Abbiamo intervistato Alessandro Pugno, regista del lungometraggio “Animale Umano” in uscita dall’11 luglio nelle sale italiane.
La bella notizia dell’anteprima del film Animale Umano arriva da Daniele Segre in un fine giugno alquanto atipico come meteo e con il buon auspicio della festa di San Giovanni patron di Torino città della preziosa Redibis Film.
Leggo con attenzione il comunicato stampa e mi immergo, con l’anteprima torinese presso UCI Lingotto, nelle ricercate, profonde immagini di un film davvero prezioso che cattura da subito la mia attenzione per la ricercatezza delle inquadratura, una fotografia dirompente e poeticamente minimalista che evoca un cinema più internazionale della sua genesi italo-spagnola e che Taxidrivers consiglia di vedere rigorosamente al cinema dall’ 11 luglio in tutte le principali e migliori sale italiane.
Bisogna diventare eroi per essere uomini?
Il racconto si apre in una piccola città del nord Italia. Un bambino, Matteo, cresce circondato da bare e con la madre gravemente malata. Sogna di andare via e morire da eroe in un’arena. Nelle praterie dell’Andalusia, un vitello, Fandango, viene allevato per diventare un toro da corrida. Matteo e Fandango crescono in mondi distanti e paralleli ma un giorno dovranno incontrarsi e affrontarsi, davanti a migliaia di persone.
Animale Umano con Guillermo Bedward (Tolkien di Dome Karukoski, Rocketman di Dexter Fletcher), Ian Caffo (per la prima volta sullo schermo, originario di Bussoleno), Silvia Degrandi (Parthenope di P. Sorrentino; La Pazza Gioia di P. Virzì) Paola Sotgiu (Suburra – La Serie; A casa tutti bene – La serie) Brontis Jodorowsky (Poesia senza fine di A. Jodorowsky, Animali fantastici: I crimini di Grindelwald), Donovan Raham, Antonio Estrada, Juan Quiñones.



Il film è prodotto da Jose Alba per Pecado Films (SP), Natacha Kucic per First Draft (SP), Daniele Segre e Daniele De Cicco per Redibis Film (IT), Paola Herrera per Una Comunión (MEX) con il contributo di Ministero della Cultura – Fondo Coproduzioni Minoritarie, Piemonte Film Tv Fund (POR FESR Piemonte 2014-2020-Azione III 3c.1.2), Instituto de la Cinematografía, Eurimages, Ministerio de Cultura y Deportes, Gobierno de España; con il sostegno di Film Commission Torino Piemonte – Piemonte Film TV Development Fund, Agencia
Andaluza de Instituciones Culturales, Ibermedia, Creative Europe Programme– MEDIA; con la partecipazione di Canal Sur, CREA SGR.
Distribuito in Italia dalla Draka Distribution di Corrado Azzollini.
L’intervista
Il film mette in scena il parallelismo tra l’agire umano e quello del mondo animale: tutti tentano di fuggire dal loro destino di prede, da un lato la volontà paterna per Cesar, dall’altro il meccanismo mostruoso delle corride e infine il dramma esistenziale, la solitudine di Matteo.
Sì, la mia idea era quella di accomunare l’esperienza umana e quell’animale senza essere antropocentristi ma nello stesso tempo senza cercare di antropomorfizzare l’animale. L’idea era quella di convertire il toro in un vero protagonista, ovvero in un individuo caratterizzato da una storia unica. Volevo creare una favola senza tempo senza emulare Disney, ma inquadrandola come un’ultima possibile tragedia greca. Ovvero due personaggi che nascono come avversari, entrambi segnati dal loro destino; quello dell’animale inconsapevole, in quanto non cosciente del proposito per cui è nato, mentre quello di Matteo solo apparentemente più libero, in quanto segnato da un’esistenza non facile. Questa è stata una mia prima riflessione.
Il discorso animalista come si innesta all’interno della pellicola? È puro pretesto narrativo oppure un fondamento morale?
Se vogliamo proprio usare un “ismo”, direi che più che un discorso animalista è un discorso anti specista che mira alla ridefinizione, su cui il film gioca, dei concetti di uomo e animale. In tutto il corso del film si assiste ad un gioco di specchi con definizioni che potrebbero essere applicati all’uno e all’altro, fino a poi cancellare queste differenze “di specie” per approdare a questo sguardo finale, in cui per la prima volta i due protagonisti si incontrano e riconoscono.
Non mi piacciono gli “ismi” perché racchiudono un’ideologia preconcetta. Io volevo fare un film aperto, un film che più che dare risposte suscitasse domande “sentite”, non delle domande intellettuali, ma domande che provocassero nello spettatore certe contraddizioni che viviamo nel quotidiano.
In fondo c’è qualcosa di tremendamente paradossale nel nostro rapporto con gli animali, da una parte li amiamo, dall’altra li abbiamo usati storicamente per rappresentare “l’altro di fuori da noi”: il mostro. Ed è questo che il rituale della corrida rappresenta.
