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Il Cinema Ritrovato

Pietro Germi: testimone scomodo di un cinema potente

Al Cinema Ritrovato una retrospettiva dedicata al cineasta genovese, che è riuscito a valicare diversi generi cinematografici con una testimonianza critica e scomoda nei confronti della società

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La XXXVIII edizione de Il Cinema Ritrovato ha proposto una retrospettiva intitolata Pietro Germi: testimone scomodo. Una piccola cernita di alcune sue opere che ben rappresentano il suo percorso registico/autoriale e la sua visione della società italiana.

È stato effettivamente un autore scomodo, difficilmente incasellabile. Non ha aderito al neorealismo, né successivamente alla commedia all’italiana. Sebbene la critica ha poi inserito diverse sue opere in predetti generi. Un percorso che sostanzialmente si potrebbe dividere in due parti: la prima tendente al drammatico, la seconda totalmente dedicata alla commedia.

Sostanzialmente una carriera non dissimile da quella di Billy Wilder, che non a caso apprezzava le commedie di Pietro Germi, fustigatrici di costumi proprio come quelle firmate dal duo Wilder e I.A.L. Diamond. Durante la carriera la critica italiana non è stata molto attenta alle opere di Pietro Germi, e soltanto successivamente “l’uomo con il sigaro in bocca” ha avuto il suo giusto posizionamento nella storia del cinema italiano.

Solido regista di genere, ha spaziato dal noir al poliziesco, dallo pseudo-western al road movie, fino a due inaspettati melodrammi tanto mascolini quanto passionali. Due opere nel quale è lo stesso Pietro Germi a vestire i panni del burbero protagonista.

Ma è stato anche testimone – alla sua maniera – della società italiana. Prima con toni cupi, tra accenni di neorealismo e approcci noir, poi attraverso la satira di costume. Uno sguardo, quello di Germi, accigliato, molto amaro. Lo si ravvisa principalmente nelle ultime opere, quelle meno riuscite. Serafino (1968) e Le castagne sono buone (1970) sono la testimonianza che Germi era legato a un mondo che stava scomparendo. Un mondo di piccole e genuine cose (ad esempio le castagne).

La retrospettiva su Pietro Germi: testimone scomodo tra dramma e commedia

Il Cinema Ritrovato ha proposto undici opere del regista genovese, andando ad esplorare nei diversi generi con cui si è confrontato. Una panoramica che consente di poter vedere come Germi, seppur “integerrimo” fosse invece un regista duttile, capace di abbracciare e sostenere un genere con determinati codici.

Se si scorre la breve cernita, salta all’occhio che sono state escluse anche due opere fondamentali, ovvero Un maledetto imbroglio (1959) e Signore e signori (1966). Due pellicole perfette per mostrare lo sguardo scomodo e testimone di Germi, ma si è preferito sostituirle con altre giunte prima e ugualmente efficaci.

La prima opera proposta è il cortometraggio, Scrittori e poeti anglosassoni a Roma (1947). Un unicum nella filmografia germiana, un breve documentario (circa 9 minuti), genere mai più ripreso dal regista, che rende omaggio agli alleati. È, diciamo, il tributo politico di Germi alla liberazione e alla cessazione della guerra.

Un modo, dopo l’apprezzato esordio con Il testimone (1946) d’ispirazione quasi metafisica, a uno stile vicino alla realtà. Testimoniare il presente. Aspetto che gli sarà utile con il successivo Gioventù perduta (1947), lungometraggio drammatico che racconta l’immediato dopoguerra.

La violenza e le privazioni della guerra hanno forgiato una gioventù divenuta cinica e abietta. Pellicola che nell’assunto è vicina al neorealismo, ma Germi con questa pellicola già si avvale del cinema americano. In questo caso il gangster movie. I giovani protagonisti sono dei piccoli delinquenti con atteggiamenti e modi da gangster. Uno sguardo cupo, che non lascia molte speranze a un risorgimento etico e morale.

Pellicola passata sotto le forche caudine della censura e di poco successo, Germi si riscatta con il successivo In nome della legge (1949). Primo sguardo del cineasta nella riarsa e chiusa Sicilia, è il primo film italiano in cui si parla di mafia. Non è una messa in scena neorealista, ma nel raccontare i problemi che affliggono la Trinacria, il regista usa moduli da western. L’aspro territorio siciliano è simile alle lande americane.

Contadini, proprietari terrieri e manovalanze, sono simili agli agricoltori, a fazenderos e ai banditi di tanti western del periodo. Mentre il magistrato Guido Schiavi (Massimo Girotti) è un proto sceriffo che arriva nella cittadina sotto scacco. Il fascino di Girotti non è dissimile da quello del giovane Henry Fonda.

Una pellicola che riusciva ad abbinare un discorso polemico e sociale con una messa in scena popolare, tanto che il film fu campione d’incassi della stagione.

E da quella Sicilia povera e abbandonata, Germi parte per intraprendere un road movie sul filo del neorealismo. Il cammino della speranza (1950) è una pellicola corale con cui il cineasta descrive il viaggio di alcuni disperati che cercano un presente migliore. Dal profondo sud fino al nord d’Italia. Un gruppo di uomini e donne, che parte compatto e lentamente si sfalda.

In un certo qual modo con questo film Germi ha dato il suo contributo al neorealismo, seguendo a suo modo, anzi, con gusto americano, l’idea zavattiniana del pedinamento dell’individuo. Pedinamento che diventa tallonamento con La città si difende (1951), noir di “serie B” con il quale Germi marca maggiormente il suo amore per il cinema a stelle strisce.

