Un’ora e mezza con Antonio Bellia, ci ha permesso di sfiorare il nucleo del suo pensiero. Interessante chiacchierata con il regista.
É un dato di fatto che nei primi anni 2000 la collettività umana, soprattutto in questo paese, non aveva il giusto sapere né la sensibilità indispensabile, per affrontare questioni sociali e ambientali. Tutt’oggi c’è ancora tanta ignoranza sull’argomento. Immagino quindi che, all’epoca del tuo esordio, incentrare un festival di cinema su queste premesse deve essere stato alienante.
La domanda mi piace, perché sedici anni fa, quando ho provato a realizzare SiciliAmbiente Film Festival, sembrava una follia. Venivo da un’esperienza legata all’ambiente, ai diritti umani in qualità di autore di documentari, legati a queste tematiche, inoltre mi hanno preceduto dieci anni di esperienza come membro del Comitato Scientifico sullo Sviluppo Sostenibile UNESCO. Mi resi conto di questa emergenza, che allora non era vista come tale. Mi piaceva l’idea di mettere insieme cinema e ambiente, mie due grandi passioni oltre che professioni.
L’inizio è stata una scommessa difficile, ma anche intrigante. Ricordo che nei primi anni spesso incontravo gente che mi chiedeva: “ma questo film cosa c’entra con l’ambiente?” Per me era stimolante, perché a seguito di proiezioni, incontri e dibattiti, tante di quelle persone tornavano sui loro passi. “ Ho capito perfettamente perché hai inserito questo film, ho compreso quale messaggio cercassi di divulgare”: questa è stata la parte più stimolante dei primi anni. L’altra scommessa è stata l’idea di coinvolgere organizzazioni importanti che spiccano su questi temi. Nello stesso festival ho riunito insieme Amnesty International e Greenpeace… un’utopia! Una scommessa vinta perché Amnesty International ad oggi porta avanti tra le sue campagne, quella della protesta ambientale, un esempio di come le grandi ONG si siano negli anni avvicinate tra loro e a tematiche differenti.
Il nome del festival forse è un po’ fuorviante, SiciliAmbiente Film Festival, all’epoca era SiciliAmbiente Documentary Festival. In realtà fin dall’inizio il festival era incentrato sullo sviluppo sostenibile; incrocio tra diritti umani e diritti alla tutela dell’ambiente. Questa impronta l’ha diversificato dall’unico festival presente in Italia a quei tempi, il Festival Cinemambiente di Torino dal quale nei primi anni abbiamo ricevuto sostegno.
Questo è l’orgoglio di tutto ciò che abbiamo percorso e dopo sedici anni è bello, da un lato, vedere come queste tematiche adesso sono all’ordine del giorno, che ogni anno nascono molteplici festival dedicati o come le grandi manifestazioni di cinema creano ora degli spazi ad hoc per queste tematiche. Dall’altro lato, ti accorgi che passano gli anni e le crisi ambientali e dei diritti umani non fanno altro che aggravarsi.
Infatti negli anni le problematiche oggetto di narrazioni cinematografiche sono evolute in volume e gravità. Perché è importante che l’attivismo ambientale italiano trovi una sua identità cinematografica?
É importante. Quest’anno presenteremo insieme ad Amnesty International un report sull’incattivimento della persecuzione degli attivisti da parte dello Stato. Le pene previste per gli attivisti ambientali con le nuove normative si sono aggravate enormemente.
É fondamentale che la cultura, che il cinema si faccia interprete di quello che accade, delle esigenze di un cambiamento radicale, sia delle politiche ambientali sia delle politiche repressive e di quelle che normano i diritti in generale.
Il cinema non può non fare la sua parte e la sta facendo. In Italia, devo dire, si fatica un po’ a parlare di ambiente anche dal punto di vista cinematografico, è difficile trovare delle opere profondamente ambientaliste realizzate con fondi cospicui. Ci sono tanti bravissimi registi che negli anni hanno portato avanti delle battaglie durissime e che continuano a farlo ma con grande difficoltà.
