Simone Massi è uno degli autori più affermati nell’universo – purtroppo ristretto – del cinema animato. Proveniente da una famiglia contadina, si forma da autodidatta, frequentando poi la scuola del libro di Urbino, dove affina la tecnica del disegno e si pone in direzione ostinata e contraria – pur non condividendo l’assertività dell’ affermazione – rispetto alle logiche del mercato, alle richieste dell’industria.
Disegna a mano, assolutamente indipendente nella realizzazione dei suoi prodotti, resiste considerando la sua sensibilità e la sua firma come primarie fonti di confronto con il suo pubblico. Vincitore di centinaia di prestigiosi riconoscimenti in tutto il mondo, la sua forma di scambio è quella del cortometraggio, ma si è recentemente cimentato nella realizzazione del suo primo lungometraggio, Invelle, che verrà prossimamente distribuito nelle sale italiane da Lucky Red. Del suo nuovo film, della sua obiezione di coscienza e della sua autentica esperienza di poeta, ce ne ha parlato lui stesso.
Rifacendoci a quello che hai detto ieri sera durante la masterclass (ndr) sul tuo blog – ormai inattivo – veniamo subito accolti dalla dicitura Resistant Animator. Ti è capitato spesso di parlarne, perciò ti chiedo: la tua è una resistenza politica, artistica, una resistenza rispetto al sistema produttivo in Italia… di che tipo di resistenza stiamo parlando?
Parto da lontano, dal primo giorno di scuola alla Scuola d’arte di Urbino. Un insegnante di Rovigo, molto in gamba, ci disse che non c’era nessuna possibilità di far diventare l’animazione un mestiere. Apprezzai molto la sincerità. Al tempo stesso fu un’uscita molto dolorosa perché spazzava via brutalmente aspettative, illusioni, sogni…
Con gli anni ho imparato a capire il senso di quella frase. Anche se già allora, in cuor mio, pensavo di avere più possibilità di riuscita rispetto ai miei compagni. Non perché fossi migliore o più bravo a disegnare; semplicemente avevo più determinazione. Venivo da un ambiente diverso, difficile, avevo avuto un assaggio della durezza della vita contadina, di quella da operaio. Studiare era molto più semplice, ma sapevo che doveva essere finalizzato a uno scopo, quello di imparare un nuovo mestiere.
Avevo determinazione, rabbia e fame di conoscenza. Anche perché mi era stato precluso lo studio e quindi avevo cominciato a studiare tutti i classici in autonomia: Kafka, Nietzsche, Freud, Hemingway, Poe, Neruda, Joyce, Calvino, Pavese… Penso di essere stato fra gli operai più colti che esistessero a quel tempo in Italia. Non per dimostrare agli altri qualcosa, ero un operaio e non mi dispiaceva esserlo. Semplicemente avevo un grande interesse nei confronti della letteratura, della musica, del cinema, della pittura e del fumetto. Con quel mio piccolo bagaglio mi presentai un giorno a scuola, consapevole di quanto fosse grande il mondo dell’arte, di tutto quello che da solo non avrei mai potuto apprendere.
Il primo giorno di scuola l’insegnante di Rovigo mette subito in chiaro le cose e io, come per un riflesso incondizionato, alzo il braccio e dico: io ce la faccio. Poteva sembrare una spacconata, non lo era. E tre decenni dopo sono qua a dimostrarlo. Credo di essere, se non il solo, tra i pochissimi disegnatori italiani indipendenti che non hanno mai avuto sostegni di alcun tipo, che non hanno un lavoro di copertura. Faccio, da trent’anni, esclusivamente il disegnatore, senza paracadute. Ho sempre tirato dritto per la mia strada senza nessun tipo di compromessi.
Anche quando saltuariamente ci sono stati dei momenti effimeri di gloria, o comunque dei riflettori puntati su di me, non mi sono mai fatto fregare: non sono mai andato a Roma, non sono mai andato a Milano, non ho mai telefonato, non sono andato a pranzo o cena, non ho sorriso e fatto il simpatico. Non ho mai coltivato nessun tipo di rapporto se non con le persone che davvero mi piacevano. Ho sempre continuato ad essere me stesso, una figura solitaria, in un paese dell’entroterra che nessuno conosce. Perché quel tipo di cinema che sognavo di fare da ragazzo ho continuato a farlo e continuo a farlo senza curarmi troppo di quella che poteva essere la reazione del pubblico, della critica, delle persone che contano.
