All’interno di una filmografia vasta come quella del regista inglese (quasi cinquanta film in più di cinquant’anni di onorata carriera) siamo costretti a scegliere un pugno di Film
Dire del cinema di Alfred Hitchcock significa addentrarsi in uno spazio liminale, penetrare un territorio di frontiera che destabilizza le categorie costituite e si apre al nuovo. Significa correre il rischio di perdersi in un universo variegato e sterminato per non ritrovare più la strada di casa. Significa soprattutto decostruire la restrittiva e celebre etichetta di “Maestro del Brivido” per analizzare i ben più vasti orizzonti intertestuali attivati dai suoi capolavori, capaci di mettere in primo piano (e insieme di nascondere) il cinema stesso e il suo funzionamento, la psicanalisi e le espressioni dell’inconscio, di far esplodere tutte le sclerosi del cinema classico all’interno di strutture narrative rigidamente codificate e pienamente in linea con quell’ossessione per l’ordine, l’armonia e il rigore che come abbiamo visto caratterizzavano lo studio system e, infine, di proiettare l’arte del XX secolo verso una modernità scopertamente messa in atto in Europa a cavallo tra ’50 e ’60.
All’interno di una filmografia vasta come quella del regista inglese (quasi cinquanta film in più di cinquant’anni di onorata carriera) sarò però costretto a selezionare. A tagliuzzare pezzi, sacrificare momenti decisivi, rinunciare a molto, forse moltissimo, consapevole del fatto che i fantasmi dei personaggi lasciati a tacere e dei titoli messi al bando verranno a tempestare i miei sogni.
Cercherò di dimostrare, guidato dalle fondamentali riflessioni di Paolo Bertetto, Laura Mulvey e Tania Modleski, come il cinema di Hitchcock debordi costantemente da quell’asfissiante concetto di “puro cinema del brivido” in cui troppa critica l’ha inconsapevolmente imprigionato e illuminare, invece, quella complessità intrinseca e imprescindibile che rende i suoi film vere e proprie opere di confine, oscillanti tra il rigore del cinema classico e la potenza intellettuale e interpretativa di quello moderno.
Per ovvie ragioni di spazio lo farò attraverso cinque titoli – solo cinque ahimè; a mio avviso quelli maggiormente pregnanti nell’illustrare la vulcanica potenza della poetica hitchcockiana, tutti portatori delle ossessioni tipiche del regista inglese, troppo spesso svilite da analisi affettate, concentrate sulle strutture della suspence o i celebri virtuosismi registici che hanno reso la sua opera così rinomata anche a livello popolare.
Il cinema di Hitchcock
Iniziamo dal cinema, allora. Come già abbiamo avuto modo di notare l’estetica classica si fondava su un voluto occultamento del mezzo cinematografico, attraverso quella pratica di montaggio invisibile che nascondeva le tracce della macchina da presa per proporre le immagini filmiche in una logica di “qui e ora”, garantendo un’immersione totale del pubblico nel flusso del narrato.
Hitchcock sembra mantenere questo assunto attraverso quelle rinomate “sceneggiature di ferro” che fanno della narrazione il perno dei suoi capolavori. Eppure indagando oltre la superficie di quelle opere, non è difficile scorgere una riflessione sofisticata e quanto mai intensa sulle strutture del cinema, in un processo metalinguistico di rara potenza.
La finestra sul cortile
A questo proposito, non posso che citare La finestra sul cortile che come forse è noto è la storia di un reporter immobilizzato su una sedia a rotelle che, mentre si adopera a spiare i suoi vicini per sconfiggere la noia, pare scovare le tracce di un misterioso omicidio. A prima vista, il film si dispiega come uno degli assoluti vertici della spy story hitchcockiana, animata da un esemplare crescendo di tensione, unito al tema romantico, all’ironia salace e spesso frizzante.
Un meccanismo a orologeria perfettamente congegnato, aderente e forse esemplarmente significativo delle narrazioni del “Maestro del brivido”. Eppure è sotto questa – magistrale e accattivante – scorza diegetica che il film mostra il suo nucleo più interessante, facendosi portatore di una messa in abisso che mette in primo piano il cinema, le sue componenti e i suoi corollari.