All’interno del festival abbiamo il Premio Greenpeace Italia per il Miglior documentario sull’ambiente ed il Premio Amnesty International Italia per il Miglior documentario sui diritti umani. Nella selezione cerco di equilibrare il numero di opere che concorreranno per una candidatura o per l’altra e stavolta ci è stato un notevole aumento di proposte incentrate sull’ambiente.
Il sud Italia è spesso – e oso dire purtroppo – condannato a pregiudizi che lo esulano dal possedere una coscienza etica o volta alla sostenibilità.
Forse non è un caso che il festival sia nato in Sicilia. Io vivo a Roma da quasi vent’anni ma in realtà sono siciliano. Quando ho concepito il festival non potevo fare altro che pensare alla Sicilia. Perché è una terra straordinaria dal punto di vista ambientale e dei diritti; si può fare riferimento alla sua accoglienza dei migranti rispetto a diverse realtà in Italia. Ho pensato alla Sicilia perché è la terra della deturpazione dell’ambiente. Abbiamo forse il primato di essere la terra più ricca di contraddizioni. É un luogo dove si sono svolte molte battaglie significative sul versante ambientale e quello dei diritti.
L’idea di farlo nascere a San Vito Lo Capo, località turistica che ho amato già prima di renderla scenografia dei SiciliAmbiente Film Festival, parte dalla sua collocazione intermediaria tra due riserve naturali, la riserva dello Zingaro e la riserva di Monte Cofano. Inoltre la prima battaglia ambientalista vinta in Sicilia è stata proprio a tutela di quella che è oggi la riserva dello Zingaro, prima riserva orientata.
É una terra dove ci sono tanti giovani, tanti disastri, le mafie ed ecomafie: è giusto esserci!
Io credo che il cambiamento non può non passare che dalle nuove generazioni e nel sud quest’ultime hanno una vitalità interessante. L’attivismo ambientale e sociale non può non partire da qui.
![SiciliaAmbiente Film Festival](https://www.taxidrivers.it/wp-content/uploads/2024/07/SiciliaAmbiente-Film-Festival-1024x682.jpg)
Azzardo definire la nostra società asettica, pecca di abulia e si mostra sovente anestetizzata alle sue colpe.
É un aspetto difficile. La gente non vuole subire film pesanti, i bambini schiamazzano e perdono la concentrazione, come pretendi che rimangano seduti due ore a guardare un film sulla spazzatura? La sfida è cercare di unire la bellezza cinematografica alla denuncia e ad una presa di posizione necessaria. Rimane un festival di nicchia, per il quale riempire due sale vuol dire raggiungere il successo per quella stagione. I toni dei film proiettati sono alleggeriti da una serie di momenti di scambio, come i diversi incontri con gli autori delle opere o la possibilità di interfacciarsi con le grandi associazioni come Amnesty International e Greenpeace, oppure ancora, ospitiamo diversi aperitivi letterari con registi e pubblico e poi dal punto di vista cinematografico la scelta dei contenuti ha il suo rilievo. Accogliamo per esempio le produzioni anime tra le categorie, questo alleggerisce e varia le tematiche e avvicina spettatori più giovani.
Mi chiedo, secondo il tuo gusto, quali siano le pellicole esemplari di questa dote. Film con forte carica evocativa abili nell’aprire un appello.
Les algues vertes di Pierre Jolivet, film franco- belga, ispirato a fatti realmente accaduti. Morti improvvise sulle spiagge, destano l’attenzione di una giornalista che, indagando, scopre che la causa di tali tragici eventi risiede nella rimessa di alghe depositate sulle sponde.
Si possono trattare fatti drammatici, ma se il film in sé per se, a livello estetico è bello, poetico, ricco di interpretazioni di calibro, nient’altro può attirare l’attenzione.
Si potrebbero fare scelte di campo e selezionare film più commerciali, ma preferisco osare con contenuti più forti, vado laddove c’è la poetica e la bellezza cinematografica e il problema della pesantezza del film lo metto da parte. Se dura tre ore è perché deve durare così, questa è la sua potenza.
Il cinema è arte e l’arte affascina!
