Presentata in anteprima mondiale alla 74ª edizione del Festival Internazionale del Cinema di Berlino, Dostoevskij è la prima serie ideata, scritta e diretta dai Fratelli D’Innocenzo. Oggi pressday organizzato da Sky per il lancio del serial.
Di Dostoevskij abbiamo parlato con Fabio e Damiano D’Innocenzo.
Dostoevskij dei fratelli D’Innocenzo, serie Sky Original sarà su Sky e NOW con tutti gli episodi subito disponibili dal 27 novembre.
Si ringrazia l’ufficio stampa di Vision Distribution per il materiale fotografico presente in questa conversazione. Si ringraziano inoltre Fabio e Damiano D’Innocenzo per la foto di copertina e per le tre foto relative a un esempio di passaggio dallo storyboard alle immagini.
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Dostoevskij dei fratelli D’Innocenzo
Mi piace iniziare con una constatazione, ovvero di come Dostoevskij nel suo dialogo con ciò che l’ha preceduto non faccia altro che confermare l’eccellenza di America Latina. Anche di questo avremo modo di parlare nel corso della conversazione.
Su America Latina non possiamo che essere d’accordo con te!
Inizio dalla prima sequenza, come sempre fondante nei vostri film per i significati che produce all’interno della storia. Dostoevskij si apre con il racconto di una resurrezione, quella di Enzo Vitello, richiamato alla vita dalla possibilità di darle finalmente un senso. Il corpo esanime del protagonista trova infatti nuova linfa nell’intensità della luce che entra improvvisamente dentro la stanza dove Vitello giace riverso.
La tua è un’osservazione bellissima che condividiamo appieno perché riassume molti degli obiettivi che volevamo ottenere con quella scena, primo fra tutti di far sentire il profumo di morte che già aleggia in quel frangente. Ma c’è di più, perché, come hai giustamente detto, all’evidenza della morte corporea si contrappone un’improvvisa chiamata all’azione che costringe l’uomo a rinunciare alla sua libertà più grande, quella di porre fine alla propria vita all’interno di un contesto totalmente mesto e anonimo: vissuto in un quartiere invisibile dove nessuno si accorge di lui. D’altronde Dostoevskij è la storia del cambiamento di un uomo che, inseguendo un serial killer, scopre la possibilità che hanno i bruchi di diventare farfalla e più in generale di trovare anche l’idea di un’alternativa alla morte, alla vita e a entrambe le cose.
Che si tratti di una rinascita fisica è evidente. Vitello, una volta cosciente, sembra muoversi e camminare per la prima volta. Ma c’è di più, perché il risveglio del corpo porta con sé anche quello della coscienza e dunque di una nuova morale che va oltre il bene e il male.
L’esattezza della tua analisi è tale che aggiungere altri aggettivi finirebbe per svilirla. È come se avessimo parlato cinque ore di quella sequenza prima che tu ce la raccontassi. Dico solo che ad avvalorare quanto hai detto è anche la presenza del vomito che è una reazione tipica del neonato.
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Il dolore della figlia
Peraltro il vomito è un elemento destinato a tornare in una delle scene più belle, quella in cui Vitello si confronta con il dolore della figlia. Lì il contenuto gastrico assume una valenza ancestrale che in qualche modo sublima la pulsione del protagonista. Dostoevskij è ricco di dettagli apparentemente secondari, destinati a tornare per rivelare il loro vero significato.
Sì, assolutamente sì. Abbiamo cercato di fare un lavoro molto sofisticato anche per permettere una seconda visione che risulti gratificante per lo spettatore. In generale ci piacciono i film che, pur conoscendo la conclusione, possono essere visti più di una volta, suscitando a ogni occasione un piacere che deriva dal capire come si è arrivati a una determinata scelta attraverso i piccoli indizi che vengono seminati. Per farlo abbiamo avuto bisogno di una diversa organizzazione e per esempio di una scaletta legata ai punti cardine della storia. Questa ci ha consentito di controllare al meglio l’andirivieni della narrazione. In termini di scrittura il fatto di farlo per una serie non ci ha impedito di essere veloci come non capita ai professionisti del settore che invece impiegano molto più tempo. Ad avvantaggiarsi è forse stata la nostra voglia di rimanere in ascolto evitando di avere già tutto pronto e prestabilito. Abbiamo adottato un metodo fatto di un misto di preparazione e impreparazione che prevedeva di arrivare sul set distribuendo i nostri storyboard. Da quelli si partiva con l’idea che tutto si poteva cambiare e che molto dipendeva dalla possibilità di improvvisare appoggiandoci sulla bravura degli attori. Parliamo di una preparazione propedeutica a quello che ci suggerisce l’ambiente dove giriamo e le persone con cui lavoriamo.
