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Interviews

Dobbiamo contribuire materialmente e spiritualmente al benessere del nostro Paese. Intervista a Elio Germano

Dalla visione artistica all'impegno civico fino al loro combaciare, poiché «l'arte è una forma di servizio alla comunità»

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Grazie alla Mediapartnership con il Pigneto Film Festival, abbiamo avuto il piacere di intervistare Elio Germano, uno degli attori più talentuosi e sinceramente impegnati nel panorama cinematografico italiano.

In questa occasione, Germano ha condiviso con noi, non solo la sua visione artistica, ma anche il senso del suo profondo impegno sociale.

Conosciuto per le sue interpretazioni intense e autentiche, Elio Germano si distingue da sempre per il costante impegno nel dare voce a tematiche sociali attraverso il suo lavoro.

Durante l’intervista, ha parlato della partecipazione a progetti che mirano a sensibilizzare il pubblico su questioni di giustizia sociale e diritti umani, come il nuovo progetto con Theo Teardo che porterà all’Auditorium un importante testo di Gino Strada.

Ha parlato del coinvolgimento con organizzazioni come Emergency e dell’importanza di utilizzare la propria visibilità per promuovere il bene comune.

L’attore ha sottolineato come la sua carriera è stata caratterizzata da scelte spesso controcorrente, dettate dalla volontà di mantenere la libertà artistica e di contribuire positivamente alla società.

Tutto con le sue innate eleganza e naturalezza. Sentirlo parlare quasi come un leader politico, senza fare minimamente una promozione commerciale dei propri progetti, è stato un vero privilegio.

Germano ha condiviso storie sulla sua esperienza nel mondo del cinema e del teatro, raccontando come riesce a coniugare la passione per la recitazione con l’attivismo sociale e con la musica, oltre a un tenero ricordo dei nonni materni che, emigrati dal Molise, sono stati una chiave di volta nella sua formazione artistica. Questa intervista offre uno sguardo privilegiato sulla figura di Elio Germano, non solo come attore, ma anche come cittadino, capace di valorizzare l’arte come strumento di cambiamento sociale.

Elio Germano al Cinema Aquila durante il Pigneto Film festival. Foto di Giovanni Battaglia

Cosa significa per te essere di sinistra?

Rispondo anzitutto da un punto di vista puramente politico: credo che la sinistra dovrebbe ricordarsi del concetto di collettività, andando oltre il pensiero liberista e riscoprendo il senso di condivisione e comunità. La differenza fondamentale sta in una visione del mondo basata sulla condivisione, piuttosto che sulla competizione e sui privilegi.

Rispondendoti da artista, mi interessa esplorare e stimolare le persone attraverso il mio lavoro. Oggi, le persone sono assuefatte dai media, abituate a scandali e soprusi che vedono costantemente in televisione. L’aspetto emotivo che scaturisce dalla visione di immagini è centrale.

Sono colpito da come la guerra in Ucraina sia entrata nelle nostre vite attraverso le immagini, sdoganando il tabù delle armi e facendo apparire la guerra come un videogioco, con droni e bazooka ripresi in azione.

Questa fascinazione per la guerra, inizialmente vista come un videogioco durante la Guerra del Golfo, si è normalizzata e ora discutere di armi è diventato più comune. Questo fenomeno ha ridotto l’impatto emotivo delle immagini di violenza, come le decapitazioni dell’Isis, che oggi ci sconvolgono meno rispetto alle prime volte.

Cinema e teatro offrono un’esperienza diversa, poiché coinvolgono le persone in un contesto di condivisione fisica ed emotiva, spesso portando a reazioni più autentiche, come il pianto. Questo è già una piccola rivoluzione in un mondo dominato dai giudizi.

Nel mio lavoro, cerco anche di portare le persone a vivere esperienze fisiche e immersive. Ad esempio, con le mie installazioni recenti, voglio che superino la loro protezione emotiva e si immergano in esperienze forti.

Ho creato installazioni all’aperto, come a Scarlino e Ravenna e recentemente in provincia di Modena, in cui ricostruisco ambienti sonori e coinvolgo il pubblico in esperienze fisiche intense.

Una delle mie installazioni si basa sul libro di Folco Terzani, “A piedi nudi sulla terra”, che racconta la storia di un sadhu italiano. Abbiamo ricostruito gli ambienti sonori e io interpreto la sua voce, creando un’esperienza immersiva con il fuoco sacro e i tappeti, simile a quella di un baba indiano.

Sono quattro o cinque ore di audiolibro, dal tramonto alla notte, ed è la storia della sua vita di fronte al fuoco… se ci pensi, la cosa più ancestrale con una persona che ti racconta la sua vita sotto le stelle davanti al fuoco.

