Nell’era del postmoderno spinto, della distopia spietata e della dispersione identitaria, rincuora ed ancora al reale sapere che l’inizio dell’anno faccia schifo un po’ ovunque. Saranno le varie imposte da pagare, la letargia invernale, la fine del quadrimestre, tuttavia rimane una verità pressoché inoppugnabile che Gennaio e Febbraio siano mesi di un’intollerabilità insostenibile in ogni angolo del globo o quasi. Ecco magari non a Tahiti.
Qui negli Stati Uniti, il principiare del nuovo anno si tinge di un patetismo d’altri tempi. L’incombere dell’annuale dichiarazione dei redditi così come il sopraggiungere mefistofelico degli estratti conto delle carte di credito – delle quali ogni buon cittadino ha naturalmente abusato febbrilmente durante il periodo natalizio – sono elementi di sconquasso della psiche collettiva, agenti di perturbazione dell’umore sociale che non vanno sottovalutati minimamente.
Non stupisca dunque che, nella più onorevole delle tradizioni panem et circenses, il sistema mediatico statunitense si sia adattato alle circostanze, concentrando gli eventi più spettacolari in questo altrimenti tristo periodo, dando così vita al fenomeno della famigerata awards season (la stagione dei premi).
Golden Globes, Grammy, Sag (Screen Actors Guild Awards) e Oscar si rincorrono e quasi accavallano nel giro di una manciata di settimane. Se poi aggiungiamo a questo quadro anche il rituale collettivo del Super Bowl, la prospettiva di una saturazione massmediologica volontaria e distraente (Scuola di Francoforte, hello?) pare davvero compiersi.
Questo poi non è un anno come gli altri per Americani: a Gennaio Obama è stato re-insediato presidente, poche settimane dopo è stata la volta del discorso sullo Stato dell’Unione e la vita politica del nuovo governo è attualmente martoriata dalla minaccia di tagli spietatissimi alla spesa pubblica, nel caso non si trovasse un accordo sulla riduzione del deficit.
Queste osservazioni non sono accessorie, soprattutto se si pone mente e attenzione a quanto si è consumato una settimana fa in quel del Dolby Theater di Los Angeles. Jennifer Lawrence è scivolata ritirando un Oscar immeritato, Jane Fonda ha osato il giallo e Barbra Streisand ha perso l’uso della muscolatura massillo-facciale, diranno i miei giovani lettori… Sarebbe inesatto negare tali occorrenze, certo, ma sarebbe ancora più grossolano non menzionare quello che veramente è accaduto.
Come ogni anno gli Oscar sono l’occasione per l’America di ricordarsi cosa sia, una sorta di rinnovo della carta d’identità metaforica, ma forse mai come in questo 2013 la celebrazione massima dell’arte cinematografica non è stata incentrata sui film, ma sulla loro funzione di rinforzi simbolici. Il fatto che in termini generali l’offerta di pellicole quest’anno fosse abbastanza deludente ha sicuramente favorito lo scivolamento dell’evento in una sorta di battesimo nazionale á la born again.
L’America ha bisogno di puntellare le proprie certezze e perché non farlo usando uno dei linguaggi in cui eccelle, e uno dei più potenti ed efficienti: il Cinema. La forza di persuasione dell’industria cinematografica statunitense sembra impareggiabile e Hollywood rappresenta a tutt’oggi il simulacro della settima arte tour court.
Questa edizione dei premi, l’85ma, è stata talmente patriottica (qualcuno direbbe macchiata di propaganda) che il premio per il miglior film è stato annunciato nientemeno che dalla First Lady Michelle Obama. E quale film poteva essere premiato se non Argo, la pellicola che più di tutte tra quelle in concorso sintetizza valori e caratteristiche del carattere nazionale che gli Stati Uniti amano rinverdire.
Il film diretto ed interpretato da Ben Affleck parla della crisi degli ostaggi. Nel 1980, il personale dell’ambasciata americana in Iran viene sequestrato dalle frange fedeli a Khomeini. Alcuni membri riescono però a fuggire, trovando asilo presso l’ambasciatore Canadese. Per recuperare questi transfughi, la CIA organizza un’ingegnosa missione, facendo passare gli impiegati dell’ambasciata per componenti di una troupe cinematografica.