Il Jeffrey di James Stewart rimane per tutto il film ancorato alla sua sedia a rotelle, immobile di fronte alla finestra della sua camera, da cui spia i vicini, sempre attraverso le finestre che – colpa della calura estiva – restano inevitabilmente aperte, senza alcuna possibilità di interagire con essi.
Il suo statuto è quello di un voyeur o per essere più precisi di uno spettatore cinematografico che, nella sala buia, segue con attenzione le vicende che vede scorrere sullo schermo senza poter tangibilmente entrarvi in contatto. Le stesse finestre, ovviamente, assumono il carattere allegorico di inquadrature cinematografiche, tagliando i bordi dell’immagine visualizzabile, implicando un fuori campo coperto dalle mura del palazzo. La successione delle finestre di uno stesso appartamento di conseguenza implica in modo immediato il procedimento del montaggio.
Non è raro che il protagonista trascini il suo sguardo indagatore da una stanza all’altra dei domicili di fronte, in uno scorrimento visivo che rinvia inevitabilmente alla successione delle immagini sulla pellicola di celluloide, che -secondo il principio della croce di malta – implica l’alternanza di un fotogramma luminoso e di uno nero.
Il meccanismo metacinematografico si rompe solo nel convulso e indimenticabile finale: dopo che Lisa (Grace Kelly) s’introduce nell’appartamento di Thorwald, l’uomo capisce di essere spiato e volge gli occhi verso la finestra di Jeffrey, gesto che ha tutta la rilevanza eversiva di uno sguardo in macchina, procedura assolutamente proibita nel cinema classico. Da quel momento inizia il corto circuito della messa in abisso che crolla definitivamente quando il presunto assassino entra nell’appartamento di Jeffrey. Lo spiato s’introduce nello spazio del voyeur. Il cinema invade la sala, distruggendo proprio quella separazione tra pubblico e spettacolo su cui si basa il potere incantatorio della settima arte.
Ora, Hitchcock inserisce questa reduplicazione visiva dell’artificio filmico in una riflessione ben più ampia sul potere della visione, sulla drastica modificazione dei suoi connotati attuatasi nel corso del XX secolo e, soprattutto, sulle potenzialità del cinema, identificato come quell’occhio del Novecento di cui parlò Francesco Casetti.
Nella sua attività investigativa, infatti, Jeffrey trova il suo solo strumento di indagine nello sguardo e quando nemmeno quello basta sopperisce alle sue carenze attraverso il complesso armamentario di grandangoli e binocoli con i quali normalmente svolge il suo lavoro da reporter, uniche strutture tecniche capaci di sostituirsi all’occhio e amplificarne la portata.
Prima del Blow up Michelangelo Antonioni, allora, Hitchcock palesa la superiorità della visione tecnologica su quella fisica, imponendo la fotografia – e per estensione il cinema – come mezzo privilegiato per scandagliare le ambigue profondità del reale.
La donna che visse due volte
Il Maestro continua questa riflessione metalinguistica sulle strutture del cinema in Vertigo (distribuito stolidamente in Italia come La donna che visse due volte), universalmente acclamato come il più maturo lavoro di Hitchcock e recentemente eletto dalla celebre rivista Sight & Sound come “miglior film di tutti i tempi”, prima di quel Quarto potere di Welles che per decenni aveva guidato la classifica.
Con Vertigo il regista inglese incorpora nella compostezza classica, tipica dei suoi lavori, elementi incongrui, tratti dal cinema d’avanguardia o ispirati ad atmosfere surrealiste. E come nella Finestra sul cortile si prodiga nel delineare, sotto la soglia della narrazione, un testo alternativo che apertamente espone i meccanismi propri del mezzo cinematografico, interrogandosi sulla natura stessa del mezzo e proponendo una suggestiva interpretazione che si scontra con le canoniche teorie del linguaggio filmico.