… L’inizio dello Storytelling…

… Esattamente

Tu sei molto geloso della tua privacy e quello che traspare dalle interviste è che, a parte i racconti del passato, tu non voglia parlare della tua vita privata. Però, in realtà si sa più di te che di quelli che parlano delle proprie vicende personali perché non hai paura di esporti.

Sì, hai ragione, è così!

C’è qualcosa che ti sei sentito costretto a fare all’inizio della tua carriera? 

É stata tutta una conquista. Nel mio caso, devo dire che non ho mai avuto un ufficio stampa;  quindi, mi sono sempre concentrato sul lavoro. Questa cosa non era riconosciuta, né a livello di guadagni né di visibilità. Non si parlava di me perché non investivo soldi per far parlare di me.

Non volevo fare di me stesso un prodotto; per me, l’autonomia e la libertà sono le cose più importanti nella vita. Comunque, all’inizio, accettavo di fare tutto, dalle pubblicità a qualsiasi altro lavoro, spesso senza compenso, perché il lavoro è lavoro e c’è un’etica da rispettare. Non si trattava di scegliere o poter scegliere: era già un miracolo essere chiamati e richiamati.

Purtroppo, questo è un lavoro appeso alla completa incertezza. Ad esempio, fai un film e ti danno l’equivalente di 10.000€, ma metà va in tasse, e poi quanto ti dura?

Elio Germano al Cinema Aquila durante il Pigneto Film festival. Foto di Giovanni Battaglia

Ricordi quando Carlo Verdone disse quella frase: “In questa sala non ci saranno più di cinquanta persone che vivono del proprio lavoro serenamente senza chiedere soldi ai genitori”.

Io sono tra i fortunati. Purtroppo, il cinema versa in queste condizioni. È dura, per cui uno deve sperare. Il problema è la continuità. Uno può avere delle fiammate di successo, essere perfetto per un ruolo, o essere notato per strada. Ma il vero problema è mantenere la continuità.

Parlando dei diritti connessi ai diritti d’autore nel cinema, in Italia sembra ci siano ancora molte zone d’ombra. Come affrontate questa questione?

In Italia, i diritti connessi ai diritti d’autore sono spesso trascurati, specialmente per quanto riguarda i compensi relativi alla trasmissione delle opere. Questo problema esiste anche a livello europeo, ma qui sembra più marcato.

Proprio per questo motivo, è nata l’iniziativa 7607, per cercare di risolvere la situazione.

La legge prevede che le emittenti, le tv o le piattaforme, debbano pagare, al di là di quello che fa lo stato a sostegno degli artisti. In pratica non succede quasi mai o comunque la situazione non è mai chiara.

Qual è la protezione offerta agli artisti?

Esiste una legge a livello europeo che prevede protezioni per gli artisti, ma i soldi derivanti dai diritti non sempre arrivano dove dovrebbero.

In Francia, ad esempio, esiste un sistema, L’intermittence, che riconosce il carattere precario del lavoro artistico, supportato dallo Stato. In Italia, questa continuità è più difficile da ottenere.

C’è stato un momento nel quale hai sentito che finalmente i tuoi sforzi erano stati ripagati e la carriera aveva preso la piega che volevi?

All’inizio della carriera, poter dire di essere un attore, farsi riconoscere ed essere chiamato a lavorare è già un miracolo.

Quando inizi a lavorare con più continuità, puoi finalmente sentirti legittimato a presentarti come attore agli amici, persino davanti ai tuoi genitori o addirittura scriverlo sulla carta d’identità perché prima ti vergogni in quanto hai sempre la scritta studente.

Poi arriva quella volta che ti offrono due cose insieme, oppure ti offrono quella cosa che ti crea problemi e iniziano i rifiuti, perché pensi che sia troppo screditante per te dal punto artistico e quindi puoi scegliere.

Come si gestiscono le offerte di lavoro quando si raggiunge una certa notorietà?

Inizi a ricevere offerte per progetti che possono non allinearsi con la tua visione artistica o che sono troppo commerciali.

Ho vissuto la fase in cui mi offrivano ingaggi pubblicitari molto remunerativi, ma dopo aver fatto alcune pubblicità a basso costo, ho capito che non era ciò che volevo. La gente ti riconosce per il prodotto che pubblicizzi, e questo può essere traumatico perché letteralmente ti chiamano con il nome del prodotto per strada…

Ho rifiutato offerte pubblicitarie molto vantaggiose economicamente, anche di gran lunga superiori a cachet per fare dei film che mi piacevano.

Ma il trauma di essere associato a un prodotto era troppo forte.

Mi sono domandato: “Alla fine, tutto questo sacrifico nella vita, per cosa lo devo fare? Per guadagnare dei soldi che poi devo usare per scappare dal mio paese, per andare magari in sud America due o tre anni, per sfuggire allo stress del trauma per guadagnarli?”

Come riesci a mantenere la libertà artistica?