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Confine tra bene e male in Dostoevskij dei fratelli D’Innocenzo
Si diceva di come la prima sia una sequenza fondante. Lo è anche ai fini del rapporto tra Vitello e il serial killer, accomunati dal fatto di scrivere lettere che parlano di morte. Vitello lo fa a mo’ di testamento, prima della sua presunta morte, l’assassino quando si tratta di lasciare una spiegazione di quello che fa. Lo è anche nel suggerire come il confine tra bene e male, così come tra vita e morte, siano più sottili di quanto si possa pensare.
Ciò rispecchia quello che pensiamo della vita, destinata a decidersi su questioni di millimetri. Capita infatti che la persona più buona del mondo possa perdersi nel passo successivo. Quante volte nella vita capita di spegnere la luce o di accenderla. Per questo io e Fabio rifuggiamo da sempre dalla divisione tra persone in gamba e persone problematiche. Ciò che è definitivo ed etichettatile è parimenti detestabile ed è quello che io non voglio dalla mia visione del mondo, dalla mia scommessa aperta con la vita. Spero che non ci sia mai una chiusura così netta del destino perché vorrebbe dire che è già tutto scritto e che noi dovremmo unicamente abdicare alle nostre caratteristiche cardine. È una cosa che soprattutto oggi trovo troppo brutta e disorientante perché vorrebbe dire sottrarsi al potere dell’immaginazione. Alla luce di questo ci viene da dire che è quasi sano in dei momenti perdersi del tutto. Ancora di più, è assolutamente necessario ricollegarsi con l’errore per tornare imperatori della sconfitta, che poi vuole anche dire tornare ad essere bambini.
Certo è che una volta capite le regole dei meccanismi sociali c’è la possibilità di mascherarsi e di diventare una persona impeccabile per il resto del mondo. A noi invece interessa che il gesto artistico diventi un allungamento del nostro arto per cui quando raccontiamo storie lo facciamo con queste caratteristiche. I ragazzi de La terra dell’abbastanza sono persone buone e vergini eppure fanno un incidente che gli cambia la vita. In Favolacce dei bambini che potevano essere rassegnati e che sono anime pure comunque costruiscono una bomba per far finire tutto. In America Latina un uomo che desidera l’amore senza riuscire a intercettarlo se lo inventa e fa quello che fa. In Dostoevskij c’è la corrispondenza epistolare a distanza tra due anime che forse non sono così diverse.
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I vostri film dialogano uno con l’altro. Favolacce lo fa assegnando alla parola un valore misterioso e profetico attraverso il ritrovamento del diario che dà il là alla narrazione. Dostoevskij non gli è da meno facendo della scrittura il cardine di una reticenza che in entrambi i casi costituisce materia pregnante.
Ovviamente non è possibile creare un parallelismo tra noi e il serial killer però nelle sue parole riconosco comunque una componente febbrile, anarchica e anche fuori moda che fa del linguaggio una vera forma d’espressione e non un semplice riempitivo. In un mondo dove tutti esprimono opinioni in modo assolutamente perverso e scoordinato Dostoevskij tende la mano verso l’altro attraverso questa corrispondenza in cui trovo ci sia qualcosa di demodé e di cavalleresco. Dostoevskij è in grado di recepire l’altro come qualcuno che ascolta e non come un soggetto passivo che si limita a registrare ciò che gli viene detto. In questo senso penso sia molto generoso essere reticenti con un mezzo così forte come il cinema in cui tutto è declamatorio. Senza l’interpretazione quest’ultimo diventa egemonico, non lasciando allo spettatore l’opportunità di colmare alcuni vuoti narrativi che giustamente vanno lasciati aperti per rendere la visione attiva e non passiva. Per questo comprendo il modo di scrivere del serial killer di Dostoevskij, come pure la possibilità della reticenza di essere applicata a tutte le arti.
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La parola e il verbo in Dostoevskij dei fratelli D’Innocenzo
Una particolarità del vostro cinema è quello di armonizzare il racconto per immagini a una parola capace di essere insieme carne e letteratura. In Dostoevskij il parlato è unione di informazione e introspezione capace di mandare avanti la storia senza dimenticare di sondarne il malessere. Questo è possibile perché nei vostri film il verbo non è mai statico, ma in perenne cambiamento. Siete d’accordo?