Questo paradosso è vissuto anche da un personaggio del film, Juan, il vecchio a cavallo che cura gli animali. Juan non è un attore ma interpreta se stesso. Ama le sue vacche e vitelli, a tal punto da non mangiare la loro carne o allevare a biberon i vitelli che vengono ripudiati dalla madre. Nello stesso tempo però per lui il fine ultimo è vederli nell’arena. Proprio per questi paradossi senza risoluzione, come dicevo, è un film, che parla di compassione, quel sentimento che nasce quando capiamo che l’altro è come noi, e in questo senso per me animali e umani sono tutti e due esseri senzienti, questa è la cosa più importante.
La morte all’interno del film subisce un processo di industrializzazione: Matteo figlio di una famiglia di “becchini”, i tori cresciuti per divenire vittime nelle corride, Fandango “progettato” per divenire torero e sconfitto nella forma ultima.
Il film inizia con la dimensione realmente anti umana della morte che secondo me è qualcosa che stiamo vivendo come società da molto vicino.
C’è tutta una industrializzazione, adesso siamo arrivati addirittura alle “camere mortuarie” a convertire da subito quello che prima era vita in puro oggetto.
Matteo vede questa cosa e cresce in questo mondo. Cresce tra questi oggetti privi di senso e quando assiste alla morte di un bambino comincia a farsi domande sul senso della vita; perché si muore, eccetera…
Il film racconta una elaborazione personale rispetto al mondo freddo e vuoto del mestiere di becchino che evolve in una morte eroica, un atteggiamento molto maschile che nasconde il tentativo di trascendere la morte: questa morte illogica, questa morte fatta di oggetti banali, questa morte inutile e priva di senso.
Matteo cerca invece una morte gloriosa, una morte per sentirsi amato. Matteo, infatti, non si sente amato. Questo è il suo principale dilemma.
Il film affronta inoltre il tema della genetica, scientifica, fredda e apparentemente stringente che accomuna uomo e animale. Fandango è figlio di un toro mansueto e quindi non adatto alla corrida e dovrà essere sacrificato. Allo stesso tempo Matteo è figlio di un becchino e sarà un becchino. Cesar è figlio di toreri, dovrà quindi essere torero.
È un mondo di “padri” che grazie alla propria discendenza e genetica vuole riperpetuarsi all’infinito. Ma la ribellione dei tre protagonisti romperà questo schema.
La dimensione femminile è totalmente assente, se non nel senso di perdita.
Sì, la dimensione femminile è un grande “fuoricampo”, non è presente, e come tale fa avvertire ancor più la sua importanza. Mi ricollego alla domanda di prima: i due momenti fondamentali del film, che accomunano l’esistenza umana e animale di Matteo e Fandango, forse la chiave stessa del film, sono la separazione dalla madre. È un evento importantissimo, perché segna definitivamente la solitudine di questi due personaggi e la loro mancanza d’amore.
Alla fine, forse la storia animale di Fandango è più benevola, perché incontra Juan sulla sua strada, che crede in lui; Matteo, invece, si ritrova totalmente solo, anche se poi troverà il maestro. Matteo è come una specie di mendicante d’amore, qualcuno che fa delle bravate per dire “io esisto, io voglio esistere”. E in fondo questa “domanda di esistenza” è una richiesta d’amore, perché i personaggi femminili, quelli che avrebbero potuto cambiare le sorti, sono stati portati via dal destino.
La menomazione del corpo è un altro elemento centrale all’interno del film e accompagna la vita di Matteo, Fandango e infine Cesar.
La menomazione del corpo per me è quella di un corpo cristiano, il corpo che vive la croce; è una croce dello spirito, è un corpo menomato dai dolori esistenziali di entrambi i personaggi. È un corpo segnato, sia quello di Fandango, sia quello di Matteo. Nel caso di Matteo si tratta di ferite interiori che lo spettatore può cogliere in varie maniere ma l’idea fondamentale è che questo dolore spirituale fortissimo, questo dolore esistenziale si riverbera nel corpo.
È questo corpo che diventa ferito, menomato, segnato e crocifisso, nel senso che questo dolore lascia tracce indelebili; nel caso di Matteo si cancellano, forse solo temporaneamente, perché alla fine, lui prende atto del proprio dramma mediante la morte, la accetta completamente ed è un finale tragico, poiché privo di rivalsa. Anche nella storia di Cesar c’è un corpo che fa male, un corpo piccolo, elegante, ma inadatto al destino da torero e al rituale violento della corrida: è un’anima che vuole liberarsi del proprio corpo.
In animale umano emerge il tuo talento di regista, fotografo e poeta che ti ha visto magistrale in un doc come “all’Ombra della Croce”. Come vedi oggi da “quasi” esordiente il cinema italiano e cosa miglioreresti per sperare che la tua “cifra” diventi con te ed altri tuoi colleghi un marchio distintivo del nostro cinema di qualità?