Argo è un buon film, ben confezionato, ben scritto, fluido e appassionante, è soprattutto una pellicola che ritrae i cardini dell’auto-immagine americana: coraggio, lealtà, inventiva e sfacciataggine. In più c’e’ il riferimento al Cinema, l’arte americana per antonomasia, per non menzionare poi che si tratta di un film basato su di un evento effettivamente accaduto, e questo non fa che fortificare il senso di realtà di cui l’audience statunitense ha oggi assai bisogno. Non è infine superfluo evidenziare che l’intera crisi diplomatica di cui parla Argo si sia risolta in maniera pacifica, insomma un’America che vince senza armi, e gli statunitensi amano sentirsi ricordare che non sono solo un popolo di guerrafondai assassini.
Se è abbastanza prevedibile che il premio per il miglior film vada attribuito ad una pellicola che incorpori determinate caratteristiche culturali, non è invece immediato constatare come l’intera rosa dei candidati rispecchiasse in maniera relativamente decifrabile un universo valoriale, un’assiologia – ed una costellazione di interessi – che trovano radici e motivazione nell’identità, nella storia e nel tessuto economico americani.
Così archiviato Argo, troviamo Lincoln.
Lincoln è la coscienza colpevole dell’America, è la difficoltà di venire a patti con la prassi dell’omicidio politico e la vergogna della segregazione razziale, tema quest’utimo affrontato anche da Django Unchained. Il film di Tarantino aggiunge all’equazione la figura dello spostato che si redime, un topos fortemente radicato nell’immaginario americano. Poi c’è il dramma collettivo dell’uragano Katrina nell’indipendente e surreale Beasts Of The Southern Wild, o la celebrazione politically correct della diversità e della possibilità di riscatto di Silver Linings Playbook. Od ancora l’epopea fantastica dell’emigrante in Life Of Pi – il viaggio e le traversie valgono la pena se il premio è una nuova vita (in un nuovo continente). In Amour si enfatizzano i concetti di unione, fedeltà e dell’amor vincit omnia (nonché i capitali della Sony Pictures). Ed infine Les Miserables, l’inevitabile riconoscimento ad uno dei generi americani più distintivi, il musical e Zero Dark Thirty, l’imprescindibile mitizzazione/demistificazione del trauma nazionale della guerra al terrore e dell’uomo che ipoteticamente ne è stato lo spunto fondamentale: Osama Bin Laden.
Il resto dei premi è stato distribuito – leggi spalmato – secondo il principio de ‘un colpo al cerchio ed uno alla botte’, ovverosia adottando una sorta di impostazione che ricorda la teoria educativa della Scuola dell’Autostima, corrente molto in voga negli Stati Uniti negli anni Ottanta e Novanta e che prevede che ognuno di noi sia in grado di eccellere in qualcosa.
Insomma un premio per ciascuno non delude nessuno.
E quindi accontentiamo Quentin Tarantino con una bella menzione per la miglior sceneggiatura originale, alla fine Django Unchained aveva un certo numero di nomination e Hollywood gongola nell’elargire lodi ai bad boys. Il film poi vanta non poche citazioni, freddure, gag e situazioni surreali, le parole di Quentin sono meritevoli e frutto di un certo lavoro, quantomeno d’archivio.
Amour non vince nelle categorie per i migliori attori, con mio personale scorno devo dire, ma d’altra parte premiare un film sull’eutanasia sarebbe stato piuttosto rischioso e difficilmente gestibile in termini di impatto sull’opinione pubblica americana. La pellicola di Haneke, snobbata anche nella categoria di film dell’anno, si aggiudica il premio di consolazione come miglior film straniero. Amour è un film che a mio avviso rimane tutto sommato non eccelso, soffrendo della sindrome da dramma realista da festival mitteleuropeo, una pellicola che é legittimo pensare non avrebbe ottenuto la stessa visibilità se non fosse stato diretta da Haneke, grande fascinatore trasversale e transnazionale. Tuttavia, la nuova creature del regista austriaco ha il pregio di esibire agli occhi dell’audience americana tutti i crismi della produzione europea stereotipica. Ancora una volta quindi una strategia poco avventurosa da parte dell’Academy, in una delle edizioni meno intriganti della kermesse.