Ricordo un anno, Marco Antonio Pani presentò Capo e Croce, le ragioni dei pastori, un film di oltre due ore, che aveva come soggetto gli allevatori di pecore in Sardegna. Pellicola con i sottotitoli, in bianco e nero, con narrativa lenta: bellissimo. Esporlo in prima serata voleva dire rischiare di svuotare la sala, eppure quel film è stato apprezzato così tanto da vincere il festival, perché era veramente poesia quel film. In giuria in quell’edizione, la sesta del festival, ha presenziato Claude Guisard che si batté estasiato per farlo vincere.
Autore, regista, produttore: tanti anni fa, tu stesso hai provato la sensazione di candidare per la prima volta una tua opera. Cosa si prova ad essere affermati nella propria carriera così tanto da poter lanciare adesso quella di talenti emergenti? Fornire un palco e i giusti riflettori per pellicole che altrimenti non otterrebbero la stessa risonanza nell’industria.
É una sensazione molto bella, il festival mi arricchisce tanto anche come autore. Il semplice fatto di consumare così tanti componimenti: nonostante io abbia un collaboratore per la selezione delle candidature, finisco sempre per guardarli tutti, ogni film proposto. La paura che mi perseguita è che la mia “autorialità”, il mio gusto, si impongano sulle scelte, quindi cerco di astrarmi il più possibile dal mio modello, anche se in verità non ne ho uno fisso perché amo il cambiamento e la sperimentazione. Questo è sempre stato il mio grande timore, valutare con un occhio troppo legato alla mia sensibilità d’autore, piuttosto che con la bellezza oggettiva, sempre che essa esista…
Uno degli aspetti più gratificanti è lanciare i giovani, le opere prime, soprattutto nell’area dei cortometraggi. La cosa più difficile è disaffezionarsi alle immagini che hai girato. Convincersi che una scena non pertinente, superflua e lenta, sia essa stessa la scena madre dell’intera narrazione e impoverire così il film; questo è l’errore tipico della gioventù di un autore. Quando però si percepisce che c’è della qualità è magico.
Sacrificare nella cinematografia è una scelta esiziale ma necessaria!
Essere autore mi ha aiutato tanto, ma produrre un festival mi ha aiutato ad essere autore. Come autore sono arrivato ad una fase in cui concepisco e dirigo film molto poco adatti ai festival!
Con Chiesa Nostra o La Corsa de l’Ora, ad esempio, insegni che è un dovere riflettere il tempo e farsene testimone.
Questa è una domanda molto difficile. Io per anni ho fatto fatica nel definirmi regista, quando mi chiedevano cosa facessi nella vita, provavo quasi vergogna nel rispondere. Sono anche una persona riservata e provavo difficoltà perché mi sembrava presuntuoso e non mi sentivo così valido da potermi definire tale.
Il cambiamento quando è avvenuto?
Un tempo fui colpito da una reale crisi, in bilico: continuare o abbandonare questo mestiere? Anzi, mi correggo, intraprendere davvero questa attività? Il mio maestro mi regalò un libro di Peter Brook, sulla prima pagina trovai una nota scritta a mano dal maestro: “regista è colui che si autodefinisce tale”. Questa è stata per me la base dell’accettazione. Quando finalmente mi sono sentito in grado di rispondere alla domanda “che cosa fai nella vita” dicendo a piena voce “regista”, mi ci sentivo. Divenne un’esigenza esercitare il mestiere di regista per comunicare le emergenze che sentivo dentro di me che a causa della mia timidezza, raramente ho portato al di fuori.
La discriminante regista/artista la interpreto come la dualità dell’artista artigiano.
Non saprei, penso di essere un buon artigiano e spero di essere a volte anche un bravo regista. Il limite è molto sottile e credo che risieda nella capacità di creare della poesia! Far raggiungere allo spettatore qualcosa che rimane. Senza la necessità di adottare la brutalità come propria arma, come riprendere obbrobri di umanità, morti straziati a terra col sangue che cola. Certe immagini possono essere mostrate senza inquadrarle davvero; le puoi far sentire e percepire dentro. La forza di un documentario è il raggiungere l’altro e lasciare un piccolo puntino che rimanga, in quel caso, il film merita di esistere.
