Presentato Fuori concorso al 41/o Torino Film Festival, nella sezione “La prima volta”, Holy Shoes è l’opera prima del regista Luigi Di Capua. Il film è prodotto da Agostino Saccà per Pepito Produzioni con Rai Cinema e il contributo del Ministero della Cultura. Nel cast, fra gli altri, troviamo Carla Signoris, Simone Liberati, Isabella Briganti, Denise Capezza, Ludovica Nasti e Orso Maria Guerrini. In sala dal 4 Luglio con Academy Two.
Per comprendere meglio il film abbiamo fatto alcune domande all’attrice Isabella Briganti, direttamente negli studi di Academy Two.

Isabella Brignati e la sua Agnese
Agnese è il personaggio più difficile di tutti da interpretare, perché il suo dolore non è solo emotivo, ma anche fisico. Come ci si prepara ad un personaggio del genere?
Agnese è quella che paga il prezzo più alto di tutti. L’unica possibilità che hai per rendere credibile quel dolore è andare a ricercare il tuo prima trauma. Il tragic flaw, quello che ha segnato e che poi sappiamo non si supererà mai in tutta la vita. Che però, invece di diventare disturbo, può diventare risorsa se lo sai far interagire nei tuoi processi artistici. Ma io ho dovuto lavorare sul quel trauma, riaprire quella ferita e stare lì, a contatto con quell’episodio. Questo è stato anche salvifico però. Mi sono detta :”vedi, non ho sofferto in vano”. Oggi quel trauma è un lingotto d’oro per la mia carriera d’attrice.
Differentemente da tutti gli altri, la scarpa sacra di Agnese non è una snickers ma è la scarpa col tacco. Tanto è vero che nella scena dell’incidente intuiamo che il soggetto coinvolto sia lei propria dalle scarpe. Tolti i tacchi, cos’altro è Agnese?
Una dannata dei nostri tempi. Una donna che ha investito tutto sulla sua carriera, sulla sua immagine, sulla sua avvenenza, sui suoi rapporti legati sempre a qualcosa che la interessa nella zona materiale e pratica. Soprattutto il lavoro. Il suo pallino è arrivare e diventare famosa. Finalmente ce l’ha fatta, ha la prima serata, e quindi lei si è proiettata tutta su quella superficie che si chiama “ego”. È un’ego-riferita. Ma dove vanno a finire tutte le ego-riferite? Come in un girone dantesco: tutte all’inferno. I beni materiali sono tutti caduti e anche il successo della diva più famosa un giorno conoscerà la sua discesa.
Anche la più bella delle donne, un giorno conoscerà la sua discesa. Pensa alla tragedia di investire tutto in questo interesse e poi perdere tutto. Agnese finisce all’inferno. Con quella gamba le se frantumano tutte le cose per cui si era dannata per averle. La caduta agli inferi è totale.
Ma proprio perché totale, Agnese tocca il fondo, qui può ritrovare se stessa. In quella scena finale, che per girarla ho rinunciato a tre scene, la prima volta sul set non l’abbiamo “trovata”, non abbiamo trovato la strada che ci porta a quella resurrezione. Anche se nel finale lei cammina soltanto, basta quello a farti capire che è resurrezione. Nella parte iniziale invece, quando aveva tutto, lei era una persona scura dentro, buia.
Infatti, nella prima scena dove la vediamo, quando è nell’armadio con tutte quelle scarpe, sono proprio le scarpe che hanno la luce, non lei.
Esatto, hai capito proprio ciò che intendevo. Raccontare un personaggio così complesso, in una sua evoluzione veramente ancestrale, che arriva a rinascere nella stessa vita è una cosa per cui devi fare un percorso enorme, è incredibile. E noi in poche scene ci siamo riusciti, è un film corale e avevamo poco spazio per raccontare questa scena.
Mi ricordo che quel giorno ho chiamato Luigi (il regista, ndr.), e gli ho detto: “Luigi, non abbiamo il finale. Noi dobbiamo darci un’altra possibilità, dobbiamo girare un altro finale per Agnese. Deve venir fuori”. E alla fine non abbiamo girato ben tre scene e abbiamo rigirato il finale. Questo è un sacrificio non da poco. Non è che avessi in questa storia corale chissà quante storie, però ne è valsa la pena, perché ho reso giustizia a questo personaggio e ho potuto veramente compiere un processo attoriale, un’interpretazione, degna forse di chiamarsi tale.

