Approfittando del premio ricevuto allo ShorTS International Film Festival 2024, abbiamo fatto alcune domande a Isabella Ragonese ripercorrendo con lei le tappe più importanti della sua carriera: da Nuovomondo al suo ultimo film, Come Pecore in mezzo ai lupi.
Isabella Ragonese: oltre il cinema
Volevo partire da un’immagine di te al Torino Film Festival di molti anni fa. Eri un’attrice già affermata, ciononostante ho fatto fatica a riconoscerti nella persona che era in fila davanti a me in attesa di entrare in sala. Ciò che mi ha colpito in quel frangente è stato il tuo modo di stare in mezzo alla gente, da persona comune (e non da Isabella Ragonese attrice) e con una normalità che ho sempre ritrovato nel tuo modo di proporti sul grande schermo.
È sempre difficile definirsi perché l’impressione che dai agli altri è diversa dalla tua. Penso che molto dipenda dal fatto che le persone si riconoscono in molti dei ruoli che ho interpretato proprio perché si tratta di personaggi reali. Laddove ho potuto scegliere ho privilegiato la rappresentazione di persone comuni anche perché per me, come spettatrice e grande cinefila, è importante abbandonarmi al film e per farlo devo credere che sullo schermo ci sia la persona e non l’attore. Quando recito provo a far sì che sia davvero così.
In effetti la percezione che mi ha lasciato quel ricordo ha molto a che fare con lo specifico del tuo mestiere. Per entrare nel personaggio devi dimenticarti del tuo corpo per assumere quello di un altro. Così nel privato mi hai dato l’idea di una persona che si dimentica del suo status d’attrice per ritornare a essere quella che è sempre stata.
Passare da un corpo all’altro senza darlo a vedere equivale all’arte della danzatrice classica che fa cose incredibili con una leggerezza e una grazia tale da farle sembrare semplicissime mentre dietro c’è grande studio e preparazione. Così funziona anche per me ed è questo che alla fine fa sì che il pubblico creda ai personaggi dei film. A ciò concorre anche il fatto di tenere il più possibile in disparte la propria vita privata in maniera che sia più facile dimenticarsi dell’interprete a favore del personaggio.
Le interpretazioni e l’approccio di Isabella Ragonese
Una caratteristica delle tue interpretazioni è quella di entrare in scena in punta di piedi, senza enfasi e con molto pudore, tratteggiando un modo di essere opposto alla sovraesposizione utilizzata nella comunicazione contemporanea. Così facendo tra te e lo spettatore si crea ogni volta un patto di fiducia che ci fa credere alle azioni dei tuoi personaggi.
Ho sempre pensato che il cinema rispetto al teatro richieda un grande esercizio di umiltà perché per il risultato finale l’importanza dell’attore è uguale a quella di chi si occupa delle inquadrature, delle luci, dei costumi. La bravura di un’interprete infatti non può prescindere dalle altre componenti perché un film non è un tuo momento performativo, ma un gioco di squadra. Non a caso i capolavori sono quelli in cui c’è un gruppo di persone che si muovono nella stessa direzione.
La tua è una recitazione morbida, mai convulsa, direi quasi paziente nel modo di pronunciare le battute. Secondo me questo aiuta a rompere la cosiddetta quarta parete, rendendo il pubblico più coinvolto nelle vicissitudini dei tuoi personaggi. Sullo schermo è raro vederti aggressiva. Che io ricordi abbiamo dovuto aspettare l’uscita del film di Sergio Rubini, Dobbiamo parlare, per assistere a una sequenza in cui tu urli e sbraiti. Questo a conferma di una recitazione, la tua, mai esasperata.
Molte delle cose che mi dici sono interessanti perché mi offrono un punto di vista su qualcosa che è difficile controllare e di cui spesso sono poco consapevole. Tieni conto che il film di Rubini è la versione cinematografica di quella teatrale che avevamo appena terminato. Sul set abbiamo sperimentato un registro diverso da quello usato sul palco, per cui quello che hai visto è il frutto di quel processo. Poi, ti dico, se c’è una costante nel mio modo di recitare è venuta fuori da sé, nel senso che non ho cercato film che mi aiutassero a confermarla. È vero che ogni attore si porta dietro la propria maschera, quella che lo rende unico e dunque irriproducibile rispetto alle performance degli altri colleghi. La fortuna però è quella di non esserne del tutto cosciente perché se così fosse il risultato sarebbe artefatto. Ognuno di noi ha uno stile e una firma personale con cui partecipa al lavoro autoriale del film. Il viso e il corpo sono il modo che abbiamo per scrivere la storia del personaggio.