Insomma, una vasta complessità di suggestioni e intenti che per esser delineata richiede di svelare alcuni tratti fondamentali della trama, compreso quello scioglimento dell’intreccio che rende il film tanto affascinante quanto memorabile (per cui consiglio calorosamente a chi non ha visto Vertigo di riprendere questo passo solo a seguito della visione).
La storia è nota: un detective – Scottie, interpretato ancora da James Stewart – entra in crisi dopo la morte di un suo collega – caduto da un tetto – e decide di lasciare la polizia, ossessionato dall’evento e da una nuova fobia per l’altezza (la vertigine del titolo originale).
Rimette in gioco se stesso quando Elster, un suo vecchio compagno di università, lo assolda perché segua sua moglie, la bellissima Madelaine, colta da continue crisi di identità, di cui egli s’innamora. La morte della donna lo fa crollare in un baratro autodistruttivo da cui pare sollevarsi solo dopo l’incontro con Judy, una giovane che somiglia in modo impressionante all’amata defunta e che l’ex-poliziotto prende a plasmare -nell’abbigliamento, nel trucco, nell’acconciatura – nel tentativo di trasformarla in Madelaine stessa.
Ora, sappiamo benissimo che Madelaine effettivamente non esiste. Il pedinamento è un trucco escogitato da Elster perché Scottie si faccia testimone di una morte già avvenuta. La Madelaine che il protagonista segue e di cui s’innamora è il frutto di una messinscena di Elster. Si tratta di quella stessa Judy che Scottie incontrerà nella seconda parte del film e che tenterà di trasformare in Madelaine.
Ora, secondo Paolo Bertetto – professore universitario e studioso – con Vertigo Hitchcock non farebbe altro che ribadire il carattere simulacrale dell’immagine filmica che, lungi dall’essere quella realtà ontologica di cui parlava Bazin, si caratterizzerebbe prima di tutto come un falso, una sembianza fittizia, “la copia differenziale di una copia differenziale senza originale”. In effetti l’immagine che vediamo sullo schermo è sempre una copia differente rispetto alla realtà messa in scena sul set al momento delle riprese (profilmico).
La macchina da presa taglia, seleziona e quindi trasforma quel mondo, a sua volta ricreato artificialmente dal regista. E dunque a sua volta copia differente del mondo vero, sua messinscena, sua riproduzione diversificante. Il fenomeno di riferimento – potremmo definirlo ispirazione – da cui tutto inizia non esiste concretamente, al massimo consiste in uno sfocato residuo memoriale situato nella mente del regista. Vertigo mette in quadro questa riflessione.
La concretizza. La rende parte integrante dei 120 minuti di girato, facendola scorrere -nascosta – sotto la superficie narrativa. La falsa Madelaine che Scottie tenta di plasmare attraverso il corpo di Judy è solo una copia differenziale della Madelaine di cui si era innamorato che – come sappiamo – è a sua volta copia differenziale di un soggetto che – per quanto ci riguarda – non esiste: la vera Madelaine infatti non viene mai mostrata.
In questo senso, Hitchcock esalta le potenzialità creatrici del linguaggio filmico, interpretando il cinema non come macchina della realtà ma come strumento della visione (falsa ma) amplificata, elevando praticamente all’infinito le sue possibilità di suggestione, interpretazione e incantamento.
Seguendo ancora le riflessioni di Bertetto, un altro carattere che svincola il cinema di Hitchcock dall’opprimente conformismo del cinema classico è il ruolo assunto in esso dalle figure femminili. Già nella Finestra sul cortile a un protagonista fisicamente impossibilitato al movimento e quindi all’azione faceva fronte una donna particolarmente valorizzata: quella Grace Kelly sublimata in primi o primissimi piani di chiara impronta hollywoodiana-classica tesi a evidenziare la sua folgorante presenza scenica e rafforzarne l’icona divistica e nello stesso tempo caratterizzata come personaggio attivo, votato a un’azione impedita al maschio inerte e immobilizzato incarnato da Stewart.
