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Il Cinema Ritrovato

Anatole Litvak, una retrospettiva sul cineasta cosmopolita

Al Festival del Cinema Ritrovato di Bologna si riscopre il regista di ‘Mayerling’ e ‘Il terrore corre sul filo’ con una selezione di titoli che hanno decretato la rinomanza, da riscoprire, di un cineasta ucraino proteso tra due culture

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Ci sono ponti tra Stati Uniti, Europa occidentale e orientale che solo alcuni registi hanno saputo costruire, esuli tra le due guerre mondiali e in fuga dai totalitarismi, muovendosi con destrezza ed eleganza tra un sistema produttivo rodato e inflessibile (gli studios), audacia e modernità continentali e raffinatezza estetica dell’est.

Anatole Litvak (Kiev, 1902 – Neuilly-sur-Seine, 1974) riuscì ad affermarsi come portavoce di questo dialogo tra culture, stili, ragioni commerciali, con il suo fiuto analitico per le sceneggiature di valore, la sapienza nella direzione degli attori e delle attrici (tra cui Joan Fonatine, Claudette Colbet, Olivia de Havilland, Bette Davis,  Ingrid Bergman, Vivien Leigh, Barbara Stanwyck, Audrey Hepburn, tutte vincitrici di un Oscar), il gusto sofisticato per una scenografia fittizia ma accurata, la fluidità studiata al dettaglio dei movimenti della macchina da presa.

Un regista da riscoprire

Il Festival del Cinema Ritrovato di Bologna celebra la sua forza drammaturgica, il suo vincente approdo tra generi differenti, la sua erranza intellettuale tra Mosca, Parigi, Londra e Los Angeles, in una retrospettiva intitolata “Viaggi nella notte”. Sono pellicole che hanno alle spalle l’esperienza sul set con giganti come Abel Gance e G. W. Pabst, di cui Anatole Litvak fu assistente e montatore, e che nascono da un vissuto personale di ricchezza e miseria (durante la Rivoluzione russa e nel secondo dopoguerra). Film di uomini e donne con un’identità da difendere o da riconquistare, di personalità sfumate nei valori morali, poste di fronte all’eroismo o al tradimento: sono personaggi che vanno incontro a svolte improvvise ed emozionanti, come ricorda il curatore Ehsan Khoshbakht:

Anatole Litvak era anche il grande maestro dei finali: sorprendenti, sottili, moderni. Perfino nei suoi titoli meno eclatanti un ultimo atto straordinario scuote il film e lo ridefinisce. Se “tutto è bene ciò che finisce bene”, il cinema di Litvak non manca mai di confermarlo.

Oltre ai film più agganciati alla realtà storico-sociale di un’Europa sospesa tra le macerie della Grande guerra e le allarmanti avvisaglie di nuovo conflitto, come L’equipaggio (un triangolo amoroso che coinvolge i militari dell’aviazione francese), Tovarich (sulle dinamiche tra vecchia Europa e socialismo),  I dannati (pregevole thriller di spie tedesche filoamericane), si stagliano le pellicole del cosiddetto sottofilone “Identificazione di una donna”, come lo definisce Khoshbakht. Litvak tratteggia infatti psicologie femminili fragili ma resilienti, delinea “viaggi nella notte” non solo di pugili (La città del peccato), di gangster (Blues in the Night), di psichiatri criminali (Il sapore del delitto), ma di donne comuni investite da qualcosa di troppo grande, pericoloso o banalmente letale come un amore impossibile. Ecco i tre titoli selezionati per cogliere lo sguardo affascinato e indagatore di Litvak verso l’universo femminile.

Il terrore corre sul filo (1948)

Il film più proverbiale di Litvak e tra quelli meglio riusciti, un successo di pubblico che si situa dalle parti di Hitchcock per la sapiente orchestrazione della suspense e da quelle di Otto Preminger per l’estratto di una società urbana a tinte fosche, con un germe di sinuosa ambiguità e un gusto barocco per l’immagine che potrebbe aver ispirato Robert Aldrich.

Tratto da un popolarissimo radiodramma di Lucille Fletcher, che lo ha anche sceneggiato, Il terrore corre sul filo vede Lena (Barbara Stanwyck), moglie ricca e invalida a letto, in un dilemma tachicardico: casualmente, per un disguido alla linea telefonica, ha intercettato una conversazione anonima in cui si progetta un omicidio che avrà luogo quella sera stessa. Profondamente turbata e ignorata dalla polizia che non le crede, cerca aiuto nel marito Henry (Burt Lancaster), irreperibile per apparenti motivi di lavoro, fino a quando, grazie a un giro di telefonate, non scopre che il delitto preannunciato riguarda gli interessi della sua azienda di famiglia. E il terrore scorre ancora più ravvicinato sul filo.