Adattarsi agli altri
A proposito di stile, penso che la riuscita della singola performance dipenda anche dalla capacità di sapersi adattare alle caratteristiche degli altri interpreti. Nel film di Rubini, girato in un unico ambiente e basato sulla precisione dei dialoghi, entrare in sintonia con i tuoi colleghi significava riuscire a intercettare il ritmo della scrittura e riprodurla con uguale sincronia.
Torno al concetto di lavoro di squadra e nel mio caso alla fortuna di aver sempre lavorato con colleghi di grande talento, anche perché, come succede nel tennis, la bellezza della tua prestazione è direttamente proporzionale alla bravura di chi ti sta di fronte. Ti puoi preparare quanto vuoi, poi però sul set devi essere pronta a trasformare l’imprevisto in un’ulteriore possibilità creativa. Il film di Rubini, come gli altri che ho fatto, mi ha dato la possibilità di incontrare altre persone e altri mondi di cui è stato bello nutrirmi e ai quali è stato meraviglioso intonarmi.
L’incontro tra il tuo personaggio e quello di Piera Degli Esposti in Un posto bellissimo è un esempio di quanto hai detto. Tra di voi sembra stabilirsi una libertà di intenti che riesce a fare a meno di qualsiasi programma. È una sequenza fatta di sguardi e di non detti in cui una si specchia nell’altra.
Recitare con lei è stato un onore grandissimo. Di fronte avevo una donna di grande umanità e una collega che era già un mito per cui ho cercato di non farmi prendere dall’emozione per stare con lei dentro la scena. Al di là dei dialoghi, una sequenza come quella dipende dalla maniera in cui riesci a sintonizzarti con l’altro reagendo alle sue emozioni. In quel caso si è stabilito un gioco di specchi in cui molto dipende dalla capacità del regista di creare un cordone di sicurezza intorno agli attori per farli sentire liberi di esprimersi. Giorgia Cecere non ci ha dato indicazioni precise lasciando che fossimo noi a trovare il modo di portare avanti l’incontro tra i due personaggi. A quel punto tutto accade in modo naturale dando allo spettatore la sensazione di stare con loro.
Isabella Ragonese ed Elio Germano
Tra i tuoi colleghi ce ne sono alcuni con cui ti è capitato di lavorare più spesso. Penso a Michele Riondino, e soprattutto a Elio Germano, con cui date vita a un confronto di stili che finiscono per integrarsi alla perfezione. Lui con la sua recitazione più nervosa, tu con un approccio più morbido e pacato.
Con Elio ho avuto la fortuna di lavorare più volte. Il suo talento è tra le altre cose quello di mettersi in ascolto e far accadere le cose. Ricordo il set de La nostra vita in cui Daniele Luchetti ci ha lasciato la possibilità di improvvisare nel tentativo di dare vita al nucleo famigliare di cui si raccontava. Il risultato non è mai scontato perché può capitare che un attore scelga una strada diversa dalla tua. Con Elio non è mai capitato nonostante siamo stati di volta in volta coniugi o fratelli. Tra di noi si è sempre creata grande sintonia che forse funziona proprio per le differenze di recitazione che dicevi tu. Da dentro uno non se ne accorge. So solo che Elio è un attore sempre riconoscibile. Ha fatto cose molto diverse ma la sua “firma” la riconosci in tutti i film.
Il primo e l’ultimo film con Isabella Ragonese
Il primo e l’ultimo lungometraggio della tua filmografia riassumono il tuo percorso d’artista. Da una parte l’esordio con Nuovomondo ti vede interpretare un personaggio fantasmatico che sta tutto dentro la testa del regista, dall’altra il tuo ultimo lavoro, Come pecore in mezzo ai lupi, in cui ti cimenti in una parte completamente calata nella realtà.
Sì, anche se poi Nuovomondo parlava dell’immigrazione italiana dei primi del novecento attraverso tipi umani che magari oggi ci sembrano lontani da noi, ma che ricalcano per filo e per segno coloro che andavano a cercare una vita migliore negli Stati Uniti. Al contrario, il personaggio creato da Lydia Patitucci parte da una caratterizzazione di genere per poi ancorarsi in maniera feroce alla realtà. Interpretare una poliziotta sotto copertura non ha significato solo sposare le dinamiche dell’action movie, ma anche la possibilità di costruire un personaggio a tutto tondo, lontano da una rappresentazione bidimensionale. In mezzo a questi due film ho fatto cose diversissime iniziando con due lungometraggi come Nuovomondo e Tutta la vita davanti che sono stati la cosa migliore che mi potesse capitare. Da lì in poi ho cercato sempre di cambiare, dedicandomi tanto ai film di nicchia quanto a quelli più popolari nel tentativo di sperimentare sempre nuove corde all’interno di un lavoro che per me assomiglia a una sorta di bottega artigianale.
