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‘Until the sun dies’: la lotta per la luce di Jonas Brander

Il regista Jonas Brander trionfa al Sole Luna Doc Film Festival realizzando un documentario che è una meditazione inquieta e appassionata tra territorio e identità, dolore e comunità.

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Passeggia osservando la meraviglia che lo circonda. Ha un’andatura morbida, lo sguardo acuto e curioso di chi si trova per la prima volta in un posto nuovo. Sembra quasi perdersi tra le viuzze di Palermo mentre cerco di raccontargli qualcosa di quella magica terra che profuma di mare e di fritto. Colori che stonano completamente con il documentario che ha realizzato, Until the sun dies, il cui titolo richiama un antico detto ancestrale indigeno “Finché non muore il sole”. Eppure Jonas Brander, regista, fotografo e scrittore, fa sembrare tutto così naturale. Come se quelle popolazioni indigene, ampiamente intervistate e raccontate davanti alla sua telecamera, fossero un ricordo lontano, legato al nome di Lux Marina, candidata al premio Nobel per la Pace. Un documentario, il suo, che approfondisce due storie: quella di una madre che lotta per avere giustizia sull’uccisione del figlio e quella del leader indigeno Albeiro.

Until the sun dies, di Jonas Brander (Colombia 2023) è il vincitore del premio miglior documentario al Sole Luna Doc Film Festival.

La vita nasce dalla morte e la morte dalla ricerca della pace e della giustizia

Perché ha deciso di raccontare una storia sulla violenza e sulla resistenza?

«Un documentario si avvolge e si scrive da solo nel tempo.  Ed è stato così anche con questo film. Credo che molte risposte alle domande più urgenti del nostro tempo si possano trovare in America Latina: nei movimenti sociali, nei processi di resistenza, nelle forme di organizzazione e nella saggezza dei popoli indigeni. Questa ricerca mi ha portato in Colombia, dove sono entrato in contatto con Luz Marina, con la Guardia Indígena, con Albeiro. Il mio scopo era quello di imparare e ascoltare. Mi sono trovato davanti due degli esseri umani più stimolanti che abbia mai incontrato nella mia vita.

Il fatto che il tema principale sia diventato il cerchio apparentemente infinito di speranza, resistenza, ispirazione ma anche violenza e morte ha a che fare con la realtà che devono affrontare in Colombia. Qui bellezza e distruzione coesistono, ed è pazzesco vedere che in un Paese che è in conflitto armato da oltre 200 anni, dove è difficile immaginare un tempo senza più violenza, esistano delle persone così stimolanti capaci di andare avanti sempre, nonostante tutto.»

In che modo il cinema può contribuire a creare un futuro migliore?

«Ci sono due elementi da considerare. Prima di tutto la pratica. Il cinema documentario dovrebbe essere una pratica orizzontale, con i suoi protagonisti e le sue comunità. La capacità di ascoltare veramente, essere disposti ad apprendere e ad affrontare le proprie convinzioni. Si può crescere insieme solo ascoltando. E credo che questo manchi nel cinema. E’ vero, io sono il regista di questo film, ma non sarebbe mai esistito senza le infinite conversazioni che ho tenuto con le persone del posto. Questo mi ha permesso di avvicinarmi a loro e di  capire come realizzare un film che rispettasse la loro prospettiva.»

Il passo successivo è stata la questione della “reciprocità”. Finito il film mi sono chiesto come poterlo riportare alla comunità, restituirlo. Come integrarlo con le loro voci affinché potessero utilizzarlo come strumento. Penso che tutti questi elementi siano pratiche essenziali, soprattutto se consideriamo il cinema parte collettiva della trasformazione. Da lì inizia il resto, il coinvolgimento del pubblico, l’ispirazione che le persone possono trovare, gli spazi che possono essere trasformarti in luoghi di apprendimento, di pratica comunitaria insieme alle organizzazioni da coinvolgere. Penso che il cinema abbia un grande potere di trasformazione e sono tante le persone che hanno delle buone idee. Ciò di cui abbiamo bisogno è che l’industria e le istituzioni aprano gli spazi necessari.»

Sei anni per raccontare due mondi

Quanto tempo ha impiegato per girare il film e quali difficoltà ha incontrato?

«Ho girato la prima scena del film Until the sun dies nel 2014 e l’ultima nel 2022, ma ammetto che non è stato un processo costante. La difficoltà principale è stata di natura finanziaria, in quanto non abbiamo mai ricevuto fondi per il progetto e abbiamo dovuto finanziarlo completamente da soli, aiutati solo da persone di incredibile talento che hanno deciso di lavorare gratuitamente o su commissione, convinti dall’importanza di raccontare quelle storie. Riuscire a finire un film cinematografico in questo modo è ancora più bello. E’ una grande soddisfazione, quasi un piccolo miracolo. Inoltre, abbiamo anche avuto a che fare con la violenza presente nei territori e subito le minacce da parte dei gruppi armati, che hanno rappresentato un’altra grande sfida.»

Regista, fotografo, produttore, scrittore. Cos’è l’arte per lei?

«La creatività è una delle cose più essenziali che abbiamo. E’ un modo per esprimere noi stessi, una costante riflessione critica su come possiamo modellare noi e il mondo attraverso la creazione, condividendola e ispirandoci a vicenda attraverso essa, donandoci reciprocamente bellezza, gioia, riflessione, critica. Tutto questo serve per imparare a crescere insieme. Questo forma l’arte, e in una società utopica ognuno di noi dovrebbe praticarla. Non credo che ci possa essere arte nel capitalismo, un mondo dove tutto diventa un prodotto, e dove il concetto di “artista” è visto come una forma di distinzione.»

Come si fa a raccontare il forte dolore di una madre che chiede giustizia, in un modo così lucido e dignitoso?
«Diventando un suo caro amico. Cercando davvero di vederla, di capirla, di comprenderla. Luz Marina incorpora soprattutto la dignità, e una donna con questo grande valore non puoi proprio non vederla, non filmarla, non raccontarla.»

Il trailer del documentario Until the sun dies

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