Notturno metropolitano

Anatole Litvak traduce una sceneggiatura minuziosa in un thriller da camera chiusa ad ampio raggio, diluendo l’azione circoscritta in novanta minuti serrati, dove neppure i numerosi flashback riescono a scalfire l’andamento tesissimo, che non si allenta neppure negli ultimi secondi finali, con una battuta che è una sortita ad effetto. Giocando con mano ferma sull’incastro di narrazioni in mise en abyme e costruendo in progressione il plot criminale inizialmente inafferrabile, il regista affresca un piccolo mondo metropolitano di arrampicatori sociali e professionisti corrotti, che ruota attorno a Lena, ex poor little rich girl che ha sottovalutato le mire di chi le sta vicino.

Barbara Stanwyck è magistrale nei panni di una donna priva di appeal, allettata, nevrotica e altezzosa, a cui l’attrice sa però conferire la sua nota personalità di interprete volitiva e uno spessore drammatico che irretisce. Nelle regia di Litvak ne scaturisce un ritratto di donna problematica, scostante, ma che conquista l’empatia del pubblico, non solo per la sua lotta istantanea e disperata per scongiurare un misfatto, ma soprattutto per il senso di pietas nel crollo progressivo delle certezze di una vita.

Profondo come il mare (1955)

Profonda come il mare più blu (il cromatismo della tristezza per antonomasia) è la depressione che affligge Hester (Vivien Leigh), una donna borghese che si è separata dal marito e ha rinunciato alla sua rispettabilità sociale per un ex pilota della RAF inaffidabile e sfuggente, tentando persino il suicidio.

Su una trama poco sostanziosa e poco originale, tratta dall’opera teatrale del drammaturgo Teremce Rattigan e poi anche adattata sullo schermo da Terence Davis nel 2011 con Rachel Weisz, Litvak imbastisce un film di introspezione psicologica non particolarmente ispirato, ma che non manca di toccare gli animi in uno dei suoi tanti magistrali finali. Scegliendo di raccontare questo crollo emotivo da tre angolazioni diverse – la prospettiva del marito, dell’amante e della protagonista – Litvak orchestra un climax di immedesimazione per comprendere, senza giustificare, il gesto estremo di Hester, soprattutto per il pubblico benpensante del 1955.

Identificazione di una diva

Tolto l’epilogo e una seducente scena di smarrimento per le notturne strade londinesi, Profondo come il mare resta ciò che la regia di Anatole Litvak desidera inconsciamente che sia: uno studio su un’attrice che attira per innato carisma divistico lo sguardo infatuato della macchina da presa: Vivien Leigh nella luce autunnale e non meno ipnotica della maturità, un cigno dal volto aristocratico che schiarisce l’opacità di questo adattamento, caricando sulla sua bellezza un poco sfiorita e sulle sue espressioni intense il suo recente e ancora bruciante trascorso di patologia mentale, nel tentativo riuscito di riscattare se stessa di fonte al pubblico e di conferire dignità a un personaggio scomodo a cui la Leigh offre, da ottima professionista, un’umanità naturalmente sofferta.

Anastasia (1956)

Sottovalutato dalla critica che gli riconosce un piccolo spazio nella storia del cinema statunitense solo per l’Oscar come miglior attrice protagonista vinto da Ingrid Bergman, che con questo film si reinserì con grande stile a Hollywood dopo il matrimonio scandaloso con Roberto Rossellini e la permanenza meno glamour in Italia. Ma la pellicola, dietro la scorza di prodotto di intrattenimento e dietro il ritratto romantico di una figura leggendaria come quella di Anastasia Romanova, è anche un sottile saggio su magnifiche ossessioni personali e filmiche che stanno a cuore al regista.

Il mondo di ieri secondo Anatole Litvak

Parigi 1928. Anna Anderson, poverissima profuga russa senza memoria e con trascorsi psichiatrici, con molte ritrosie ed evidente prostrazione viene ingaggiata dal generale Bounine e dal suo entourage per essere presentata nel bel mondo come la principessa Anastasia, unica sopravvissuta alla strage dei Romanov, nella speranza di impossessarsi dell’eredità della famiglia imperiale. Dopo un’intransigente educazione di galateo principesco e un rimodellamento del suo aspetto fisico, Anna è pronta per la presentazione nell’alta società. Non tutti però si convinceranno della sua presunta identità, tra cui l’imperatrice madre Marija. Tra crisi pirandelliane e illuminanti percezioni che questa donna immemore del suo passato sia veramente Anastasia, la protagonista è incerta tra uno sfavillante matrimonio di apparenze o la conquista del vero amore per cui dovrà rinunciare alla ricchezza.

Sotto la scorza di drammatica rinascita con la ritrovata prestanza divistica di Ingrid Bergman e la stuzzichevole trama che gioca con la fascinazione di un mito popolare, Anatole Litvak intreccia in sottofondo molteplici suggestioni e tematiche, dissimulate dalla scenografia sfarzosa potenziata dal Cinemascope e da un ritmo di svagato intrattenimento per il grande pubblico: la manipolazione interpretativa dell’attore da parte del regista, lo smarrimento d’identità degli esuli  (come Litvak stesso), il rapporto tra verità e artificio, dove a prevalere per la nostra sopravvivenza è sempre quest’ultimo; infine l’incombenza sotterranea della Storia, che da lì a poco spazzerà via con le sue dittature e le sue barbarie gli ultimi residui di una civiltà ormai al tramonto.

 

 

 

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