C’è una sottile e maligna perversione di fondo in “Sinister” (2012). Un’allegoria capace di scavallare il genere e di proiettare la pellicola ben oltre la sua lettura superficiale, spingendola al di là dei propri limiti
C’è una sottile e maligna perversione di fondo in Sinister (2012). Un’allegoria capace di scavallare il genere e di proiettare la pellicola ben oltre la sua lettura superficiale, spingendola al di là dei propri limiti: la casa, la famiglia, la tranquillità domestica del caldo focolare vengono prese a picconate, di fatto divelte a colpi di sceneggiatura, che sibillina si fa beffe di uno degli archetipi per eccellenza della cinematografia statunitense; lo stesso che in Sinistercollassa, straziato com’è da uno psicologico trastullo al massacro che ha nella fiaba nera la sua chiave di violino atta ad interpretarlo.
Scott Derricksonomaggia a suo modo la prima stagione di American Horror Story (2011), grana di un racconto tra le righe del quale l’abitazione occupa una posizione predominante, tanto narrativa quanto metaforica. Le quattro mura che custodiscono la claustrofobica vicenda evolvono progressivamente, passando da leggenda urbana a movente omicida; sotto questo tetto non vi è riparo alcuno, bensì crescente alienazione di chi lo abita, nervi che cedono e potenziale implosione matrimoniale. Quasi ci si trovasse dinanzi ad un Poecontemporaneo.
Quello inscenato da Sinisterè cinema di rara perfidia. In grado di trascinare a fondo qualunque cosa riprenda: sogno americano compreso. Anch’esso in frantumi assieme al personaggio di Ethan Hawke, riuscita caratterizzazione che dello scrittore di talento possiede soltanto la caricatura di superficie; cardigan e occhialini da lettura, bicchiere facile e sigaretta notturna. Nella realtà dei fatti un semplice topo da biblioteca o poco più, con un solo, lontano, successo alle spalle, nota firma di una specialità editoriale (le ricostruzioni di crimini irrisolti) talmente macabra da impedirgli persino di mostrare ai propri figli il frutto del suo lavoro.
Non vi è giovane successo sugli allori del quale cullarsi e vivere di rendita in Sinister, al massimo 15, rimpianti, minuti di gloria, da riguardare a notte fonda su una usurata vhs e pagare a carissimo prezzo nel presente. Pur non possedendo la lucida fantasia del reale che esaltava i I bambini di Cold Rock (2012) o l’inaspettato twist di La casa muda (2010), l’ultimo Scott Derricksonuccide l’America, le strappa via i propri figli, trasforma le sue tranquille case in palcoscenici per un massacro; lo fa con i riflessi metacinematografici misti a dimenticate credenze popolari e con gli inserti in Super 8, che da soli bastano e avanzano. Tutto il resto è volume dovuto, dazio da pagare all’etichetta horror. “Male”, se volete, necessario.