Tutto questo mi pare che possa definito una forma di resistenza. Poi certo, nella definizione di “Animatore resistente” aveva e continua ad avere un peso anche la Resistenza più nobile, quella con la maiuscola. Perché è una tematica, assieme a quella della civiltà contadina, che da sempre mi sta molto a cuore. Ho, nei confronti dei contadini e dei partigiani, una profonda ammirazione e gratitudine. Sono stati capaci di imprese incredibili, a costo di privazioni e sofferenze di ogni tipo e pensando esclusivamente ai figli. Le generazioni che ci hanno preceduto sono state letteralmente eroiche.
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Un fotogramma di Invelle
Dici che c’è una convergenza tra le sofferenze dei contadini e quelle dei partigiani. Correggimi se sbaglio, ma la tua appartenenza e la tua estrazione sociale, ovvero l’essere nato in una famiglia contadina, hanno in qualche modo plasmato il tuo immaginario, anche quello politico. La volontà di raccontare con chiara attenzione e delicatezza questo tipo di realtà che si riflette – seppur in modo onirico, quasi nebuloso – nella vita di quelli che Verga definirebbe i vinti, c’è quindi un interessamento anche politico? Nella tua storia familiare ci sono magari persone che hanno partecipato attivamente alla Resistenza? Quindi delle influenze personali che ti hanno portato a concentrarti in particolare su questi temi.
Non ho parenti che hanno partecipato attivamente alla Resistenza, col mitra in mano, però le riunioni dei partigiani le facevano a casa dei miei nonni materni che, oltre ad essere contadini, erano indiscutibilmente antifascisti e comunisti. Negli anni ’70 c’era metà del paese che la pensava in un certo modo e faceva benissimo. Sono cresciuto in anni in cui si parlava tantissimo di politica, tutto era politica. La guerra era viva nei ricordi, il fascismo una ferita aperta. Per cui ho avuto una formazione che è stata anche passione politica. C’è stato un periodo nella mia adolescenza in cui ero davvero appassionato di politica. Ero informatissimo, seguivo, leggevo… Mi piaceva molto parlarne, confrontarmi anche con persone che avevano idee diverse.
Poi il mondo è cambiato di colpo, non so dire se in meglio o in peggio, so solo che non era più lo stesso e non mi ci sono ritrovato più. Hanno cominciato a darmi disgusto non solo le parole e la corsa al potere, ma anche le facce e i giornalisti a supporto, il dover giustificare ad ogni costo l’ingiustificabile. La passione è morta (di colpo o un po’ alla volta, non ricordo) ed è stato all’incirca trent’anni fa. A quel punto credo di essere diventato una sorta di anarc… La fine di una passione ha coinciso con l’inizio di un’altra, o magari le stesse si sono incontrate e mischiate.
Nel cinema d’animazione racconto di cose che non ci sono più, questo è evidente. Un mondo, una terra che sono passati, diventati ricordo lontano, e come tale probabilmente inesatto, sbagliato. Un non luogo popolato da fantasmi, figure il più delle volte immobili, mute. La politica probabilmente è entrata nei miei lavori così come tutto il resto, da spettro. É un fantasma anche il rosso, le macchie sparse che spezzano il bianco e nero dei miei lavori. É il sangue dei disgraziati, certo, ma anche il colore che li ha tenuti vivi. Aggrappandosi a questo ideale, le classi più povere sono riuscite nel giro di pochi decenni a uscire da una condizione di schiavitù millenaria, sono diventate persone libere, con dei diritti e senza più l’obbligo di togliersi il cappello di fronte al padrone.