Ang Lee vince come miglior regista, e a ragione, dato che il mestiere e la perizia necessari per imbastire un mondo fantastico eppur credibilissimo come quello di Life Of Pi vanno debitamente riconosciuti. Ricordiamo poi che anche in Life Of Pi sono stati iniettati non pochi capitali statunitensi e che Ang Lee è molto ben voluto ad Hollywood.
Sempre all’insegna di una scorata prevedibilità, l’attribuzione dei premi nelle restanti categorie.
Daniel Day Lewis vince come miglior attore protagonista per Lincoln, e non poteva essere altrimenti dato che il camaleontico attore ha prodotto un ritratto commovente e perfetto di uno dei presidenti più amati degli Stati Uniti. Per il solo argomento trattato, il film di Spielberg doveva portare a casa una statuetta, ça va sans dire, insomma nessuno vuole un’altra guerra civile.
Jennifer Lawrence vince come migliore attrice per Silver Linings Playbook, commedia romantica su due personaggi mentalmente sgangherati, con Bradley Cooper nella parte del protagonista e Robert De Niro nel ruolo di Robert De Niro. La Lawrence, stella nascente del firmamento hollywoodiano é l’emblema della All American Girl, piace agli sponsors, é bella, vitaminica, buffa, inciampa sul vestito firmato Dior e fa una conferenza stampa in preda ai fumi di un cicchetto. Come non rimanere affascinati da cotanta combinazione.
Anne Hathaway vince come miglior attrice non protagonista per Les Miserables, film per il resto praticamente ignorato dall’Academy. La bella e ambiziosa Anne è una gran lavoratrice, si è tagliata i capelli per il ruolo di Fantine e nel film canta persino. L’incorruttibile etica professionale della Hathaway non si smorza neppure al momento del discorso di ringraziamento: un panegirico ben oliato e provato, con tanto di lacrime posticce e istrioniche pause di sbigottimento.
Ultimo contentino per Django Unchained, con la premiazione come migliore attore non protagonista del bravissimo Christopher Waltz.
Sempre esibendo un cuor da leone, l’Academy decide di evitare in slalom ogni deriva politica ignorando i documentari più schierati, puntando sull’innocuo e nazional popolare Searching For Sugar Man, storia della tardiva consacrazione del rocker invisibile Rodriguez.
Il miglior lungometraggio animato lo vince, non so se riesco a contenere lo shock, il disneyano The Brave, e con questo facciamo felici anche le femministe in erba.
In termini generali ed abbozzando una considerazione complessiva, l’edizione numero ottantacinque degli Oscar pecca di stantia difesa dello status quo, risulta alla stregua di un teatrino imbolsito di botox e paillettes – troppe, troppe paillettes persino negli abiti delle dame – e a ben poco vale la patina di trasgressione e audacia che la conduzione dell’enfant-non-piú-cosí-enfant terrible Seth MacFarlane dovrebbe garantire.
MacFarlane – l’autore di cartoni politically incorrect come American Dad e I Griffin – dispensa boutade su gay, lobby ebraica e cocaina come se non ci fosse un domani, mette su un siparietto musical dedicato alle tette delle attrici ospiti in platea e fa in modo di annoiare persino i gradini del Dolby Theater.
Per quanto mi riguarda, ho trovato ben più sollazzo nella cronaca dei premi da parte del finto profilo Twitter di Michael Haneke (@Michael_Haneke). Il doppelgänger del regista austriaco ha chiaramente dei conti in sospeso con Terrence Malick (non so, forse gli avrà rubato la morosa alla scuola di cinema), si esprime esclusivamente in gergo street ed é proprietario di un micio afflitto da colon irritabile.
Consigliatissimo.
Stefania Paolini