Newt, Texas, 1974: un gruppo di ragazzi è massacrato dai componenti di una famiglia di cannibali tra i quali spicca Leatherface, molosso armato di motosega e munito di maschera in pelle umana. Solo una ragazza si salva e racconta l’accaduto allo sceriffo locale che, con i suoi uomini, stringe d’assedio la casa della famiglia per farsi consegnare Leatherface.
Viene da chiedersi perché. Perché? Che bisogno c’era di realizzare l’ennesimo sequel (questo, a detta della produzione, più autorevole degli altri) di un classico la cui forza principale consisteva nella concezione lo-fi, grezza, e nella poesia dell’incompiuto? Non aprite quella porta, l’originale, quello del 1974 di Tobe Hooper, colpiva per la cruda ed estrema veridicità della storia seppur assurda, con quegli indizi da mockumentary che hanno turbato il sonno e le visioni di generazioni a venire. E la durata: sembra quasi un dettaglio irrilevante, ma quei fatti sanguinosi concentrati in poco più di un’ora di film, davano l’effetto di un pezzo dei Ramones. Il finale, la macabra cena nella casa degli orrori, il trucco grottesco, quasi femminile, di Leatherface, il delirio dei suoi familiari attorno alla tavola. Dimenticate tutto ciò.
Non aprite quella porta 3D, è grottesco, molto, ma alcuni indizi fanno seriamente dubitare sulla volontarietà del regista nell’ottenere questo risultato. Sembra di vedere uno Scary movie qualsiasi, ma senza le forzature comico-demenziali. Non c’è una sola cosa che vada bene. È un film adolescenziale, roba per ragazzini. A cominciare dalla ciurma protagonista degli eventi. Facciamo un parallelo: nell’originale c’erano cinque giovani dall’aspetto tipicamente Seventies, le due ragazze molto conturbanti, ma c’erano anche un paraplegico, abbastanza goffo e ciccione, e uno dei ragazzi con un look e dei capelli abbastanza discutibili. Personaggi reali. Veri. 2013: nella versione 3D, due modelle con il trucco tatuato in faccia che non si toglie neanche sotto una pioggia torrenziale, un ragazzo di colore con un fisico alla 50 Cent e un altro giovane dall’aspetto indefinito e indefinibile, rimorchiano in una stazione di servizio un fotomodello che cerca un passaggio sotto un acquazzone, con una camicia hawaiana aperta fino all’ombelico, con dei pettorali tipici da nuotatore. Scene quotidiane nella periferia di Catanzaro.
Tralasciando il fatto che il 3D in questo film ha la stessa utilità di un ano sul gomito (come disse un bellissimo personaggio secondario in Kill Bill 2), tralasciando il fatto che gli attori recitano con la stessa intensità di quelli di Bayside School, tralasciando il fatto che il miglior interprete del film sono le natiche di Tania Raymonde (Nikki), diciamo che la pellicola non si salva neanche vedendola a occhi chiusi. Se a tutto ciò aggiungete che certe scene splatter è meglio vederle nei film di Eli Roth, che almeno ha una missione artistica nella vita, traete voi le conclusioni. Il culmine comunque si raggiunge in un paio di scene, quando la protagonista, ferita e in lacrime, ha il coraggio di gridare a un bestione ritardato con una motosega in mano “Hey bifolco di merda”, e quando sempre al suddetto omone con motosega viene rivolta un’incitazione con le seguenti parole “Datti da fare cuginetto!” Surreale. Andate al cinema a vederlo. Andateci. Prima però bevete. Bevete tanto.