Come pecore in mezzo ai lupi prevedeva un lavoro sul corpo che per te non era stato mai così evidente. Sullo schermo esibisci un fisico allenato e nervoso, la faccia emaciata, i capelli tinti di nero e dal taglio mascolino. Penso inoltre che interpretare un personaggio che si finge un’altra persona ti abbia riportato all’essenza del tuo lavoro.
Proprio così. Per ritornare a ciò che dicevamo all’inizio, penso che un attore non possa fare a meno di inglobare nel suo mestiere i cambiamenti della sua persona perché sono quelli che ti accompagno nelle tue interpretazioni. È come se crescessi o decrescessi assieme al tuo lavoro. In questo senso credo che dentro di noi ci sia tanto di quel materiale da cui attingere per cui ogni volta è come usare un mixer con il quale dai voce a una parte di te abbassando il volume delle altre. Detto che si parte sempre da se stessi, questo è stato ancora più vero nel caso di questo film perché come hai detto mi sono rifatta ai principi del mio mestiere ovvero la capacità di dissimulare azioni e sentimenti che sono gli stessi strumenti usati dal mio personaggio, una poliziotta sotto copertura impegnata a sgominare una banda di pericolosi criminali.
Gli inizi
I tuoi inizi sono stati all’insegna di un cinema visionario. Lo era Nuovomondo, lo è stato Tutta la vita davanti che, oltre al precariato giovanile, è riuscito a raccontare l’influenza dei modelli televisivi sulle nostre vite prima ancora di Reality.
Ero agli inizi dunque sono stata fortunata a partecipare a due film del genere. Certo è che un ruolo come quello interpretato per Virzì è per forza di cose destinato a restare perché i problemi di quella generazione sono ancora attuali, al punto che i giovani mi fermano per dirmi di riconoscersi nel mio personaggio. In più è vero che si parlava di un mondo virtuale che solo allora si stava affacciando nelle nostre vite e che oggi invece ha preso il sopravvento. In generale nella mia carriera ho scelto sempre personaggi che potessero dare voce a chi non ce l’ha. Forse sto per dire un aggettivo molto abusato ma, se vuoi, questo è anche l’aspetto politico del nostro lavoro, quello di dare spazio alla maggioranza silenziosa che non si sente rappresentata.
Nel film di Virzì il tuo personaggio funziona come una sorta di anticorpo attraversando un mondo sorvolato senza mai perdere il controllo. In questo senso diventi il metronomo della storia.
Sì, è vero, lo spettatore vede questo mondo attraverso gli occhi della protagonista identificandosi con Marta. Per certi versi lei lo attraverso come farebbe Alice nel paese delle meraviglie, ma tutto questo deve comunque convivere con l’amarezza di una ragazza costretta a mettere il suo talento di laureata in filosofia a disposizione di un lavoro che ha come obiettivo quello di ingannare il prossimo. In quest’ottica il film racconta anche una società che non crede nel talento dei giovani.
Cosa raccontano le interpretazioni di Isabella Ragonese
Ragionando per approssimazione si può dire che l’insieme delle tue interpretazioni raccontano la precarietà dal punto di vista lavorativo, sentimentale, esistenziale. Quest’ultima è riassunta dalle protagoniste dei due film di Giorgia Cecere – Il primo incarico e In un posto bellissimo -, le quali, seppur in contesti diversi, riescono ad affermare se stesse partendo dall’ipocrisia del mondo da cui provengono.
Parlare con te mi consente di riflettere a posteriori su quello che faccio, quindi adesso che mi ci fai pensare ti dico che è proprio così. In molti mi dicono che nel mio lavoro ho affrontato la questione femminile, ma essendo donna per me è naturale parlare di una condizione che conosco così bene. Il precariato sentimentale è stato al centro di Dieci Inverni, uno dei miei film più fortunati.
E anche di Un giorno in più.
Sì, lì tutto si svolgeva all’insegna del motto “oggi ci sei domani no”. In generale penso di essere stata interprete di una generazione che iniziava a non avere più un futuro e dunque nessuna progettualità, segnalando un’anomalia che oggi è diventata triste normalità. Il primo incarico assomigliava a un romanzo di formazione in cui gli ideali di partenza si scontrano con la realtà. Nel film la protagonista lottava con tutte le sue forze per cercare di restarci dentro, rendendosi conto che quella era l’unica che aveva. Parliamo di un personaggio femminile che, al pari degli altri che ho fatto, ha le caratteristiche per parlare anche a un pubblico maschile pur raccontando situazioni estreme come quella di Cuore Sole Amore. Questo perché la domanda del film di Vicari, e cioè: “fino a che punto un corpo può sopportare il fatto di lavorare senza diritti né protezione?” vale sia per gli uomini sia per le donne.