Hitchcock problematizzò in sostanza i caratteri di quel cinema hollywoodiano fallocentrico che faceva della donna un mero oggetto di visione per l’uomo, unico personaggio attivo depositario di sguardo e potere, e diede alla figura femminile una pregnanza diegetica prima sperimentata – in tutt’altra maniera – solo da Von Sternberg nel ciclo di film girati con Marlene Diedrich. In molti film del regista inglese, la donna compie una sorta di percorso iniziatico che la conduce allo sguardo e all’azione.
Un itinerario che di fatto la porta a costituirsi come fulcro narrativo, a minare alle fondamenta quel sistema rigidamente patriarcale su cui lo studio system fondava la sua ragion d’essere e a guadagnarsi, proprio per questa sua effrazione, una punizione che la riconduce – nel finale – sotto l’egida del maschio dominante, in un rifondato equilibrio classico tra sessi.
Notorious
È probabilmente Notorious il film che meglio illustra questo ambiguo, sadico e innovante percorso su cui Hitchcock installa le sue eroine. La protagonista Alicia (Elena nella versione italiana) intreccia una relazione con l’agente segreto Devlin e diventa il fulcro di una missione in Brasile volta a smascherare un complotto filonazista di cui sposa l’artefice. Già da questa sinossi scarnificata emerge il valore fondante che la donna riveste per l’evoluzione diegetica: Hitchcock trasforma il soggetto femminile – relegato nel cinema classico al degradante ruolo di feticcio erotico – in un agente attivo e rende questa evoluzione di ruolo attraverso un’accorta strutturazione delle forme di sguardo.
Se è vero – come ammette Laura Mulvey, fondamentale teorica femminista del cinema – che la figura femminile nel cinema classico hollywoodiano esisteva soltanto in quanto oggetto dello sguardo maschile e spettacolo impossibilitato all’azione, Hitchcock oltrepassa il canone e inserisce la sua protagonista in un percorso d’evoluzione che la conduce ad appropriarsi dello sguardo (reso attraverso lo strumento cinematografico della soggettiva, ovvero l’inquadratura realizzata a partire dal punto di vista del personaggio) e insieme dell’azione.
In questo senso, il film si caratterizza, secondo Bertetto, come l’iniziazione di Alicia alle funzioni tipicamente maschili del cinema, come una parabola che segna il suo passaggio da una posizione passiva a una attiva, per poi concludersi con un ritorno alla passività.
Bertetto evidenzia come, in una delle prime scene del film – quella della festa tenuta da Alicia a casa sua, Hitchcock indugia con la macchina da presa su una figura maschile che, seduta sul divano, guarda la protagonista. Il regista non mostra solo la donna come oggetto di sguardo ma anche un protagonista maschile, voltato di spalle rispetto al pubblico, che guarda. In questa prima fase dunque il soggetto femminile non ha diritto d’accesso alla visione ma si costituisce – come cinema classico vuole – solo come spettacolo erotico.
Lo sguardo è prerogativa dell’uomo. Dopo la festa, Alicia e Devlin – l’uomo che poco prima la fissava – fanno un giro in macchina. A guidare è la donna, in una palese contrapposizione al canone hollywoodiano – e forse anche sociale, come in un tentativo di rivendicare la propria posizione attiva. Ed è proprio con questo tentativo che Alicia approda alla visione. Emergono le sue prime soggettive ma – causa l’ubriachezza – si tratta di immagini sfocate, distorte (poco dopo, a letto, vedrà Devlin in una prospettiva rovesciata).
L’accesso della donna allo sguardo è ostacolato dalle secolari sovrastrutture patriarcali del cinema hollywoodiano. Ma il processo si completa quando Alicia, dopo le sequenze che illustrano l’innamoramento con Devlin, diventa a tutti gli effetti spia, e dunque agente attivo, in casa di Alex, il principale fautore del complotto filonazista in Brasile. In quelle quattro mura nemiche, Alicia può finalmente attivare il suo sguardo indagatore. A questo punto, però, la parabola di maturazione inizia il suo percorso discendente (e invito chi non ha visto il film a interrompere la lettura perché svelerò il finale).