Credo che il cinema italiano abbia sempre avuto una forte componente spirituale e poetica del trascendente. Forse ripresa solo recentemente, film come Disco Boy di Giacomo Abruzzese o “il Vento soffia dove vuole”di Marco Righi, o tutto il cinema di Alice Rohrwacher sono declinazioni diverse di questa tendenza. Per non parlare delle Quattro volte di Michelangelo Frammartino.
Certo il mio modo di vedere i cinema è un po’ più iconoclasta mentre il cinema italiano ha una certa effervescenza tendente al barocco, all’accumulazione.
Poi i miei riferimenti cinematografici sono da ricercare altrove. Sono sempre stato un grande amante del cinema dell’est, e di una certa estetica minimalista. Un lavoro molto importante per me è stato quello fatto nel 2011 con “Le tre distanze”, un’opera sul paesaggio del Monferrato attraverso un trattato di pittura cinese (Vuoto e pieno di François Cheng) che per me è stato una sorta di manuale estetico.
Questo tipo di iconografia che cerca il vuoto e il fuori campo è ben presente nella fotografia italiana da sempre. Basta pensare a Ghirri oppure Guidi e Giacomelli.
Animale Umano è un film esteticamente scarno, un film monastico e probabilmente molto ambizioso per essere un’opera prima, un po’ come per il documentario che citavate prima “All’ombra della Croce” che la critica definì un esperimento kamikaze riuscito. Adesso ho in mente un secondo film, sempre con la produzione di Redibis Film, dove voglio depurare più a livello narrativo e approfondire il tema del paesaggio come specchio dell’anima.
In conclusione, Fandango (animale) e Matteo (umano) si incontrano in uno sguardo che vale tutta la bellezza del film e come dice Augusto il maestro: “Siamo tutti uguali, siamo tutti animali, viviamo e moriamo e tutto ciò non ha il minimo senso. Siamo carne, animali, non si può uccidere la morte”. Questa cruda verità ricorre spesso nel cinema contemporaneo. Credi anche tu ci sia questo senso di sconfitta per noi esseri umani? Non riusciamo davvero ad evolverci ma torniamo sempre ad uno stato di natura, animale? Tu, Alessandro Pugno come vedi il futuro di noi umani?
Per me lo sguardo finale tra i due protagonisti è emblematico perché in quello sguardo c’è tutta questa tragedia del rituale secolare della tauromachia dove migliaia di persone si radunano per assistere uno spettacolo in cui i due personaggi sono anche loro ingranaggi di questo teatro. E secondo me in questo sguardo c’è appunto questo riconoscimento dell’altro per la prima volta.
Citando Nietzsche: “La tragedia è la cosa più lontana che esista dal pessimismo.” Io credo profondamente che in questo film non esista la sconfitta per questi esseri animali/umani anche nonostante l’elemento tragico delle loro esistenze. Vedo piuttosto un sapore di “mancanza incolmabile”. Matteo, ma neanche César in fondo sono delle vittime perché arrivano alla fine a essere pienamente coscienti della loro condizione, e questo li porta a una sorta di redenzione. Non rivalsa, ma redenzione.
Qual è il nostro futuro umano? È difficile rispondere a questa domanda, io credo che sia importante per un artista fare domande più che dare risposte. Una cosa è certa, stiamo vivendo un momento di cambiamento epocale della società, un cambio di paradigmi. Come diceva Gramsci: “Il vecchio mondo sta morendo. Quello nuovo tarda a comparire. E in questo chiaroscuro nascono i mostri.”
Animale / Umano è in questo senso una fotografia di un’epoca di passaggio in cui cambiano i valori: pensiamo alla tauromachia, per esempio, è un mondo antico, crudele ma con codici definiti, dove la morte è semplicemente un elemento dell’esistenza. Quel che forse ci da più fastidio è la spettacolarizzazione della morte, qualcosa che non vogliamo vedere perché ci riporta alla nostra morte. Viviamo in un’epoca più sensibile ai diritti dell’altro tra cui a quelli degli animali, ma allo stesso tempo la morte, se ci pensi, è l’ultimo tabù.
Animale / Umano è un film proprio sulla lotta spirituale e carnale contro la morte. Ma come dicevo prima, e forse proprio per quest’elemento, è un film anche sulla compassione. Non tolleranza sia chiaro, compassione! Ho sempre cercato di fare cinema (pensiamo All’ombra della croce) provando a comprendere l’altro invertendo la prospettiva dello sguardo altrui. Alle volte è uno sforzo titanico ma penso che solo così possiamo iniziare un dialogo e un intendimento che secondo me è l’unica strada in una società polarizzata e ignorante.
Ricordo il formidabile sguardo di Goya nel quadro “Duello Rusticano” dei due villani che si prendono a botte e alle volte ho paura che finiremo così.
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