L’interpretazione di Sole Cuore Amore è una delle più belle. Rivedendoti sono rimasto impressionato dalla maniera in cui il tuo corpo riesce a trasmettere tanta prostrazione. Come si riesce a farlo?
È difficile da raccontare. La premessa è sempre la stessa, quella di accettare una parte solo se ti risuona dentro e poi restarvi in empatia per tutta la durata del film. Dopodiché il nostro lavoro è quello di immaginare quello che si può provare in determinate situazioni. Tieni conto che in quel periodo facevo anche lo spettacolo teatrale di Rubini. Finivo oltre la mezzanotte e alle quattro di mattina ero già a Torvaianica per il trucco. In quel caso la stanchezza l’ho messa a disposizione del personaggio e questo è servito molto alla resa finale. Anche in quel film sono partita dal corpo, cercando di capire come si muoveva il personaggio, come camminava, che tipo di energia aveva. Poi è fondamentale avere a disposizione una linea chiara di come deve essere il tuo alter ego. Da questo punto di vista la sceneggiatura di Vicari è stata esemplare.
Dieci Inverni
In ogni filmografia ci sono film destinati a rimanere più impressi al pubblico. Per te uno di questi è stato Dieci Inverni, entrato nell’immaginario dello spettatore come un vero e proprio film di culto. Rivedendolo pensavo a come il tuo personaggio, un poco alla volta, aderisca alla materia da lei studiata trasformandosi in una delle tante eroine della letteratura russa. Peraltro a un certo punto la vostra vicenda sembra rievocare la trama del Dottor Zivago.
Dieci Inverni è un film che ha una vita lunghissima. È ancora molto amato e a me fa rimpiangere il momento in cui l’abbiamo girato perché allora avevo la sensazione che ci fosse spazio anche per progetti meno scontati. Oggi si ha meno coraggio e un film come quello non potrebbe restare così tanto in sala. La fortuna che ha avuto nel corso del tempo penso dipenda dal fatto di essere una commedia romantica che però tratta l’argomento alla maniera dei film d’autore. La somiglianza di Camilla alle eroine della letteratura russa dipende dall’energia trasmessa dai luoghi dove abbiamo girato e dunque da Venezia e dalla Russia. Per me e Michele la complessità di quel film era quella di rimanere credibili con il passare del tempo considerando che si trattava di uno scarto temporale breve, ma presente, in cui le differenze da un anno all’altro ci dovevano essere seppur in maniera quasi invisibile. Calcola che essendo un’opera prima non abbiamo lavorato cronologicamente per cui è stato un processo complesso da parte di tutti. Da spettatrice Dieci Inverni è uno dei miei film preferiti.
La differenza tra corto, film e serie
Questa intervista è stata realizzata a margine dello ShorTS International Film Festival di Trieste dove tu, Isabella Ragonese, e Michele Riondino sarete premiati come attori del presente. L’occasione mi offre la possibilità di chiederti come cambia il tuo modo di recitare rispetto al fatto di farlo all’interno di un corto, di un film o di una serie?
Per me c’è la stessa differenza che esiste tra una corsa di resistenza e una di velocità. Si tratta di capire lo spazio che hai per declinare ciò che esprime il tuo personaggio. Nei corti il punto di partenza e quello di arrivo sono più palesi per cui cerchi di dosare le energie rispetto al tempo che hai. In una serie le riprese possono durare anche sei mesi per cui l’importanza dell’attore è subordinata alla narrazione, nella necessità di far andare avanti la storia e di far venire voglia allo spettatore di vedere la prossima puntata. Come attrice mi trovo più a mio agio nel tempo del cinema perché ho la sensazione di avere chiari i punti fondamentali che devono arrivare allo spettatore.
Il cinema di Isabella Ragonese
Parliamo del cinema che piace a Isabella Ragonese.
È una domanda a cui non so rispondere nel senso che da cinefila ne vedo così tanti che mi sembrerebbe fare un torto citandone solo uno, anche perché i gusti cambiano a seconda della vita che stai vivendo. Ti posso dire che l’ultimo film di Wim Wenders mi ha riportato con piacere a godere dello specifico cinematografico perché solo in sala ci si può godere la sua ritualità. Succede la stessa cosa quando guardi i capolavori degli anni quaranta e cinquanta. Magari li avevi visti in televisione, ma se ti capita di guardare in sala quelli di volta in volta restaurati capisci che sono nati per essere visti in quello spazio.
La foto di copertina è stata gentilmente offerta da Roberto Bisesti, ufficio stampa di Isabella Ragonese
Isabella Ragonese fotografata da Marco Laconte