I disgraziati e gli analfabeti sono riusciti in qualcosa di straordinario. Non siamo riusciti a capirlo, non abbiamo imparato niente. Ci siamo illusi che fosse per sempre, ci siamo illusi che fossimo migliori dei nostri vecchi. Ci siamo divisi, adagiati, imborghesiti, fatti fregare. Abbiamo perso tutto. Non siamo stati capaci di tenere una sola delle conquiste dei nostri padri. Ecco, nelle mie animazioni posso permettermi di rovesciare il mondo, di portarlo indietro, di farlo un po’ come pare a me, come è stato sognato da chi in questa vita mi ha preceduto. Ma non riesco a non essere sincero: disegno uomini e donne che non ci sono più, un mondo che non c’è mai stato. Forse per questo ci sono tanti spazi vuoti, neri pesanti, malinconia e solitudine.
Tornando al fatto che resistere può avere una duplice natura, resistere quindi anche in qualità di animatore, in un tipo di ambiente che ostracizza il tuo lavoro. Il vostro ambiente, cioè la comunità degli animatori, è molto frammentato, quindi non riuscite a farvi rappresentare, a farvi portatori delle vostre istanze. Al tempo stesso lo Stato si occupa scarsamente di voi, le risorse inevitabilmente sono irrisorie. Quali pensi che potrebbero essere gli strumenti che il governo e le istituzioni dovrebbero incentivare per aiutare concretamente la produzione dell’animazione in Italia?
Questa è una domanda difficile, rischio di dire delle grosse sciocchezze. Diciamo che più volte nel corso di questi anni mi sono fermato a riflettere su quella che era la nostra condizione e su quelli che erano e sono i nostri errori, perché non sono quel tipo di persona che scarica tutte le responsabilità sugli altri, non mi piace. Mi piace invece cercare di capire dove sbaglio e dove sbagliamo, nel caso degli animatori. Parlo unicamente di quello che conosco, della mia categoria, cioè di chi fa cortometraggio d’animazione di ricerca, di poesia, sperimentale, d’autore. La nicchia della nicchia della nicchia, apparentemente una battaglia persa in partenza, come diceva il mio primo professore di Urbino. E invece no.
Perché nonostante la pochezza di mezzi e di tutto, nonostante il disinteresse generale e le condizioni lavorative da quarto mondo, siamo arrivati a ottenere una continuità di risultati a livello internazionale che dura da decenni. Gli errori: non siamo stati capaci di andare oltre questo, di far fruttare i premi. Usciti dalla Scuola non siamo più riusciti a tenere i contatti, ci siamo persi di vista, non abbiamo pensato a niente che potesse cambiare la nostra condizione. Ognuno disperatamente per sé, per la propria sopravvivenza, completamente incapaci di tessere alcun tipo di relazione, di promuoverci, ma anche e soprattutto incapaci di trovare qualcuno che potesse farlo per noi, al posto nostro.
Questo, a mio avviso è un errore dettato dal fatto che abbiamo un’indole diversa da tutti gli altri che fanno cinema, forse simile a quella dei poeti. Dall’altro lato, se devo guardare i difetti o gli errori degli altri, penso sia grave che, nonostante i tanti riconoscimenti internazionali che cominciano da Gianluigi Toccafondo passando per Roberto Catani, Ursula Ferrara e Magda Guidi – nessuno se ne sia ancora accorto. É grave in un paese come il nostro, dove tutto viene finanziato e sostenuto, tutto è meritevole di dignità e rispetto. Tutto all’infuori del cinema d’animazione sperimentale e d’autore, considerato come una anomalia: si è liberissimi di farlo, a patto che non si reclami alcunché. Nessuna vetrina all’infuori dei festival di cortometraggi, impossibilità dei cinema, della televisione, dei giornali.
Nel principale premio cinematografico italiano, il David di Donatello, ci sono tutte le categorie tranne quella di animazione. Il cortometraggio di animazione viene incredibilmente visto come “palestra per giovani autori”, con l’obbligo implicito di passare un domani al lungometraggio. Ma scherziamo? Il cortometraggio di animazione è una precisa scelta artistica e poetica, coincide con il tipo di ricerca che gli autori portano avanti. Basterebbe un minimo di cultura per capire che tutti gli autori internazionali più importanti dell’animazione tradizionale, realizzata a mano (Back, Norstein, Petrov) non hanno MAI realizzato un lungometraggio. Come si può uscire dall’anonimato, come si può pensare di far conoscere il nostro cinema, se non ci viene data la possibilità di farlo?