La tua filmografia può essere interpretata come una lettera d’amore alla tua terra, romantica ma razionale e lucida abbastanza da coglierne le piaghe. Perché il documentario?
Effettivamente è vero. Forse perché me ne sono andato via dalla mia città molto presto. Ho iniziato questa professione in Sicilia ma presto l’ho abbandonata. Il distacco mi ha portato a voler raccontare la mia terra nelle sue svariate sfaccettature. Partire da lì, dalla Sicilia e raccontarla, è stato un passo naturale. La Corsa de l’Ora, forse un controsenso, ma è una realizzazione cinematografica nata proprio dalla volontà di non narrare di mafia. Ho voluto parlare dell’esistenza di un giornale che ha accompagnato la mia infanzia, perché mio padre lo leggeva ordinariamente, un punto di riferimento, anche quando si studiava politica a scuola. Lo storico quotidiano L’Ora di Palermo, era fonte di orgoglio per le grandi penne che lo hanno firmato; volevo raccontare la Sicilia in positivo e inevitabilmente ho concluso col raccontarne un pezzo di storia.
Trovo il documentario una forma libera ed espressiva, strumento che permette una metamorfosi continua. Il documentario mi ha affascinato fin da subito. Io parto da un percorso accademico del tutto divergente, laureandomi in psicologia e iniziando la strada lavorativa in quel settore, ho però frequentato un corso di in cui ho scoperto l’arte del documentario e da quel giorno non ho saputo dirgli addio. Con il Santo Nero mi sono concesso di trattare il fenomeno della migrazione. Ma la realtà supera la finzione!
La parte intrigante del documentario è il rapporto che si instaura tra regista e protagonisti: è un atto di fiducia. Il docu-film risiede nel rispetto, il tuo personaggio va rispettato nel suo pensiero…
A proposito di rispettare il pensiero altrui mi viene in mente un aneddoto…
Nel 2013 co-dirigo un film collettivo per la TV franco-tedesca ARTÈ dal titolo No Man’s Land, sull’avanzare della destra in Italia e, nella ricerca di un personaggio, decisi di puntare su un giovane ragazzo tassista dallo schieramento marcatamente di destra. Alla prima conversazione gli dissi “Giorgio sia chiaro, tu sei fascista e io sono comunista, ma, nonostante le divergenze politiche e le provocazioni necessarie per il documentario, ti garantisco che io ti rispetterò sempre, non cercherò in alcun modo di usurpare il tuo pensiero né di ridicolizzarlo”.
Il rispetto del tuo personaggio è fondamentale nel racconto.
SiciliAmbiente Film Festival promuove un cinema urgente, una lotta di dialoghi necessari. Quali sono gli aspetti della sua ossatura che, dopo molto più di un decennio, ti rendono ancora orgoglioso e fan del festival stesso?
Così negli anni abbiamo collaborato con Arpa e consolidato una partnership con Amnesty International e Greenpeace.
L’altra arma del festival che gli ha dato riconoscibilità è il rigore. Un rigore fatto anche di tante rinunce. Rinunciare ai soldi per un festival non è banale, ma quando non c’è coerenza e serietà è l’unica via di uscita.
Un rigore silenzioso, fatto di rinunce non noto al pubblico, che però traspare nella tempra e nella sua qualità…
Lo spessore si mantiene su ogni fronte, vi è necessario rigore anche nell’elezione di un vincitore, sono questi tasselli che formulano le linee editoriali di SiciliAmbiente.
Sono orgoglioso del festival. Probabilmente se lo avesse diretto qualcun altro, ad oggi, sarebbe più potente e riconosciuto, ma forse non così onesto come mi permetto di vantarmi che sia.
Quattro sezioni competitive: lungometraggi di finzione, cortometraggi, documentari, anime e un’infinità di tematiche osservate con le lenti di cineasti provenienti da tutto il mondo. Qualche anticipazione: giurie, ospiti..
