Presentato in anteprima mondiale alla 70a edizione del Taormina Film Festival, nello scenario suggestivo del suo Teatro Antico, Il giudice e il boss, diretto da Pasquale Scimeca (che ha raccontato anche Placido Rizzotto e Pio La Torre), non è un mero film biografico su vite parallele e opposte, quelle del giudice Cesare Terranova e del capo mafioso Luciano Liggio, ma uno spaccato più giudiziario che criminale sulla strenua e onorevole lotta al male organizzato, portata avanti da un magistrato che fu inascoltato, umiliato e infine abbandonato a una morte violenta, insieme a un suo collaboratore, il poliziotto palermitano Lenin Mancuso.
Nel ruolo dei due eroici protagonisti Gaetano Bruno e Peppino Mazzotta, in un cast che comprende anche Claudio Castrogiovanni, Naike Anna Silipo ed Enrico Lo Verso.
Una vita che scrive il nostro presente
Il giudice Cesare Terranova e il maresciallo di polizia Lenin Mancuso lottano contro la criminalità di una banda mafiosa di cui è boss Luciano Liggio e che comprende anche Totò Riina e Bernardo Provenzano. Le indagini contro di loro e gli altri ‘picciotti’ culminano con il processo che si tenne a Bari nell’estate del 1969. Ma, nonostante i documenti raccolti in tanti anni da Terranova con il lavoro di Mancuso, del vicebrigadiere Agostino Vignali e del colonnello dei carabinieri Ignazio Milillo, il processo si chiude con l’assoluzione degli imputati per insufficienza di prove e con il conseguente ritorno dei mafiosi, sempre più famelici e agguerriti, in Sicilia.
Sconcertato e mortificato, Terranova continuerà ad indagare su speculazione edilizia, traffico internazionale di stupefacenti e sui i loro legami con il mondo della finanza. Sempre con la minaccia di morte alle calcagna, come infatti accadrà il 25 settembre del 1979 sia a lui che al suo uomo della scorta, il maresciallo Mancuso, tra i migliori poliziotti di Palermo. Entrambi infatti caddero in auto in un agguato a Palermo, freddati da alcuni killer.
La memoria e i bivi tragici della Storia
Dopo del visione di Il giudice e il boss, dopo gli alfieri della giustizia assassinati, l’efferatezza a delinquere degli uomini del clan, la tangibile corruzione delle istituzioni, il malcostume malato della reticenza e dell’omertà, dirompe con ancor più pungente e inquieta mestizia un interrogativo che il regista Pasquale Scimeca rilancia come il nucleo pulsante del film: ‘se quel processo barese del 1969 si fosse concluso con la condanna di Luciano Liggio, Totò Riina, Binno Provenzano e gli altri sessantadue picciotti dei Corleonesi, quante morti innocenti, quante stragi si sarebbero potute evitare?’.
Ma nella sua interrelazione con la Storia del nostro paese, Il giudice e il boss, oltre a voler essere un prodotto efficacemente didascalico e commemorativo, non solo inquadra il presente come avrebbe potuto essere, se si fosse rispettata la professionalità di Terranova e tutelata la sua integrità fisica a pieno diritto, ma anche com’è l’oggi, grazie alla linea investigativa e all’impostazione processuale delineata dal nostro protagonista. Spiega infatti il regista:
Cesare Terranova non è stato un giudice qualsiasi. Ma un modello a cui si sono ispirati Gaetano Costa, Rocco Chinnici, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Il primo che ha avuto il coraggio di indagare sulla sanguinaria cosca dei Corleonesi. Il primo ad aver capito che la mafia era un’organizzazione criminale unitaria che agiva di concerto con elementi della politica, della massoneria, dell’amministrazione pubblica e dell’economia.
Divulgare per ricordare
Pur con una regia sobria e a tratti limitatamente espositiva, Il giudice e il boss riesce a veicolare le sue idee, a perseguire la sua dichiarazione di intenti di voler eludere i toni dell’epica e dell’enfasi, per riscattare nella più alta accezione politica e culturale la memoria delle eroiche vittime di quegli anni, come Terranova e Mancuso, senza concedere stature e contorni di tragicità o di seducente ombrosità ai criminali, contro la logica, spiega il regista, di molti prodotti audiovisivi.
Il film infatti, pur nei risvolti sordidi o drammatici di alcune sequenze e fatti, risulta sorretto da una tenerezza per il giudice, sua moglie e il maresciallo che gli conferisce un tono sommessamente crepuscolare, non vinto però da un rassegnato ripiegamento di inevitabilità dell’ingiustizia. Lo sguardo dell’opera infatti tenta di aderire a quello di Terranova e, seppur non sempre con esiti compiuti e felici, riesce talvolta a far affiorare quella genuinità consapevole che già aveva descritto l’amico Leonardo Sciascia:
E avrà sicuramente avuto i suoi momenti duri, implacabili, quei momenti che gli valsero la condanna a morte: ma saranno stati a misura, appunto, del suo stupore di fronte al delitto, di fronte al male, anche se quotidianamente vi si trovava di fronte…