Non appena Alex – coadiuvato dalla sua madre oppressiva – scopre l’inganno di Alicia (che l’ha sposato esclusivamente per avere pieno controllo sui suoi sporchi affari), decide di frenare il suo potere investigativo, somministrandole ogni giorno una piccola dose di veleno (disciolto in quelle tazzine da caffé che costituiscono alcuni dei più paradigmatici MacGuffin hitchcockiani, oggetti di dubbio o inesistente valore diegetico che – a posteriori – dimostrano di possedere un peso narrativo essenziale nell’evoluzione dell’intreccio).
Di nuovo le soggettive di Alicia si fanno sfocate, imprecise, imperfette. Questo crollo dello sguardo è accompagnato da uno sgretolamento della possibilità di agire della donna, ridotta a letto. Solo l’intervento finale di Devlin condurrà alla finale salvezza della protagonista: la donna che tenta di assumere una posizione attiva viene così sadicamente punita e l’equilibrio può essere ripristinato solo dalla figura maschile.
Rebecca
Tutt’altra valenza assume il percorso iniziatico seguito dall’anonima protagonista di Rebecca: più che enfatizzare il valore dello sguardo e dell’azione, Hitchcock smentisce qui la tesi del celebre teorico Raymond Bellour per cui “ogni film hollywoodiano si caratterizza come un percorso edipico maschile” e – come illustra Tania Modleski in una riflessione che riassumo nelle righe seguenti – delinea una traiettoria edipica propriamente femminile.
L’ingenua e sperduta protagonista viene presentata sin da subito come un’innocente bambina che nel corso del film entra in contatto con vari sostituti della figura della Madre (freudianamente intesa): la sua tutrice, la governante di casa de Winter, e la stessa Rebecca, fantasma inquietante che non si palesa mai in forma concreta, raro caso di personaggio che senza mai materializzarsi riesce ad assumere un ruolo pressoché fondante all’interno della narrazione.
La giovane sposa si ritrova nella gigantesca dimora di un marito prudente ma ancora (a quanto pare) ossessionato dal ricordo della prima moglie defunta. Tutto in casa è troppo grande (le porte sono un esempio eclatante), troppo dispersivo, troppo enigmatico.
La ragazza è una fanciulla indifesa in un labirinto animato da presenze inquietanti, è una bimbetta impacciata che non sa conformarsi all’ordine perfetto lasciato in eredità dall’impeccabile Rebecca. Per sublimare questa imperfezione, questo atroce distacco che la separa dalla Madre, la ragazza tenta di distaccarsene ed entrare nel Simbolico (che a grandi linee Freud fa coincidere con il sociale), conformandosi al desiderio del marito.
Questo però è ambiguo ed enigmatico e nel tentativo di adeguarvisi, la protagonista non fa altro che trasformarsi in una speculare e sbiadita controfigura di Rebecca, la Madre freudiana. Questo processo di identificazione giunge al culmine durante la scena del ballo quando la protagonista si abbiglia inconsapevolmente come lei, sotto il beffardo consiglio della governante.
Il seguente rifiuto del marito – scosso da quella visione così simile all’immagine della prima moglie defunta – conduce la protagonista a una crisi: l’approdo al Simbolico sembra negato e l’unica via per accedervi rimane la morte della Madre. Che in effetti – sempre ragionando in termini freudiani – avviene subito dopo: il corpo di Rebecca viene ritrovato – e questo darà il via alla seconda parte del film, fondata sulla scoperta delle aberranti verità che caratterizzano la figura della defunta e su un processo giudiziario che coinvolge suo marito in prima persona – e questo secondo “decesso simbolico” porta la protagonista alla definitiva e piena maturazione.