Abbiamo un’anteprima mondiale Louisette, film francese di Matthias Berger e Aurélien Caillaux, in concorso per la categoria documentari. Tratta le questioni di genere, un tema al quale siamo sensibili da sempre. Tra le anteprime italiane posso citare Water for life di Will Parrinello, girato in Cile, El Salvador, Honduras e USA, che, dissezionato in tre capitoli, segue tre personaggi militanti, affrontando questioni ambientaliste. Sta già ottenendo consensi, vincendo premi a Buenos Aires, Cuba, negli Stati Uniti. Sono molto fiero di averlo in anteprima al nostro evento, è stato uno dei primi film che ho scelto infatti.
Ammetto che sono molti i titoli a cui vorrei che la gente prestasse attenzione. Mi salta alla mente Les oubliés de l’atome di Suliane Favennec, documentario francese che racconta come dal 1946 al 1996 si sono portati avanti esperimenti nucleari nelle isole abitate del Pacifico, una follia! Per cinquant’anni molte comunità hanno vissuto con l’illusione che il miglioramento avrebbe bussato alle loro porte, in quanto arrivavano ingenti finanziamenti spacciandosi per industrializzazione, peccato che arrivò solo il terrore.
Tra i documentari made in Italy vi è Bangarang di Giulio Mastromauro che descrive la città di Taranto attraverso i bambini.
Non me ne volere, ma non posso non elogiare un autore siciliano: Igor d’India che porta con se Abyss Clean Up, un drammatico sfogo sull’inquinamento sottomarino.
Tra i lungometraggi di finzione spicca The Strangers’ Case di Brandt Andersen, non ancora uscito nelle sale italiane, è una tragedia che colpisce una famiglia benestante siriana di medici, che abbandona la sua terra nella speranza di trovare vita, vita vera all’infuori di guerre e massacri. Una perla del festival a cui tengo.
Spero inoltre che gli spettatori terranno un occhio di riguardo alla retrospettiva su Bonomolo, una proiezione speciale. Lui presentò il suo primo lavoro alla nostra seconda edizione di SiciliAmbiente Film Festival, ormai un caro amico, curò tutte le animazione di Chiesa Nostra e da allora abbiamo avuto modo di testimoniare la sua crescita artistica ogni anno fedelmente. Tornando ad una delle domande che mi hai fatto sui talenti emergenti, beh, lui è uno di quegli artisti che mi è rimasto impresso fin da subito. Quando esaminai il suo primo progetto pensai “lui è un genio” ed effettivamente si è dimostrato tale, vincendo David di Donatello e altri premi illustri. Questi sono i talenti che mi fanno andare avanti. Terrà anche due giornate di masterclass, c’è ancora qualche posto disponibile quindi accorrete a prenotare.
Il calendario prevede diverse attività d’incontro, oltre alle proiezioni delle diverse pellicole. Da segnare in agenda: martedì 16 luglio, in collaborazione con Amnesty International Italia, la presentazione del Rapporto sulla criminalizzazione degli eco-attivisti in Italia, una pubblicazione inedita e la serata finale di chiusura del SiciliAmbiente Film Festival, scandita dall’incontro con Giuseppe Onufrio, direttore esecutivo di Greenpeace Italia, nel quale si terrà la presentazione del libro di Ugo Baldi, aprendo una conversazione sul futuro dei trasporti e la mobilità elettrica. E ancora, in apertura del programma una live session con Eugenio Cesaro.
Attrici internazionali, giornalisti, una giuria tutta da scoprire!
Infine, non voglio lasciarmi sfuggire l’occasione di chiedere se rimetterai presto le mani sulla cinepresa o su una sceneggiatura.
Non mi sono mai dato il permesso di essere tanto vulnerabile in un’intervista, ma durante il periodo del Covid-19, ho seriamente contemplato di ritirarmi dalla scena e abdicare la professione di regista. La delusione è arrivata perché mi hanno impedito di girare un film, al quale lavoravo già da anni. Così nasce Chiesa Nostra. É risultato un documentario rispettoso della religione e cortese nei confronti della storia.
Rimetterò mano sulla cinepresa? É una domanda ostile al momento. Ho diversi progetti corposi e laboriosi che se non andranno in porto chiuderanno la mia carriera da regista.
![Chiesa Nostra un film di Antonio Bellia](https://www.taxidrivers.it/wp-content/uploads/2024/07/Locandina-PRINT-bellia_page-0001-724x1024.jpg)