Assolutamente sì. Tu prima rivendicavi in maniera anche orgogliosa le qualità di America Latina che, come sai benissimo, era in fin dei conti un film muto. L’esatto contrario di Dostoevskij in cui avevamo bisogno che la pagina scritta campeggiasse nelle immagini anche in termini di ortografia. Appena ci siamo resi conto che avremmo dovuto scrivere seicento pagine di sceneggiatura abbiamo messo sul tavolo Canti del Caos di Antonio Moresco, il nostro scrittore italiano preferito che purtroppo nessuno conosce nonostante la sua veneranda età. Quel libro composto da circa mille pagine non l’abbiamo mai sfogliato, ma per noi è stato una sorta di nume tutelare, ricordandoci che qualcuno aveva già compiuto l’impresa di scrivere in maniera così copiosa. Ovviamente anche grazie al lavoro degli attori quelle pagine sono rimaste in continuo movimento come giustamente facevi rilevare. Nulla è mai veramente fermo anche se nei nostri film c’è davvero pochissima improvvisazione e quelle che sembrano reazioni naturali si devono alle precisione delle interpretazioni. Anche se poi per noi la sceneggiatura non è mai cosa morta, ma materia viva che non si smette mai di “impastare”. Tu parlavi di letteratura e io ti dico che Dostoevskij è il risultato del nostro amore per i libri. Penso che noi siamo tra le persone che ne leggiamo di più arrivando a finirne almeno tre a settimana.
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In Dostoevskij i dialoghi sono intrisi di un linguaggio hard boiled che non è mai avulso dal contesto e che, pur evocando i modelli americani, si mantiene a stretto contatto con la realtà dei personaggi. In un quadro altamente drammatico le conversazioni funzionano da detonatore per improvvisi cambi di rotta che sfociano nel surreale e nel grottesco. Dalla durezza incalzante dei vocaboli utilizzati per dare voce alle accuse di Bonocore nei confronti di Vitello si passa al divertissement messo in scena quando si tratta di affittare una stanza d’albergo da una proprietaria poco incline ad assecondare i suoi clienti.
Hai citato un genere, l’hard boiled, che abbiamo frequentato da giovani seppur in maniera laterale. Se ti cito Charles Bukowski lo faccio non perché lui abbia scritto libri del genere, ma per una struttura narrativa ispirata da questa corrente. Poi se vogliamo parlare degli autori che sono entrati a far parte dell’immaginario di Dostoevskij devo citare il Robert Altman di A Long Good Bye, e ancora Lucio Fulci, Pupi Avati, Dario Argento così come, per quanto riguarda la musica, un autore come Egisto Macchi, presente con due brani, uno all’inizio e l’altro alla fine, che sembrano usciti fuori da un poliziottesco anni settanta. Considera che quello di Dostoevskij è un genere che non abbiamo mai esplorato. Tendiamo in generale a fare film che non rientrano tra quelli che preferiamo. A noi piacerebbe girare un melò e ancora un coming of age, ma fin qui non abbiamo avuto i mezzi giusti per farlo. Scegliere generi che non conosciamo ci dà però il vantaggio di non avere vincoli e reference che di solito finiscono per schiacciarti. Condivido quello che hai detto a proposito dei dialoghi, all’ironia pronta a entrare in campo nei momenti in cui meno te lo aspetti: come succede nel pieno della tensione conclusiva, quando il personaggio di Federico Vanni, il capo di Vitello si mette a chiacchierare con il barista.
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A proposito di rimandi, il disprezzo di Vitello nei confronti di Bonocore anche nella durezza con cui gli si rivolge mi ha ricordato quello del Colonnello Kurtz nei confronti del capitano Willard. A proposito della capacità del cinema e del vostro in particolare di aprire altri mondi.
Non ci avevamo mai pensato, ma sono d’accordo sul fatto che il cinema sia un invito al viaggio.
Un richiamo
Sempre nella prima sequenza c’è un’inquadratura che ricorda quella celebre di Sentieri Selvaggi, quando il film, attraverso la figura di Vitello, posizionato sulla soglia di casa, si apre a un paesaggio che sembra quello di un Western. Non è un caso che la sequenza successiva si apra con un campo lungo su quello che potrebbe essere un sorta di Canyon.