La scelta dell’ultimo film è stata quella che mi ha fatto sudare di più. Ma avendo deciso di analizzare il valore nascostamente anticonformista e “di confine” del cinema hitchcockiano ho scelto – tra molti capolavori – un’opera che più palesemente di altre esplicita la sotterranea tendenza del regista inglese a distaccarsi dalle clausure asfissianti del cinema classico, per insinuarsi nell’orizzonte della modernità filmica, circa dieci anni prima che essa venisse teorizzata e messa in pratica dalla Nouvelle Vague francese e sulla base degli stessi parametri che Bazin e Godard posero a fondamento di quel nuovo cinema a cui diedero la genesi, confermando quanto Alfred Hitchcock abbia significato per l’evoluzione del linguaggio cinematografico e – per converso – quanto sia limitante quell’etichetta di “Maestro del Brivido” a cui già ho fatto riferimento.
Rope
Per chi non l’avesse ancora capito parlerò di Rope (lo scrivo con il titolo originale perché il doppiaggio italiano – non solo del titolo – ha falsato e stuprato il senso e la potenza di un’opera di valore inestimabile), piccolo grande capolavoro del ’48, lungo meno di un’ora e venti. Il film rimane noto per la peculiare scelta del regista di girarlo come un lungo piano-sequenza. Ambientando l’intera scena – ripresa da un testo teatrale – in un appartamento, Hitchcock riuscì infatti a girare tutto il film attraverso otto long take (lunghe inquadrature in movimento realizzate senza mai staccare) montati con grande perizia per rendere gli stacchi invisibili e dare la sensazione di assistere a un solo piano-sequenza che coincidesse con il film intero.
Il cineasta sopperì l’impossibilità tecnica dell’epoca (le bobine della macchina da presa contenevano pellicola sufficiente solo per dieci minuti di riprese) e diede l’illusione di un’opera girata in totale continuità spazio-temporale (precedendo di 50 anni Aleksandr Sokurov che nel 2002 – senza più impedimenti tecnici – girò Arca russa attraverso un unico piano-sequenza di 96 minuti).
Ma non è sulla straordinaria perizia tecnica di Hitchcock che voglio soffermarmi quanto sulle implicazioni estetologiche che un atto così radicale porta in seno. Girando Rope come un unico piano-sequenza, infatti, il regista inglese andava a minare una delle strutture più storicamente consolidate del cinema classico: quel montaggio invisibile che garantiva alla narrazione quei saldi principi di causalità e trasparenza su cui il cinema doveva necessariamente fondarsi. Eliminare il montaggio significava rivendicare l’indipendenza dell’autore, della sua creatività. Voleva dire celebrare quella rinnovata libertà del cineasta che André Bazin – verso la fine degli anni ’50 – riconosceva come funzione del piano-sequenza e che i film di Godard, a partire dal ’59, esposero al massimo grado.
Ma non è solo la tecnica a fare del film un cocente manifesto di modernità: la stessa trama si distacca dall’orientamento canonico del cinema classico e mostra sorprendenti somiglianze con i cosiddetti film-saggio di Godard, spesso definiti alla stregua di “filosofia per immagini” più che veri e propri prodotti narrativi.
Rope, sotto il noto rigore della strutturazione narrativa, nasconde lo stesso afflato speculativo e ideologico dei – successivi – film godardiani. La storia si apre con lo strangolamento di un individuo perpetrato da due giovani – che a un’analisi appena più sottile appaiono chiaramente come una coppia omosessuale – all’interno del loro domicilio. Il cadavere viene nascosto in una cassapanca e poco dopo la casa si riempie di invitati per un party.
Nonostante il perfetto meccanismo di suspence e l’azione vibrante e concitata che dominano il ritmo diegetico, il vero centro d’interesse del film consiste nel flusso ricorrente dei dialoghi, che finiscono sempre per adagiarsi sui temi della morte, dell’assassinio perfetto, della legittimità dell’omicidio, filtrando una riflessione sul fanatismo, la vanagloria, l’ingordigia della specie umana che accenna alla figura di Hitler (appena tre anni dopo la fine della guerra) e si prodiga in un riferimento – in realtà poco ragionato e semplicistico – al modello dell’Übermensch di Friederich Nietzsche. Cinema e filosofia dunque.