Per l’animazione d’autore non c’è niente. Nessuno spazio e nessun tipo di finanziamento. Probabilmente c’è anche una convenienza, da parte di qualcuno, a tenere occhi, orecchi e portafogli ben chiusi. Quindi torniamo al punto di partenza, al disegnatore chiuso nel suo piccolo spazio, curvo a disegnare perché gli piace farlo, consapevole che non potrà farlo in eterno e che salvo miracoli non riuscirà a farlo diventare un mestiere. Errori e colpe si mischiano, quindi è difficile dire qual è la soluzione che può cambiare lo stato delle cose. Bisognerebbe gridare forte e non ne siamo capaci. In questo paese se non gridi non esisti.
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Un fotogramma del cortometraggio A Guerra Finita
Sempre rispetto alla ricezione del tuo lavoro, questa volta in merito al pubblico, hai vinto premi in tutto il mondo. Hai anche collaborato brevemente con Arte, la tv francese. Storicamente il pubblico francese è molto più ricettivo di quello italiano. Per l’animazione è forse ancora più vero. Mi chiedo quindi come percepisci, se la percepisci, questa differenza ricettiva, specie nell’apprezzamento.
A dire il vero no, anche se in realtà la differenza fra i due paesi è abissale. La Francia, come stato e come televisione, investe nel cortometraggio d’animazione da almeno quarant’anni e, oltre ad aver creato una cultura, ha anche un ritorno economico. Per un periodo ci ho lavorato, ho un’idea di come funziona. Nei piccoli borghi (spesso nelle zone depresse) sono state create delle strutture in cui viene realizzato il cinema d’animazione. Sono centri dove gli autori internazionali si trasferiscono: lavorano, guadagnano ma spendono anche, in loco.
Questa è un’operazione brillante perché, fra le altre cose, porta autori di livello a creare e lavorare nelle località meno note, valorizzando il territorio. I prodotti realizzati (insisto: sto parlando di cortometraggio) hanno uno spazio sulle riviste, passano in televisione, non solo Arte ma anche i canali nazionali. Ad ogni passaggio televisivo l’autore percepisce dei soldi. I Festival vengono sovvenzionati dal ministero, vedi un’organizzazione e un afflusso incredibile, persone che prendono le ferie per andare a vedere i cortometraggi, che dormono in tenda, file sterminate in coda per entrare alle proiezioni.
In Francia hanno riconosciuto il cortometraggio e l’animazione come una forma d’arte di pari dignità con il lungometraggio, con la finzione e il documentario. Non hanno regalato niente, hanno investito, creato un’industria, raccolgono i risultati. Bisogna riconoscere i meriti e l’intelligenza. Da questo punto di vista abbiamo solo da imparare (e a quanto sembra non ne siamo capaci). Riguardo al cinema d’animazione il pubblico italiano non è paragonabile a quello francese, semplicemente perché non ha alcun tipo di cultura, è completamente all’oscuro, non sa altro dal cartone animato tradizionale.
Però devo dire che, anche in tempi lontani, fin dalle primissime retrospettive, la reazione del pubblico è sempre stata ottima, pari a quella del pubblico francese più colto. Il messaggio è sempre giunto regolarmente a destinazione, senza distinzione di età o di estrazione sociale. La differenza sostanziale è che in Francia si sceglie di andare a vedere un programma piuttosto che un altro, mentre in Italia l’animazione è una sorta di incidente.
È quindi un problema strutturale più che di sensibilità collettiva del pubblico?
Esatto, non ci viene data la possibilità di conoscere e di scegliere. Questo per me è un fatto grave.
Invece, riguardo gli aspetti tecnici, una cosa che risalta subito è il fatto che utilizzi solo il bianco e nero, oltre a rari schizzi di colore che sono appunto spesso evocativi. Il colore assume quindi una valenza fortemente simbolica. Anche e soprattutto la sua mancanza. Questa scelta è legata a un fattore puramente estetico, ha una valenza tematica o ancora si lega al ritmo della narrazione?
