti i materiali d’epoca che ho visto la maggior parte erano in bianco e nero. E c’è da dire che si tratta di un film che è drammatico, ma che a un certo punto inizia a entrare nell’universo del thriller e poi dell’horror.

Il bianco e nero, in questo senso, funziona anche dal punto di vista narrativo e concettuale, lavorando sui contrasti.

Oggi guardo il film e sono assolutamente convinto che non ci sarebbe stato altro modo di raccontare questa storia. Non riesco proprio a immaginarlo a colori questo film, non saprei che colori mettere sui vestiti dei personaggi né sulle pareti e quindi il bianco e nero secondo me è stata la scelta azzeccata.

André Ristum e i generi cinematografici

Mi piace questa cosa che hai detto, il fatto che non vedevi colore nella loro vita. Secondo me è una scelta indovinata, un valore aggiunto che colloca il tuo film di finzione a metà strada con un documentario. Ma, nonostante il legame con il documentario, una cosa che mi è piaciuta è l’inserimento di momenti che sembrano quasi sogni, allucinazioni. Vediamo le immagini ruotare intorno al personaggio, con i suoni che si ripetono e che, da una parte, alimentano la parte thriller, dall’altra sembrano una cosa negativa, ma anche uno spiraglio che tende la mano verso di noi.

Sì, diciamo che sicuramente bisogna cercare di stare più vicino possibile al personaggio di Elisa per vivere questa storia insieme a lei. E, in qualche modo, cercare di ricreare, appunto con questa scelta stilistica, il momento che vive lei, quindi come qualcuno che ha sofferto quello stesso livello di violenza. Perché ho letto molto sugli effetti collaterali e tutti gli strascichi che queste vittime si sono portate dietro per anni. Volevo, quindi, cercare, in qualche modo, di raccontare questo, come si trasforma la vita del personaggio dal momento in cui soffre questa violenza fisica, non solo psicologica.

C’è un’alterazione nella sua percezione delle cose: inizia ad avere allucinazioni, a vedere cose che non esistono e quindi lasciamo aperta questa situazione: che cosa sta vedendo? Vede la sua immaginazione, persone che sono morte, che lei immagina di vedere oppure magari si è aperto un portale e lei vede degli spiriti? Effettivamente non lo so, non ho neanche la risposta. Secondo me ognuno del pubblico può scegliere una strada.

Un’altra cosa è che, tramite questa scelta stilistica, oriento il genere del film. Si tratta di un film di finzione, un dramma, però in qualche modo si inizia a entrare un po’ nel thriller, nell’horror. E io, come traiettoria proprio di stile di regia e di storie da raccontare, ho un po’ una tradizione di transitare molto sul dramma puro, sulle storie reali, le persone reali, le storie di affetti, di relazioni fra persone. Avevo, però, un interesse da molto tempo verso una strada che mi avvicinasse più al cinema di genere, mischiando un po’. Qui ci ho trovato proprio la strada, molto naturale, perché secondo me la vita di queste persone rinchiuse in questi posti è un film di terrore vero.

L’ambiente

Un altro elemento interessante è l’ambiente. Si può dire che il film è ambientato, per ovvie ragioni, nello stesso luogo o comunque in un unico spazio; è delimitato. Come dicevi all’inizio era stato detto che era un campo di concentramento. Ecco, la sensazione effettivamente è quella, però non so se questo deriva dal libro o meno. Secondo me può essere una metafora del mondo, cioè una sorta di società perché ogni personaggio, seppur legato al contesto, ha delle caratteristiche ben precise per essere un determinato tipo di persona in una società qualsiasi.

Sì, a tal proposito mi viene in mente il film Triangle of Sadness che spiega molto bene questa cosa che dici.

Si tratta di un microcosmo dove, però, i poteri, la realtà diventano un’altra. E secondo me l’essere umano è capace, è molto crudele, soprattutto quando si trova in una realtà diversa. Quella è una realtà diversa, quindi lì l’essere umano si vede nell’atteggiamento, in tutte le scelte che fanno gli infermieri piuttosto che il direttore dell’ospedale, il medico. La disumanità la fa padrona e quello che vediamo diventa una realtà completamente diversa.

La scelta di ambientarlo in questo posto è legata, oltre che al tema, al budget. Era importante riuscire a rimanere più tempo possibile dentro la stessa location e quindi è stato scritto proprio pensando al fatto che stavamo raccontando la storia di persone dentro questo carcere. Noi entriamo con lei e usciamo con lei da quel posto, però non ci allontaniamo mai. Seguiamo questo personaggio da vicino: ci arriviamo insieme e ce ne andiamo insieme.

