Si può scegliere liberamente come immergersi, a più livelli, nella bella profondità di Ground Zero. Autoritratto di un maltrattatore di oceani. Il corto documentario dello spagnolo David Gaspar, appena premiato alla 19esima edizione del Sole Luna Doc Festival di Palermo, è un viaggio nel mare della coscienza, nella calma offesa degli oceani, nel cinema d’onda sperimentale.
Affrontando con piglio originale il tema dell’inquinamento delle acque, Ground Zero racconta prima di tutto, con navigata voice over, l’esperienza di conversione ambientalista del regista stesso, tra i flutti della colpa e i cambi di rotta. All’estro sincero della confessione, si aggiunge il porto sicuro del documentario, tra interventi di esperti e altri lidi di testimonianze visive. Nessuna sindrome da National Geographic, però: fughe oniriche, ricordi d’infanzia e suggestive riprese acquatiche lasciano apprezzare la traversata filmica, mai incagliata né nel reportage fotografico, né nella pubblicità progresso. Il risultato, in un mare di trovate filmiche, è più motivazionale che divulgativo, più d’ispirazione che di documentazione. Meglio così: il cinema che trasforma vince sul cinema che informa.
Se è vero, dunque, che il feeling del corto è che people have the power, ci sta benissimo che il riconoscimento assegnato dal Sole Luna Doc Festival sia stato il Premio Enel Green Power – Sezione Oikos. Abbiamo parlato di Ground Zero. Autoritratto di un maltrattatore di oceani col regista David Gaspar.
Il trailer di Ground Zero. Autoritratto di un maltrattatore di oceani
Il film è prodotto da CLA CLA FILMS e David Gaspar.
La trama di Ground Zero. Autoritratto di un maltrattatore di oceani
Ground Zero ci invita ad essere consapevoli del problema dell’inquinamento negli oceani e il conflitto che genera in noi. Attraverso una prospettiva ironica e graffiante, ci fa riflettere sulle nostre responsabilità con l’obiettivo di aiutarci a migliorare il nostro impegno per gli oceani attraverso piccoli gesti. (Dal catalogo del Sole Luna Doc Festival)
L’intervista: David Gaspar parla di Ground Zero. Autoritratto di un maltrattatore di oceani
Nello sviluppare il processo creativo di Ground Zero, ti sei sentito più come un attivista ambientale che fa film o come un cineasta che fa attivismo ambientale?
Il progetto è iniziato con un attivista ambientale che fa film e si è concluso con un cineasta che fa attivismo ambientale. Ho voluto mettere al servizio dell’ambiente tutto ciò che avevo imparato sul cinema. Mi è sembrato poetico che il mio primo progetto unisse le mie due passioni, il cinema e il mare.
Si può dire che il tuo cortometraggio non è semplicemente un documentario a tema ambientale, come tanti altri, ma piuttosto un approccio psicologico su come sviluppare una coscienza ambientale?
Il mio cortometraggio mira a dotare lo spettatore di strumenti per affrontare il senso di colpa. Io lo applico alla questione ambientale, ma lo stesso processo funzionerebbe in qualsiasi altra circostanza che ci provochi conflitto.
In Ground Zero accenni a un documentario sugli oceani la cui visione ti ha sconvolto. È lo stesso effetto che speri di ottenere negli spettatori del tuo documentario? Cerchi più la riflessione o lo shock?
Cerco qualcosa di diverso rispetto a ciò che ho provato io ricevendo una tale overdose di informazioni. Vorrei che le persone che non provano affetto per questo tema potessero approcciarlo senza quel senso di rifiuto che potrebbe provocare loro un senso di colpa. Si tratta di prendere per mano lo spettatore più scettico e pigro e dirgli: camminiamo insieme per vedere fino a dove possiamo arrivare.
Alcuni mesi fa si è tenuto a Lucca un festival ambientale chiamato Pianeta Terra Festival, e nella sezione cinematografica un noto critico italiano, Alberto Crespi, ha parlato della relazione tra l’uomo e la natura nel cinema. Ero tra il pubblico e, citando il film How to Blow Up a Pipeline, definito dalla critica un thriller ecologico, gli ho fatto una domanda che rivolgo anche a te: è possibile parlare di cinema ecologico o ambientale come se fosse diventato un genere con un proprio codice?
La crisi climatica è alla base della maggior parte dei conflitti che viviamo come società. Il cinema è già ecologico. Se lo analizziamo, ci accorgiamo che in quasi tutti i film esiste una circostanza naturale che provoca un effetto sui personaggi. La difficoltà è nel fare in modo che lo spettatore ne sia consapevole e sviluppi una connessione autentica con la questione.