In realtà più che una scelta è un fatto naturale, visto che disegno in bianco e nero da sempre, da quando ero bambino. Mi ricordo la fatica fatta per colorare i disegni, alle elementari. Non riuscivo, non ne sono mai stato capace. Aggiungendo il colore mi pareva di rovinare tutto. Feci dei tentativi ai tempi della scuola di Urbino, per quella volontà di provare a prendere e dare tutto. Sapevo che c’era un conto alla rovescia, che poi sarei uscito da lì e dovevo uscire con il maggior bagaglio di esperienza possibile. Feci svariati disegni a colori, che non vennero neanche male, dico la verità, ma comunque non ci trovavo niente e poi faticavo molto. Ebbi la conferma che dovevo continuare con il bianco e nero, non c’era nessun motivo di snaturarsi cercando di riprodurre il mondo come lo volevano gli altri.
Diversi anni fa, riguardo alla questione, un critico propose una tesi: i bambini cresciuti nel mondo in bianco e nero – parlo dei media, quindi televisione, giornali, fotografie…- hanno formato un immaginario che non poteva che essere in bianco e nero. Potrebbe essere, almeno nel mio caso: ho memoria di un solo sogno a colori, tutti gli altri sono sempre stati regolarmente in bianco e nero. Ad ogni modo, al di là di quella che sia la possibile spiegazione, non è una scelta dettata da un ragionamento o da una volontà. Queste riguardano semmai le tematiche e le scelta registiche come gli zoom e i piani sequenza, fortemente voluti, mentre la questione del bianco e nero è successa e basta.
Oltre all’estetica, c’è un altro pattern comune nelle tue opere, ovvero quello della ricorrenza tematica. Come abbiamo detto, c’è un chiaro intento politico nelle tue opere: l’identificazione, (Io so chi sono), la dimensione relazionale e quella territoriale (tengo la posizione), la crudeltà nell’uccisione degli animali (dell’ammazzare il maiale) che si collega inevitabilmente anche al tuo essere vegetariano. Si può quindi dire che il tuo, oltre ad essere un cinema autoriale, sia anche un cinema di denuncia?
No, non credo. Se volessi denunciare griderei forte. Do degli elementi che lasciano capire quello che mi piace e quello che non mi piace, nel mondo e del mondo, però non penso di andare oltre questo. Anche per una questione di indole, non sono quel tipo di persona che mira a salire in cattedra. Non so dare lezioni né mi interessa darle. Certo ho delle idee mie, come tutti. Molte me le porto dietro da decenni e continuo ancora a crederci, ma senza mai pensare che sia io quello nel giusto. Ho dubbi su tutto. Anzi, credo che sia proprio il dubbio a mandarmi avanti.
Continuo ad interrogarmi, a dubitare, a mandarmi a quel paese, c’è la volontà di capire meglio anche le cose in cui credo, mettendole in discussione. Mi pongo in ascolto, ho tutto da imparare. I proclami non fanno per me, non ho messaggi da dare alla nazione e nemmeno al vicino di casa. Se talvolta è successo è stato per sbaglio. L’errore ha caratterizzato tutta la mia vita. Mi diverte la massima di Brecht: “Mi sono seduto dalla parte del torto perché tutti gli altri posti erano occupati”. Un posto a sedere l’ha comunque trovato.
Li hai citati tu quindi mi collego: piani sequenza e zoom sono forse gli elementi caratteristici più evidenti, oltre al bianco e nero. Direi che sono addirittura la forma. La camera poi spesso nei tuoi lavori sembra quasi fluttuare, ed è appunto una peculiarità che si riscontra in tutti i tuoi lavori. In particolare, ‘Invelle’ nella sua felice nevrosi di contadini ammassati, sembra rendere vivo il quarto stato di Volpedo. Il piano sequenza di per sé è una tecnica abbastanza inusuale nel cinema di animazione o comunque in un cinema di animazione come il tuo, con una forte base concreta. Nei tuoi lavori c’è proprio la terra, c’è la realtà contadina, eppure c’è anche questo elemento, quasi magico. Perché hai scelto di coniugare questi elementi così distanti?