Una trama concitata nel quale i ladri fuggono dopo una rapina, ma come ogni noir che si rispetti, non tutto andrà bene. Fu una pellicola snobbata alla sua uscita e rivalutata soltanto decenni dopo.

Dopo questo squarcio realistico attraverso le atmosfere noir Germi, dopo il solido film storico Il brigante di Tacca del Lupo (1952) e due trasposizioni letterarie errate, collabora al collettivo Amori di mezzo secolo (1954). Film episodico incentrato su diverse storie d’amore del primo ‘900.

Il suo episodio, intitolato Guerra 1915-18, come evidenzia il titolo ambientato durante la prima guerra mondiale. In un certo qual modo torna quasi alle atmosfere siciliane de Il cammino della speranza, ossia l’amore di due giovani di umili origini contadine, in questo caso abruzzesi. Un episodio che anticipa di poco l’entrata nel melodramma di Germi, e con il quale può sperimentare per la prima volta le possibilità espressive del colore, ma che utilizzerà successivamente soltanto nelle ultime tre pellicole.

E l’amore e i suoi struggimenti sanno raccontati più ampiamente ne Il ferroviere (1956). È un melodramma mascolino, ambientato nel mondo operaio. Sul tipico sfondo di molto cinema neorealista, Germi indaga i sentimenti di questi personaggi, legati a certi valori e, non essendo borghesi, incapaci di comprendere totalmente i cambiamenti.

Una svolta nel suo cinema, e per dar maggior importanza al personaggio, con una sua visione politica e amorosa, è lo stesso regista a interpretare il protagonista. Come farà anche nel successivo L’uomo di paglia (1957), altro melodramma, e nell’indagine Un maledetto imbroglio.

L’importanza di questo tassello filmico nella filmografia del regista, è anche corroborato dal corto inedito Provini di Il ferroviere, nel quale vediamo come Germi si prepari alla parte. E in cui scopriamo come il cruccio principale fosse quello della voce. Il suo timbro non è impostato e questo consente una maggior aderenza tra Germi uomo e personaggio fittizio.

La retrospettiva poi salta alle pellicole che hanno dato successo internazionale al cineasta genovese. Un ritorno in Sicilia, ma questa volta con la formula della commedia. Divorzio all’italiana (1961) e Sedotta e abbandonata (1964). Due opere che vanno quasi considerate come un dittico.

Giocando – e rinfocolando – sui luoghi comuni che permeano la società siciliana (gelosia, amanti focosi, omertà, corna, ecc.), Pietro Germi si scatena mettendo in scena due film che fustigano e irridono quegli usi e costumi. Un modo di fare che è molto prossimo alle commedie di Billy Wilder, nel quale non ci sono finali – totalmente – felici.

Con Divorzio all’italiana ebbe tre candidature all’Oscar e vinse per la miglior sceneggiatura. Con Sedotta e abbandonata a Cannes il protagonista Saro Urzì (funzionante solo nei film di Pietro Germi) ottenne la la Palma per la miglior interpretazione. Il primo film fu anche soggetto a un remake americano: Divorzio all’americana (Divorce American Style, 1967) di Bud Yorkin e parodiato con Divorzio alla siciliana (1963) di Enzo di Gianni e con Tiberio Murgia.

Sedotta e abbandonata fu parodiato dalla coppia Franchi e Ingrassia, ma solo nel titolo: Sedotti e bidonati (1964) di Giorgio Bianchi. Mentre Saro Urzì, come perfetta immagine di padre-boss sarà scelto da Francis Ford Coppola ne Il padrino (The Godfather, 1972) per il ruolo di Don Vitelli.

La commedia come strumento per frustare società e individui sarà utilizzata ottimamente anche in Signore & signori (1966), vincitore della Palma d’oro a Cannes ex-aequo con Un uomo, una donna (Un homme et une femme, 1966) di Claude Chabrol. Questa volta per irridere, attraverso un racconto corale, i vizietti ipocriti del popolo veneto.

Il film suddetto non è presente nella retrospettiva e gli si è preferito L’immorale (1967). Anch’essa per lungo tempo è stata un’opera accolta malamente, per poi essere rivalutata nelle decadi successive. Una commedia forsennata nel ritmo, però con toni più cupi. A tratti immorale, ma sostanzialmente con una visione morale. Il protagonista, sebbene bigamo, è un uomo ammirevole.

Rispetto alle pellicole precedenti pare un film di Marco Ferreri, anche perché il protagonista è Ugo Tognazzi, nel solito ruolo di maschio italico approfittatore e volubile. Non è da escludere che l’idea del film possa esser venuta a Germi dopo la visione di A proposito di tutte queste…signore (För att inte tala om alla dessa kvinnor, 1964) di Ingmar Bergman. Ossia la scena del funerale, nel quale tutte le donne del protagonista vanno al capezzale a renderli ossequio.

Purtroppo già questa pellicola segna che il cinema di Pietro Germi sta perdendo la sua forza di testimonianza e di scomodità. Le successive due pellicole fanno ottimi incassi, ma sono melense storie d’amore. Mentre Alfredo Alfredo (1972), che dovrebbe far tornare i fasti di Signore & Signori, è una commedia appesantita da una trama che non riesce a sferrare i giusti fendenti beffardi.

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