Charlotte Rampling è una delle più grandi icone del cinema contemporaneo. Dall’indelebile immagine di lei con il cappello nazista e il seno nudo solcato solo dalle bretelle del Portiere di notte fino a una delle Bene Gesserit del recentissimo Dune, Charlotte Rampling ha attraversato decenni di cinema, lavorando nel miglior cinema europeo e americano. Dall’inimitabile ed estenuato estetismo viscontiano di La caduta degli dei ai più grandi autori del cinema americano, come John Boorman, Sydney Lumet, Woody Allen o il francese François Ozon. Un’attrice che ha sempre vissuto con suprema eleganza trasgressioni e polemiche, forte di un’unicità attoriale che ha fatto di lei un’interprete senza tempo, dimostrando che il talento, la passione per il cinema, il gusto delle scelte anche audaci non si spengono mai con gli anni.
L’abbiamo intervistata come prestigiosa ospite dell’Ischia Film Festival.
Siamo a Ischia, luogo caro a un regista italiano che la volle per La caduta degli dei (1969), Luchino Visconti. Che ricordi conserva di quella esperienza?
Quello con Luchino Visconti non fu il primo film che feci in Italia. Avevo già girato con Gianfranco Mingozzi Sequestro di persona (1968), insieme a Franco Nero. Fu quella la mia vera introduzione al cinema italiano. Era un film fantastico, che mi ha fatto conoscere un cinema nuovo che, per me, è diventato molto importante negli anni. Mi piaceva il modo in cui lavoravano i registi italiani. Riguardo La caduta degli dei, avevo vent’anni all’epoca e avrei dovuto interpretare una donna più grande di me, con una certa maturità, due figli. Era un personaggio molto drammatico e intenso. All’inizio non ero sicura fosse il ruolo giusto per me, ma Luchino Visconti mi rassicurò. Durante le riprese, sin da principio, mi lasciai guidare dalle forti emozioni del personaggio, dandomi completamente. A Visconti questa cosa piacque e mi lasciò fare, consegnandomi poche indicazioni, guidandomi solo per raffinare alcune cose secondo il suo gusto.
Sequestro di persona
In effetti, dopo un inizio di carriera in Inghilterra, ha fatto diversi film in Italia negli anni ‘70. Che atmosfera c’era?
Quel periodo, per me, è stato molto importante, perché avevamo tutto ciò che volevamo per fare film. Forse non un grande budget, a parte Luchino Visconti (che sembrava poter avere soldi per fare qualunque cosa volesse realizzare), ma si trattava della libertà artistica. Era questa la parte fondamentale, che consentiva un modo di fare film molto diverso da quello americano, dove erano più i produttori ad avere l’ultima parola e, alla fine, tagliavano anche il film. Gli italiani, i francesi, gli europei in generale, hanno potuto esprimersi molto liberamente all’epoca. E poi l’Italia sembrava un posto dove la creatività non aveva limiti e la bellezza fosse ovunque.
Quanto ha amato e odiato il suo ruolo nel Portiere di notte (1974) che l’ha trasformata in un’icona del cinema e dell’erotismo?
Alla fine Il portiere di notte racconta, a suo modo, una storia d’amore, quindi ho adorato il film. Voglio dire, i protagonisti volevano continuare questa relazione. Ecco perché, in un certo senso, è stato un film così difficile da accettare, perché ambientato in un momento molto importante e particolare della storia e la gente non voleva pensare che una cosa del genere potesse accadere. Tutto inizia in un campo di concentramento, ma poi diventa una libera scelta. Forse infrangeva un tabù e, per questo, ha suscitato forti reazioni. E poi aveva un grande stile visivo. L’erotismo è trasgressione e mi aiuta nel mio mondo creativo.
Stardust Memories
All’inizio degli anni ‘80 ha lavorato in due grandissimi film americani. Uno dei più belli, autobiografici e introspettivi di Woody Allen, Stardust Memories (1980) e nel magnifico Il verdetto (1982) di Sidney Lumet con Paul Newman. Che ricordi ha di questi set e di questi meravigliosi artisti?
Erano il meglio del cinema americano, quei film. Molto diversi dagli altri, ma anche uguali, per altri versi, nel senso che riguardavano la realtà americana, ma non erano storie in stile hollywoodiano. Perché Woody Allen e Sidney Lumet lavoravano al di fuori di Hollywood. Erano film indipendenti e, quindi, liberi. Ma neppure loro avevano il final cut.