Per caso e per necessità. Per caso perché mentre ero a scuola avevamo un’apparecchiatura, un vecchio macchinario in disuso, con un sistema di lenti che permetteva di ingrandire o ridurre l’immagine posta sul piano. Ero incuriosito da questa macchina, mi ricordava le presse, i trapani e le molatrici. Provai ad azionarla, la utilizzai per costruire le mie primissime sequenze di animazione.
Un gioco di forme che cambiano ingrandendo e rimpicciolendo, andando avanti e indietro. Un secondino va verso la cella del condannato, un crocifisso gli penzola sul petto. Ci avviciniamo al crocifisso, che riempie lo schermo, poi con il movimento contrario, diventa una grata della cella. Feci questa sequenza per istinto, perché si lavorava alla cieca. Cioè facevo tutti i disegni di una sequenza e poi andavo a riprendere. In quel momento si vedeva il risultato. La prima volta che vidi una mia sequenza montata – esattamente quella sequenza sopra descritta – provai un’emozione fortissima, mai provata prima, come se mi avessero tolto il terreno da sotto i piedi.
Capii tutta la differenza fra il cinema d’animazione e il cartone animato, tutto quello che non mi era mai stato insegnato, che non mi era mai stato dato modo di conoscere. Avevo la possibilità di scegliere e scelsi. Mi dissi che dovevo fare così, un modo di raccontare nuovo che non fosse quello degli stacchi, quello che imita il cinema di finzione senza averne la forza. L’animazione è l’animazione.
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Dell’ammazzare il maiale, David di Donatello per il miglior cortometraggio nel 2012
Si può quindi dire che in qualche modo il tuo cinema è un cinema di denuncia in senso lato, cioè un’insofferenza rispetto al cinema tradizionale
Sicuramente. Non amo essere trattato da scemo e spesso mi capita quando guardo i film di finzione, perché la trama è sempre la stessa e tutto è estremamente chiaro: non ci sono dubbi, non ci sono errori, non ci sono spazi per l’interpretazione, tutti vedono lo stesso film. Ma io non sono te, sono diverso per carattere, provenienza, cultura, formazione, gusto. E domani sarò diverso da oggi. Ecco il cinema d’animazione che faccio va in questa direzione, lascia perdere la massa e prova a tenere conto del singolo. Non credo potesse andare diversamente.
Sono entrato in questo mondo per sbaglio, l’animazione è stata un’incredibile opportunità perché è un territorio inesplorato, un cinema che non ha niente da perdere. A un ex operaio viene data questa possibilità, imprevista, di raccontare e raccontarsi: perché mai avrei dovuto sprecarla? Non era e non poteva essere solo una questione di tematiche ma anche di stile, di scelte che prima ancora che registiche dovevano essere umane. Avevo l’obbligo di provaci, se no tanto valeva tornare in fabbrica.
Da qui, credo, gli spazi vuoti, i personaggi immobili e privi della parola. Questo è ciò che avrei voluto vedere nel cinema e nel cinema di animazione e che ho trovato solo in pochi autori, come Tarkovsky e Angelopoulos. La visione, anche ripetuta, delle loro opere è un’esperienza straordinaria e universale, mai consolatoria o rassicurante, sembra invece pensata per portare lo spettatore a perdersi, a riempirsi la testa di domande, a trovarsi commosso senza sapere bene la ragione.
Film concepiti come un cielo stellato. Il cinema d’animazione a maggior ragione deve tentare questa strada, ha l’obbligo di provarci perché è altra cosa dal cinema di finzione e documentaristico, perché non ha nemmeno la pretesa di simulare il vero. L’animazione è arte libera come nessun’altra perché è dichiaratamente irrealtà, menzogna, sogneria.
Ultima domanda, il ritmo. Hai scelto di utilizzare il passo tre: questo inevitabilmente comporta un grosso risparmio di tempo; però inevitabilmente assurge anche ad un elemento, oltre che estetico, anche drammaturgico. Quindi come lo hai reso – se lo hai reso – uno strumento semantico?