Questa è una cosa molto interessante: hai citato dei film a cui non abbiamo mai pensato, ma la magia del cinema è quella di raccontarti posti in cui non sei mai stato e di farteli ritrovare in luoghi che già conosci. Tu mi hai parlato di cose di cui io non ricordo nulla e che però sono presenti perché la settima arte è il diorama della nostra vita. Tutto questo ci rende enormemente contenti e spesso restituisce il senso di quello che stiamo facendo. A volte siamo delusi dalla contemporaneità, ma per fortuna i film sono senza tempo. America Latina è uscito nel 2021, ma adesso avrà una vita infinta. Magari una persona che nasce oggi lo vedrà tra vent’anni e questa è un’idea che ci rende felici.
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A proposito di America Latina, Dostoevskij inizia laddove finisce il primo. In Dostoevskij i fantasmi interiori di America Latina prendono corpo. Lo stesso succede al paesaggio che nel film precedente inizia a manifestarsi mentre qui viene esplorato come prateria geografica e umana.
America Latina è il film che ha cambiato molto le nostre prospettive. Quando decidemmo di dedicarci ad esso facemmo riferimento anche al nostro vissuto legato a Latina, città dove hanno vissuto i nostri genitori. Dapprima per noi quelli sono stati luoghi di transito poi, a un certo punto, ci siamo accorti che in quella natura invisibile c’era qualcosa di molto affascinante. Parlo della componente orizzontale che rende i paesaggi terminali come se si fosse sempre di fronte alla fine del mondo. Il fatto che non ci sia mai una skyline, che non si riconosca una determinata città o anche un’urbanizzazione fa sembrare tutto post bellico e allo stesso tempo pre-industriale. Si tratta di una doppiezza che da una parte può ricordare certo cinema di Pier Paolo Pasolini, quello in cui il regista cercava di conservare la purezza di una Roma che stava sul punto di diventare metropoli, e dall’altra sembra rifarsi al post bellico indefinito di Cormac MacCarthy.
America Latina segnala la nostra necessità di smarcarci naturalmente da una componente romana. La terra dell’abbastanza è forse il nostro film più autobiografico essendo girato nella periferia romana; Favolacce è un film che, pur avendo radici disneyane e legate al personaggio di Charlie Brown, è stato erroneamente percepito come girato a Spinaceto per via dell’accento romano dei personaggi. Con America Latina ci siamo detti di partire da una dichiarazione di luogo che contenesse però una componente spaziale metafisica data dalla presenza della parola America. D’altronde il nostro è da sempre un cinema lunare. Se penso a L’eclissi di Michelangelo Antonioni, se penso ad alcuni film di Elio Petri, per esempio a La decima vittima, se penso ai film di Romano Scavolini e ai primissimi di Matteo Garrone ritrovo la volontà di sottrarsi al realismo geografico per arrivare a un significato più profondo. In questo senso America Latina è stato quasi un film di preparazione, un allenamento per poi riuscire a fare Dostoevskij nel modo in cui è stato realizzato. Quello è un film che basta a se stesso però ha fatto da apripista a qualcosa che poi abbiamo esplorato in maniera più radicale.
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Il tema della morte di Dostoevskij dei fratelli D’Innocenzo
Parlando di morte Dostoevskij ne filma il trapasso nelle caratteristiche terminali di un paesaggio popolato da edifici fatiscenti, pieno di strutture architettoniche deformi, di cantieri sospesi. Le forme del paesaggio rispecchiano lo stato d’animo dei personaggi. Non è un caso che l’ex orfanotrofio in quanto luogo dell’estremo dolore sia ridotto per lo più a un cumulo di macerie.
Condivido questa visione della cose. Quando si crea un presepe tutte le miniature devono avere una credibilità nel contesto che uno immagina e anche nell’artificio con cui nella prima inquadratura si crea un patto con lo spettatore. Parliamo di un’alleanza che non si può spezzare senza perdere la fiducia di chi guarda il film. Questo rispecchia anche il nostro modo di considerare l’audiovisivo che ci fa apprezzare anche lungometraggi meno belli e che però, come quelli di Scavolini, hanno sempre uno spasmo, un qualcosa di estremamente vivo anche se magari di esageratamente selvatico.