Tra i suoi ruoli anche una commedia surreale di un altro maestro come Nagisa Oshima, Max mon amour (1980), sul tema del ménage a trois. Che ricordi conserva di quel film?
In un certo senso, è un film che puoi confrontare con Il portiere di notte. Sei una guardia nazista e poi ti innamori della tua vittima e viceversa. Nel film di Nagisa Oshima a una donna succede d’innamorasi di uno scimpanzé e di portarlo a casa sua. Sono storie piuttosto strane, che riguardano le differenze. Riguardano ciò che accade a un individuo, perché l’esperienza che hai delle volte ti fa fare scelte straordinarie che possono anche non essere necessariamente corrette. Ovviamente, Il portiere di notte è stato bandito. Hanno detto no, no, no, questo non può succedere. Alle creature di Max mon amour pure accadono cose strane a cui si vuol dire di no. Ma come osiamo giudicare queste esperienze a meno che noi non siamo dentro quell’esperienza? Alcuni registi ci mostrano cose che non vogliamo necessariamente accettare. Il film di Liliana Cavani aveva qualcosa di torbido, mentre quello di Nagisa Oshima è stato molto divertente girarlo. Ci ha messo dentro tanto umorismo, che è davvero necessario.
Il portiere di notte
Un regista con cui ha lavorato molto negli ultimi è il francese François Ozon, con cui ha fatto ben quattro film: Sotto la sabbia (2000), Swimming Pool (2003), Angel (2007) e Giovane e bella (2013). Che cosa le piace di più di lui e dei suoi personaggi?
Non so di preciso. Lui fa un cinema molto accessibile, pieno di luce e buio, sempre. Ha un suo ritmo tra la luce e l’oscurità, rendendo i film piacevoli e accattivanti. Ti interroga ogni volta, ha un’intelligenza meravigliosa. I suoi film funzionano, nonostante ne faccia più di uno all’anno, come Woody Allen.
All’Ischia Film Festival presenta Juniper (2021) di Matthew Saville. Che cosa l’attirava di più di questo ruolo?
È un personaggio che un po’ mi somiglia, è in parte me. Una persona che ha seguito per tutta la vita la sua vocazione, ma trascurando la famiglia e torna per farci i conti.
Com’è stata l’esperienza per un kolossal come Dune (2021-2024)?
In realtà, il primo Dune avrebbe dovuto essere realizzato da Alejandro Jodorowsky, che mi aveva chiesto d’interpretare il personaggio di Jessica, perché avevo la sua l’età. Poi l’ha fatto David Lynch e non mi ha coinvolto. Quando Denis Villeneuve disse che avrebbe fatto una sua versione di Dune, sembrava ovvio che fosse qualcosa che dovevo fare. Anche un piccolo ruolo, ma dovevo far parte di questo film. Molte persone neanche sanno che ci sono, poi lo scoprono, devono scoprire cosa c’è dietro la maschera che a lungo mi ricopre. Soprattutto la generazione più giovane che non conosce la mia voce. Diventa un viaggio di conoscenza nel tempo, scoprono chi sei, scoprono cosa hai fatto prima. È affascinante, ora posso dire di essere abbastanza conosciuta anche da spettatori molto giovani.
Lei sembra un’attrice senza tempo, con grandi ruoli dagli anni ‘70 a oggi. Che rapporto ha con la sua immagine al cinema?
Non ho mai voluto esserne consapevole. So che avevo un certo modo di essere, ma non ho mai voluto studiarlo, non ho mai voluto guardarlo. Non ho mai voluto che fosse qualcosa che mi guidasse, perché tutto deve partire dal cuore. È una connessione che ottengo e che arriva attraverso di me, da qualche altra parte, non da me che mi guardo e dico «oh beh, potrei fare questo, potrei fare quello, forse potrei, forse potrei, no». Aspetto che arrivi una sfida, che sia una sceneggiatura di qualcuno, un regista che incontro e da lì scatta un istinto che dice questa è la mia prossima mossa. Sento che sta succedendo qualcosa con il ruolo che sto già interpretando e con il regista che mi dirigerà. E poi ci entro. È come una comprensione quasi inconscia di qualcosa che scoprirò, ma che non so ancora.
Dune – Parte due