Confesso di non averci mai pensato, molte delle cose che faccio o mi capitano non sono pianificate. La vibrazione e il tremolare dell’immagine sono legati allo stile della Scuola di Urbino, che “obbliga” a disegnare ex novo non solo il personaggio o l’oggetto in movimento ma anche gli elementi statici, come il fondale. L’impossibilità di ricreare la linea nello stesso punto crea una vibrazione. Questa è una scelta – non chiedermi i motivi, non c’è una ragione particolare, ci piace e basta – che caratterizza gli autori che si sono formati alla Scuola urbinate.
Per chi guarda la vibrazione continua può risultare fastidiosa da sostenere perché è una cosa nuova, mai vista prima, e se non si sa controllare si rischia di distogliere lo spettatore dalla narrazione. A maggior ragione se si parla di un lungometraggio. Nella lunga gestazione che ha caratterizzato Invelle ho ricevuto molte pressioni dal co-produttore francese. Le hanno tentate tutte per farmi desistere, per spingermi ad abbandonare il mio modo di lavorare. Avevano paura, volevano che mi adeguassi all’animazione tradizionale, cioè che utilizzassi fondali fissi, fermi, con la vibrazione concessa alla sola figura in movimento. Poi a mettergli pensiero c’erano anche i piani sequenza, le trasformazioni, i dialoghi e la narrazione non tradizionale… In pratica volevano il mio nome, per il resto non gli stava bene niente.
Io invece ero tranquillo, c’era stato il precedente importante de La strada dei Samouni di Stefano Savona, presentato a Cannes. Nessuno si era spaventato vedendo l’animazione, anzi, era andata molto bene. Fortunatamente poi i francesi sono poi usciti dalla produzione ma il fatto rimane. Rimane difficile convincere chi ti sta attorno a darti fiducia, chi decide di investire su di te, perché nessuno sa niente di animazione. Io mi sforzo di rassicurare, di spiegare, con disponibilità e gentilezza. Ma non dovrebbe essercene bisogno, questo è il mio mestiere, lo faccio da tre decenni con buoni risultati.
Il segno che vibra è una necessità, il passo tre è un risparmio vitale per chi fa questo mestiere, da indipendente. Tornando un attimo su quello che potrebbero fare le istituzioni, ieri ho parlato con Elisa Grando del Piccolo di Trieste. Mi diceva che dovremmo provare a scrivere una lettera collettiva all’Accademia del Cinema Italiano. Mi è parsa subito un’ottima idea. Anche perché -seppur isolati- non siamo in competizione, ci si conosce, ci si stima, i problemi di uno sono i problemi di tutti.
A maggior ragione, visto che non c’è competizione, forse ci potrebbe essere una ragione ulteriore per aggregarsi, no?
Sì, certo. Il problema sarà farsi quello che non sono capace a fare, capo-popolo, però è una cosa superabile, proverò a parlarne, magari alle persone più vicine a me, i colleghi più cari. Poi bisognerà coinvolgere più autori possibili, mettendo in testa chi ha un curriculum importante, per avere più possibilità di essere ascoltati, poi tutti quelli che condividono l’idea e il principio, con un occhio particolare ai giovani, a chi sta cominciando.
Sarebbe utile anche il coinvolgimento di personaggi noti, il sostegno di attori, registi, critici e personalità del mondo del cinema, dell’arte e della cultura. Se dovesse succedere allora un cambiamento sarebbe davvero possibile. Per questo è importante uscire dal proprio paese, dal proprio spazio in cui si lavora, confrontarsi, incontrare le persone… perché anche quello che apparentemente sembra semplice non arrivi a capirlo da solo. Poi bisogna essere costanti, pazienti.
Perché non è detto che subito arrivino risposte positive e se dopo tre mesi fai spallucce hai già perso ancora prima di cominciare. Però è una strada che si può e si deve sicuramente provare, anche perché da dieci anni a questa parte comunque qualcosa è cambiato, in meglio. Ci sono state delle vetrine importanti, come quella dei David di Donatello, della Mostra del Cinema di Venezia, dei Nastri D’argento. Il momento sembra favorevole, buono.
Grazie mille Simone
Figurati, è stato un piacere. Grazie a te