Riguardo al paesaggio di Dostoevskij ci siamo detti di realizzarlo somigliante ai personaggi. Doveva essere protagonista di questa storia nella maniera in cui il personaggio ne abbraccia passato e futuro. In concreto la nostra prima idea è stata quella di trovare degli scenari che non rimandassero a una precisa topografia. Abbiamo girato nel Lazio, ma di quello non c’è nulla perché lo abbiamo sempre guardato di sbieco. Nel farlo ci siamo detti di essere sempre essenziali. Essendo nati con il fumetto abbiamo pensato che in Dostoevskij i paesaggi dovessero rispecchiare i disegni dei bambini, quelli in cui è difficile trovare cose che non servono: quello di solito lo fanno gli adulti. Un bambino disegna il prato, il cielo e se è di buon umore anche il sole con i suoi raggi. Noi puntavamo a quell’economia, a quell’essere incredibilmente precisi.
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Altri elementi tecnici
Montaggio, fotografia e suono concorrono a popolare il paesaggio con una narrazione che è allo stesso tempo reale e psicologica, concreta ed emotiva, esterna e interna. Spesso i rumori appaiono sfalsati rispetto al riferimento visivo, rimandando a un brusio psicologico. Succede per esempio nelle sequenze in cui Vitello si trova dentro l’abitacolo, con il rumore irreale del furgone che dà il là a un corto circuito spazio temporale.
Ancora una volta ti facciamo i complimenti per l’acutezza di osservazioni che vanno incontro a quello che abbiamo cercato di fare. La fotografia di Matteo Cocco, il montaggio di Walter Fasano, la scenografia di Roberto De Angelis, e ancora la post produzione del suono sempre ad opera di Fasano che come tutti i grandi montatori si fa guidare non solo dall’occhio, ma anche dall’orecchio, hanno contribuito in maniera determinante a quello che è il film. Con Walter abbiamo passato nove settimane di post produzione sul sound design curando ogni singola cosa. Lo so che può sembrare ossessivo e siamo felici che lo sia perché per noi esiste solo questo modo di fare cinema. Si è trattato di un lavoro molto viscerale come lo è stata la scelta di girare in pellicola per esaltare tonalità sporche e quasi violente. Per quanto riguarda la resa del suono ne volevamo uno somigliante a quello analogico e non digitale. È stato come fare l’incisione live di un disco, ma solo così si poteva far risuonare tutto in maniera molto materica, e dunque lontana dal conformismo con cui oggi si fanno le serie. Abbiamo inciso i brusii di ogni singolo evento, abbiamo inciso battute reali senza curarci che fossero udibili o meno perché la vita è così: non riesci sempre a sentire tutto, a maggior ragione se la persona è distante da te. Per questo do atto a Walter Fasano di aver preso in mano un regime di lavoro estremamente lungo, ma altrettanto gratificante perché lui è il primo a godere nell’ascoltare un bel suono. Fortunatamente il cinema Troisi di Roma dove abbiamo organizzato l’anteprima gode di un’acustica eccellente e tale da valorizzare il lavoro che è stato fatto.
Matteo Cocco è autore di una fotografia al tempo stesso sporca e materica, pronta a rispecchiare la crudezza del reale, e invece pulita e plastica soprattutto in certe riprese notturne in cui la dimensione metafisica sembra prendere il sopravvento. Un dualismo che rimanda a quanto dicevamo all’inizio, ovvero al filo sottile che separa il giorno dalla notte, la vita dalla morte.
Per noi si tratta di mettere nel film la contraddizione: di mischiarla nelle nostre vite e nelle nostre certezze senza paura o meglio, facendo sì che la paura sia compresa in tutto questo. Per la fotografia ci siamo avvalsi di Matteo Cocco che oltre a essere diventato un nostro grande amico è uno straordinario interprete delle immagini. Ciò che lo rende straordinario è che fondamentalmente non gli interessa nulla della fotografia, nel senso che non è schiavo della bellezza e dei trucchi del mestiere. Non ammette che ci sia un’immagine più dignitosa di un’altra e questa democrazia di sguardo gli ha permesso di entrare nella lavorazione del film come una carezza.
I personaggi
Vitello e Bonocore sono personaggi agli antipodi. Uno è turbolento caotico, l’altro freddo e pragmatico. Questa distanza diventa quella presente nell’inquadratura che suggella il loro primo incontro. Invece di staccare sul piano ravvicinato dei loro volti filmate in tempo reale i passi compiuti da Vitello per raggiungerlo. Peraltro il fatto che il percorso sia in discesa suggerisce come l’intelligenza di Vitello si debba abbassare al livello del suo avversario per riuscire a comunicare con lui.