L’acqua è la vera protagonista di Ground Zero; a un certo punto sembra quasi mutare in liquido amniotico. In che modo ti ha ispirato il mare? Che ritmo o idee visive ti ha suggerito?
Mi piace che tu lo esprima così: è liquido amniotico. Qualche anno fa qualcuno mi spiegò perché proviamo tanto piacere nel galleggiare in acqua. Il fatto è che ci riporta alla nostra prima sensazione: quella di galleggiare nel ventre materno. Nel mare ho sempre rinvenuto quella sensazione, ho sempre trovato una scusa per passarci del tempo dentro. Esplorandolo con una videocamera, ho scoperto che era pieno di sfumature e che le forme disegnate dall’acqua non erano mai le stesse.
Ground Zero, una delle tante riprese subacquee del corto di David Gaspar
Questa idea delle possibilità infinite si collega a ciò che provo guardando il mare: la possibilità che dall’altra parte della riva, là dove non vedo nulla, forse ci sia qualcosa di meglio rispetto a ciò che c’è da questo lato. Poiché non possiamo vederlo, c’è speranza, e questo mi basta.
Parlando di ritmo, una sensazione che emerge dal tuo documentario è quella di essere ipnotico, dato l’uso del ralenti. Cosa ti ha spinto a questa scelta?
Mi piaceva l’idea che tutto succedesse al ritmo con cui accadono le cose nel mare. Le forme sono sinuose, il vento e le maree accelerano e rallentano la superficie. Inoltre, generano un effetto drammatico su ciò che vediamo e ci permettono di osservare con più calma.
A un certo punto del cortometraggio dici: “Ho impiegato 33 anni a preoccuparmi di questo”. Una parola che appare più volte in Ground Zero, confermando il suo valore quasi psicologico, è “colpa”. Che valore ha nel tuo discorso e che valore ha avuto nella tua esperienza personale?
Non ho mai gestito bene la colpa. Questo cortometraggio mi è servito per acquisire strumenti che mi permettessero di gestirla meglio. Come dicevo, questo processo potrebbe essere applicato a qualsiasi conflitto che ci generi colpa. Non si tratta di lavare la colpa che sento, quanto di separare la colpa distruttiva da quella utile.
Intervistando vari esperti, il cortometraggio chiarisce che non è facile cambiare dall’oggi al domani, ma si può fare con piccoli passi e sfide. Se dovessi dare un consiglio per adottare un atteggiamento ecologista, anche in termini di visione di film, cosa diresti?
Più che con un film in particolare, cercherei di contagiare lo spettatore con l’idea di risalire, in senso inverso, da determinati conflitti ai problemi della crisi climatica a cui si collegano: catastrofi naturali, guerre per la lotta delle risorse, disuguaglianza, crisi migratorie di persone che lasciano luoghi in cui non si può più vivere, un ritmo di vita che non ci permette di fermarci nemmeno un secondo a chiederci cosa ci rende felici, ecc. Detto questo, l’esercizio ecologista più divertente che ho visto finora è Don’t Look Up.
Il cortometraggio è un tipo di formato che deve sfruttare bene il tempo e le strategie di visione. Per i primi due o tre minuti, in cui racconti un sogno e le sue conseguenze, nessuno indovinerebbe che il tuo corto sia un documentario né che il suo tema sia quello dell’inquinamento delle acque. Come sei arrivato a concepire un’introduzione così particolare e decisiva?
Volevo raccontare la mia storia personale riguardo a questo tema. Per me funziona sempre guardare indietro per trovare il motivo per cui faccio le cose.
Ground Zero, David Gaspar ha rievocato anche alcuni ricordi d’infanzia
In questo caso c’è stato un evento scatenante che ha messo in moto la mia decisione di diventare regista. Avevo sognato di morire e non ero soddisfatto di ciò che avevo fatto fino a quel momento. La domanda su quale dovesse essere il mio primo grande progetto si è risolta da sola. Avevo bisogno di tornare vicino al mare e avevo bisogno di raccontare storie. D’altro canto, mi preoccupava risultare noioso con un tema così poco leggero, quindi ho deciso di saltare alcune regole e divertirmi, perché se mi fossi divertito a farlo, lo spettatore si sarebbe divertito a guardarlo.
Sai che alcuni attivisti come Greta Thunberg o gruppi che agiscono in Italia o in tutto il mondo a volte ottengono l’effetto contrario a quello desiderato: risultano antipatici. Come hai fatto a non sembrare un sapientone o un grillo parlante?
Qualsiasi discussione con qualcuno a cui tieni andrà meglio se inizi ammettendo che anche tu hai sbagliato. È il modo migliore per disarmare, in questo caso, i pregiudizi dello spettatore poco consapevole. Sono contento di esserci riuscito!
Tutto sulla 19esima edizione del Sole Luna Doc Film Festival – su Taxi Drivers!