In una cornice tecnico-estetica che rivendica l’indipendenza del cineasta dalle opprimenti norme produttive del canone classico. La stessa irriverente carica liberatoria di un cinema scopertamente messo in mostra nel suo funzionamento sotto il più perfetto conformismo narrativo. E la medesima libertà che permea le sue magnifiche protagoniste, capaci finalmente di crescere e maturare in un mondo fallocentrico che ne azzera la personalità, come di muoversi autonomamente, guardando finalmente il mondo con occhi nuovi. Che forse coincidono proprio con quelli di Hitchcock.
Stefano Oddi
FILMOGRAFIA COMPLETA
- Number 13 (1922) – incompleto e andato perduto
- Always Tell Your Wife (1922) – non accreditato
- Il giardino del piacere (The Pleasure Garden) (1925)
- L’aquila della montagna (The Mountain Eagle) (1926)
- Il pensionante (The Lodger: A Story Of The London Fog) (1927)
- Il declino (Downhill) (1927)
- Virtù facile (Easy Virtue) (1927)
- Vinci per me! (The Ring) (1927)
- La moglie del fattore (The Farmer’s Wife) (1928)
- Tabarin di lusso (Champagne) (1928)
- L’isola del peccato (The Manxman) (1929)
- Ricatto (Blackmail) (1929)
- Elstree Calling (1930) – co-regia di André Charlot, Jack Hulbert e Paul Murray
- Giunone e il Pavone (Juno and the Paycock) (1930)
- Omicidio! (Murder!) (1930)
- Fiamma d’amore (The Skin Game) (1931)
- Ricco e strano (Rich and Strange) (1932)
- Numero diciassette (Number Seventeen) (1932)
- Vienna di Strauss (Waltzes from Vienna) (1933)
- L’uomo che sapeva troppo (The Man Who Knew Too Much) (1934)
- Il club dei trentanove (The 39 Steps) (1935)
- L’agente segreto (Secret Agent) (1936)
- Sabotaggio (Sabotage) (1936)
- Giovane e innocente (Young and Innocent) (1937)
- La signora scompare (The Lady Vanishes) (1938)
- La taverna della Giamaica (Jamaica Inn) (1939)
- Rebecca, la prima moglie (Rebecca) (1940)
- Il prigioniero di Amsterdam (Foreign Correspondent) (1940)
- Il signore e la signora Smith (Mr. & Mrs. Smith) (1941)
- Il sospetto (Suspicion) (1941)
- Sabotatori o Danger (Saboteur) (1943)
- L’ombra del dubbio (Shadow of a Doubt) (1943)
- Prigionieri dell’oceano (Lifeboat) (1944)
- Bon Voyage – cortometraggio (1944)
- Aventure Malgache – cortometraggio (1944)
- Io ti salverò (Spellbound) (1945)
- Notorious, l’amante perduta (Notorious) (1946)
- Il caso Paradine (The Paradine Case) (1947)
- Nodo alla gola, riedito come Cocktail per un cadavere (Rope) (1948)
- Il peccato di Lady Considine o Sotto il capricorno (Under Capricorn) (1949)
- Paura in palcoscenico (Stage Fright) (1950)
- L’altro uomo, riedito come Delitto per delitto (Strangers on a Train) (1951)
- Io confesso (I Confess) (1953)
- Il delitto perfetto (Dial M for Murder) (1954)
- La finestra sul cortile (Rear Window) (1954)
- Caccia al ladro (To Catch a Thief) (1955)
- La congiura degli innocenti (The Trouble with Harry) (1955)
- L’uomo che sapeva troppo (The Man Who Knew Too Much) (1956) – remake dell’originale del 1934
- Il ladro (The Wrong Man) (1956)
- La donna che visse due volte (Vertigo) (1958)
- Intrigo internazionale (North by Northwest) (1959)
- Psyco (Psycho) (1960)
- Gli uccelli (The Birds) (1963)
- Marnie (Marnie) (1964)
- Il sipario strappato (Torn Curtain) (1966)
- Topaz (Topaz) (1969)
- Frenzy (Frenzy) (1972)
- Complotto di famiglia (Family Plot) (1976)