Dialogare con te ci piace molto perché aggiungi sempre una grande precisione su quelli che erano gli scopi drammaturgici. Siamo molto felici e affascinati per il modo in cui studi i nostri film. Detto questo anche qui abbiamo utilizzato uno zoom – usato per la prima volta in America Latina – che si rifà al cinema italiano degli anni settanta e alla necessità di girare con delle focali molto larghe. La prossemica tra Vitello e il suo antagonista, – diventato tale con un primo sguardo in macchina da parte di Gabriel Montesi – volevamo fosse già emblematica del loro primo incontro che poi è uno sfiorarsi muto perché nessuno dice qualcosa all’altro. Il fatto che ti sia arrivata nella maniera giusta ci rende felici perché vuol dire che abbiamo scelto il modo adatto di girarla.
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Ritraete i personaggi in maniera lombrosiana. L’esempio più lampante è costituito da quello interpretato da Gabriel Montesi, ripreso in modo che spigoli e sporgenze di viso e scatola cranica esprimano attraverso la fisiognomica il muro che lo separa dalla realtà e dagli altri. Una barriera che lo rende intellegibile, ma che allo stesso tempo costituisce ostacolo alla comprensione degli altri. Parliamo di caratteristiche opposte alla fisiognomica di Vitello che invece è completamente trasparente. Peculiarità lombrosiane che vediamo in atto anche all’interno del commissariato nella sequenza in cui viene letta una lettera del serial killer.
Bellissimo, sei un cacciatore di pensiero! Sì, è vero, dietro i personaggi c’è anche questo lavoro lombrosiano per cui il volto testimonia l’evoluzione o l’involuzione di una persona. Negli storyboard quando immaginavamo il personaggio di Bonocore lui aveva lobi per l’orecchino che poi si erano cicatrizzati una volta entrato in polizia. Abbiamo fatto uno studio sui personaggi che come dice Fabio è stato ospedaliero nell’analizzarne gli aspetti grotteschi e ossessivi. In Favolacce avevamo fatto la stessa cosa per il personaggio di Max Malatesta che ha aspetti somatici molto interessanti, capaci di comunicare prima ancora di proferire parola. L’attore recita anche con il corpo, con la prossemica e finanche con uno sbadiglio. Ha la capacità di nascondere segreti e di far accadere prodigi. Il corpo e ciò che gli mettiamo addosso è capace di parlare a chi ha uno sguardo come il tuo.
Padre e figlia in Dostoevskij dei fratelli D’Innocenzo
Detto che con voi gli attori recitano in maniera magnifica anche perché il lavoro con gli interpreti è quello che preferite, per parlare di quello con Filippo Timi e Carlotta Gamba e del rapporto tra padre e figlia mi rifaccio a due scene in particolare. La prima, davvero commovente, è quella in cui il padre che non può amare trova l’unico modo di farlo preoccupandosi che la figlia inzuppi il cornetto nel latte. La purezza di quel rapporto è sottolineata anche dalla presenza della luce del sole, per una volta presente nell’incontro tra i due personaggi.
È una scena molto genuina, una di quelle che abbiamo sempre pensato di girare in piano sequenza. Ci siamo chiesti più volte se realizzarla in quel modo avrebbe preservato la magia del momento senza chiedere troppo allo spettatore. Filmare in un unico scatto introduceva nella sequenza elementi casuali come la presenza della zanzara che gira intorno al cappuccino della figlia inducendo Filippo a scacciarla per preservare l’integrità anche ideologica di quel momento così intimo. Nel modo in cui Carlotta Gamba mangia il cornetto, e cioè con una fame vera e disperata, ma anche gioiosa con una certa gioia abbiamo messo il nostro riferimento al cinema neorealista e al modo in cui Roberto Rossellini ha ritratto la fame nel dopoguerra.
L’altra scena è quella del confronto finale, quella in cui Enzo rivela alla figlia i motivi del suo comportamento. A colpirmi è stato il fatto di averla girata fondendo movimenti opposti: da una parte l’avete costruita con corpi che si incontrano e si scontrano, dall’altra quando Filippo confessa l’indicibile restando fuori campo e con la mdp sul volto muto di Carlotta adottate il principio opposto.
Anche lì c’è il tema del doppio che ricorre o meglio, di un’unità che si spezza. È una scena che ha richiesto agli attori uno sforzo mentale e di fantasia grandissimo. Forse tra tutti i nostri film quella è stata la scena più difficile da girare. Non dal punto di vista tecnico ma per quanto riguarda la componente umana e mentale dalla quale non ci siamo ancora ripresi. E così è successo gli attori ed è bene così perché dai miracoli non ci si deve riprendere.
Qui per un’altra conversazione con i registi