Donne e tacchi
Dopo ciò che accade ad Agnese, quest’ultima sente il bisogno di disfarsi del simbolo di potere e di donna che più sentiva suo: i tacchi. Ciò la porta a sentirsi anche meno persona oppure è più una voglia di cancellare ciò che è stato e necessariamente ricominciare da zero nella sua vita?
Quella è una reazione di odio verso se stessa. Perché per la prima volta sperimenta l’impotenza di essere quella che lei credeva di essere. Quindi poter accedere a quei messaggi, quei totem, farli propri, farli diventare un prolungamento di se stessa. Perché indubbiamente, ogni donna, quando sale su un bel paio di tacchi, diventa una femmina. Non è che prima non lo sia, però quando tu ti metti quei tacchi, proprio c’è una rivoluzione ormonale in corso. Quindi lei lo sa, l’ha studiato, intuitivamente quel potere, e lei quel potere l’ha perso, definitivamente. Lei quelle scarpe non le potrà mai più indossare, e quell’impotenza è troppo vedersela lì rappresentata da centinaia di scarpe. Diventa un incubo, e quindi via, via tutto.
Ma è un gesto proprio di odio verso quell’Agnese che per fortuna si frantumerà, perché si doveva frantumare, perché tanto prima o poi si sarebbe frantumata. Questo lo salva. Quando lei capisce questo, e infatti quando la vediamo sulle stampelle, non abbiamo fatica a immaginare che la vedremo a breve con la sua gamba bionica che tornerà a fare quello che faceva prima. Con quella luce: la vera Agnese. Quella che ormai ha trovato se stessa e quell’Agnese là non la disintegrerà più nessuno.
Il regista Luigi Di Capua ha spiegato più volte come la scarpa rappresenti il capitalismo e il consumismo, riferendosi però a tutti i tipi di scarpa, in generale. Quella col tacco però è molto più elitaria, basti pensare al fatto che, culturalmente, metà della popolazione, quella maschile, è tagliata fuori. Per una donna quindi, oltre capitalismo e consumismo, cos’altro rappresenta la scarpa col tacco?
Libertà sessuale. Perché una donna su un paio di tacchi è una femmina, non è più soltanto una donna. Esprime al massimo la sua femminilità. Non puoi salire su un paio di tacchi se non sei consapevole della tua crescita, della tua maturità sessuale. Perché comunque nel momento in cui tu sali su un paio di tacchi, comunque tutto di te emanerà un linguaggio femminile. Noi donne oggi, donne moderne, scegliamo pantaloni lunghi, scarpe basse, perché ti devi rapportare con un mondo dove devi anche tenerla fuori la tua femminilità, perché sei chiamata a svolgere qualcosa di ibrido. Stanno cancellando anche le definizioni ormai, oppure se ne aggiungono talmente tante che perdono significate. Il tacco quindi è una rivoluzione sessuale.

Adelaide, la madre di Goffredo Mameli
Recentemente ha anche interpretato la madre di Mameli nella serie Rai omonima. Quali sono le difficoltà nel preparare un personaggio in una serie storica, lontana dai giorni nostri e con comportamenti ed atteggiamenti a noi non molto affini?
Intanto quei personaggi ti aiutano, sono in costume. Ti aiuta lo studio proprio del costume stesso, di come si comporta una dama. A metà 1800, una donna, non può ovviamente che stare in quegli schemi. Poi però, ecco la fortuna di interpretare Adelaide, una donna straordinariamente moderna, rivoluzionaria. Lei era amica di Mazzini, faceva la rivoluzione dentro i salotti di casa sua, con Rubattino, col grande armatore che finanziava attraverso di lei tutti i gruppi rivoluzionari. Ha trasmesso a suo figlio Goffredo quello che avrebbe fatto lei se fosse stato uomo. Lei sarebbe stata un generale di prima linea, con un’anticipazione incredibile per quei tempi, anche col marito, il famoso ammiraglio Giorgio Mameli. Loro si davano del tu, non del Voi come si usava in quell’epoca. Una donna rivoluzionaria, anche se in costume, con due attributi così.
Chiudiamo con questa: Adelaide porta i tacchi oppure no?
Assolutamente sì (ride, ndr). Nascosti sotto la gonna lunga, ma li porta.
Qui potete trovare la nostra recensione del film Holy Shoes.