La chiesa nel film di André Ristum

A proposito dell’andarcene insieme a lei, senza fare troppi spoiler, la scena che è forse quella di ribellione massima è quando lei colpisce con la croce. Mi sembra si possa leggere in chiave metaforica: è vero che aveva quella a disposizione, però poteva utilizzare qualsiasi altra cosa. Alla fine è un simbolo che dovrebbe essere quello di pace che viene usato per un atto il più crudele possibile (colpire o quasi uccidere). Com’è nata quest’idea?

La scelta è ovviamente stata pensata a lungo. Abbiamo pensato quale potrebbe essere l’oggetto con cui lei colpisce lui? Alla fine ha più di una valenza perché quello è stato il regalo che le ha dato la sua migliore amica per aiutarla a sopravvivere lì dentro (e lei sopravvive) e quello che le permette di allontanarsi dal suo violatore.

Poi il fatto che questo oggetto sia un oggetto religioso è un altro livello di storia. Questo posto, come tanti altri, aveva un legame forte anche con la chiesa. In tanti momenti ci sono state anche delle suore che si occupavano dei pazienti lì dentro. Visto che noi non siamo riusciti a includerla questa storia, volevamo, in qualche modo, portare la chiesa dentro. Tra l’altro c’è un prete, che è un attore italiano che vive qui in Brasile, Nicola Siri, e quello che vediamo è un omaggio storico. Lui si trasferì in Brasile oltre vent’anni fa per fare una telenovela dove faceva un prete, questo è stato l’inizio della sua carriera qua in Brasile. E dopo vent’anni gli ho chiesto di vestire nuovamente i panni del prete. Lui ha accettato felicissimo di ciò.

Tornando alla storia della chiesa, essa entra poco nel film. C’è la scena in cui questo prete va lì in un momento terribile, vede un sacco di morti e li benedice. Si percepisce, quindi, questa sensazione della chiesa che chiude un occhio a situazioni del genere e purtroppo in Brasile, soprattutto negli anni ‘70, ciò avveniva. Nonostante molti abbiano lottato contro il regime militare e la dittatura che c’era in Brasile, la chiesa in qualche modo chiudeva un occhio sulle torture, le persone arrestate ingiustamente, le strutture come questa. Quindi, anche se metaforica, in qualche modo abbiamo trovato una maniera di inserire la chiesa anche nella storia.

Progetti futuri

E, invece, per quanto riguarda i progetti futuri di André Ristum?

Al momento ho due progetti in ponte.

Il primo è quello che sto per girare adesso: una specie di spin off, un progetto nato con un gemello che è una serie. Sto per girare la seconda stagione che parte dal punto in cui finisce il film. Il titolo è Colonia.

Poi per il prossimo anno ho un film in fase di finanziamento, ma in fase avanzata. Si tratta di un film da girare fra Italia e Brasile ed è di una sceneggiatura di Antonioni. Il titolo è Tecnicamente dolce ed è una sceneggiatura che Michelangelo Antonioni scrisse negli anni ’60, cercò di fare per oltre dieci anni, ma non riuscì ì perché era molto difficile dal punto di vista produttivo. Carlo Ponti preferì non farlo per concentrarsi su Blow Up, Professione Reporter, Zabriskie Point. Dopo dieci anni lui rinunciò a farlo e all’inizio degli anni ‘80 la offrì a mio padre perché mio padre fu suo aiuto regista per il film Il mistero di Oberwald. Mio padre era brasiliano, però viveva in Italia e conosceva molto della realtà italiana così come di quella brasiliana.

Mio padre, spronato da Antonioni, tornò in Brasile all’inizio degli anni ’80 e alla fine della dittatura militare provò a metterlo su, però poi si ammalò e morì molto giovane. Neanche lui, quindi, riuscì a farlo.

E io sono cresciuto con questa storia di questa fantomatica sceneggiatura che Antonioni ha provato a fare senza successo, che mio padre ha provato a fare senza successo e mi ripeto che un giorno avrei avuto la faccia tosta di andare a bussare e a chiedere questa sceneggiatura. Quindi qualche anno fa ho rintracciato Enrica Antonioni, la moglie di Michelangelo, e gli ho raccontato tutta questa storia. Sono riuscito a convincerla e lei, produttrice associata sul progetto, è insieme a me a bordo di questa avventura. Lo stiamo realizzando con la Gullani, una società di produzione brasiliana che fa la parte brasiliana, e con la Vivo Film in Italia, nostri coproduttori. Abbiamo, quindi, finanziato gran parte già qui in Brasile, in Italia abbiamo vinto il bando al ministero. Insomma, se tutto va bene dovremmo girarlo a breve, e si girerà il 60% in Sardegna perché la storia parte da lì e poi il 40% in Amazzonia.

Sono Veronica e qui puoi trovare altri miei articoli

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