La libertà artistica per me è fondamentale. Anche se ora mi offrono più lavori, ho la fortuna di poter scegliere. A grandi line cerco di fare un film remunerativo all’anno e poi dedicarmi a progetti più sperimentali.

Mi piace proporre progetti teatrali e ottenere finanziamenti per piccole produzioni, come è stato per il film di Michele Riondino. Questo mi permette di tornare all’essenza del mio lavoro e contribuire alla collettività, come dovrebbe essere. L’arte dovrebbe arricchire la collettività.

Dovrebbe essere quello il lavoro di tutti: il modo in cui contribuiamo al benessere della comunità, mentre la prima cosa su cui ci hanno inebetito è esattamente il contrario, cioè che il primo obiettivo è sfruttare la comunità per fare i soldi per il nostro tornaconto.

È un concetto presente anche nella nostra Costituzione:  “Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’ attività o una funzione che concorra al progresso materiale e spirituale della società”.

Quando il tuo lavoro è un servizio per gli altri, trovi il vero piacere nel farlo. Quindi è anche un concetto egoistico perché trovi il piacere quando fai quello che sai fare bene. Per questo motivo mi dedico al teatro e a progetti che sento veramente miei, come quelli con Emergency.

L’arte è una forma di servizio alla comunità e, paradossalmente, meno sono i soldi coinvolti, più sei libero di esprimerti.

Quando scelgo inseguo il piacere come con il gruppo musicale Bestierare, che ormai porto avanti con la stessa formazione dalla fine degli anni Novanta.

Se prima potevo avere una visione un minimo carrieristica, invece adesso il metro è proprio il piacere. Cerco di domandarmi: “Dove posso essere più utile?”

A questo proposito, a settembre faremo la prima all’Auditorium del testo “Una persona alla volta” di Gino Strada; ne faremo una versione con Theo Teardo.

E qui mi sento utile.

Gino Strada dice delle cose talmente impattanti e purtroppo contemporanee sulla propaganda mediatica rispetto alla guerra.

Storicamente è stata dimostrata la sua inutilità ed il suo incredibile costo e detto da una persona che ogni volta è partita per sistemare dei pezzi smembrati di esseri umani ha più credibilità di me. Questa società è fondata sul privilegio, sulle prevaricazioni, sulle diseguaglianze.

Parliamo un po’ del tuo passato. Tua nonna ha avuto un ruolo importante nel tuo percorso, vero?

Sì, è grazie a mia nonna se ho iniziato. I miei nonni erano molisani e negli anni ’50 non avevano il permesso di soggiorno per stare a Roma.

All’epoca se non eri romano per lavorare dovevi avere un permesso di soggiorno.  Poi ci si domanda perché io mi senta così affine alle persone che arrivano in Italia sui barconi e hanno bisogno del permesso di soggiorno. Mia nonna, incinta di mia madre, e mio nonno vivevano in condizioni precarie:  lavoravano come portieri e domestici.

In quel condominio, c’era l’attrice Jole Silvani che frequentava Paolo Poli. Erano conosciuti da tutti come “gli attori” e si fidavano molto dei miei nonni per sbrigare faccende domestiche.

Quando volevo iscrivermi a una scuola di teatro, mia nonna si ricordò di loro e andò a chiedere consiglio. Paolo Poli consigliò il Teatro Azione, una scuola seria dove mi sono formato.

All’epoca, negli anni Novanta, con l’esplosione della pubblicità, era importante un consiglio di una persona di fiducia per scegliere una scuola di qualità.

C’è qualcuno oltre a tua nonna e Paolo Poli a cui devi il tuo successo, qualcuno a cui ti senti di dire grazie?

Sicuramente Cristiano Censi e Isabella Del Bianco, insegnanti della scuola di teatro.

Ho studiato con loro per tre anni, full immersion. Mi hanno fatto capire che volevo fare l’attore. Ovviamente, la scuola è solo l’inizio e poi si prendono strade diverse, ma è stata fondamentale per il mio lavoro.

Come ti sei adattato al passaggio dal teatro al cinema?

È stato un po’ traumatizzante. La scuola di teatro mi ha preparato bene, ma il cinema è un’altra cosa. Ci sono scuole di cinema, come la Gian Maria Volonté, che prevedono stage sui set, aiutando molto con l’aspetto pratico.

Io ho dovuto recuperare col tempo, imparando a lavorare davanti alla macchina da presa, dove il linguaggio è diverso.

A teatro, il volume e la chiarezza sono fondamentali, ma al cinema se fai un provino con quella emissione vocale può risultare ridicolo. È tutto un altro approccio perché cambia il linguaggio.

Poi al cinema un conto è il campo largo ed un conto è il campo stretto. Se stai con la macchina addosso devi fingere di fare certi movimenti perchè sei inquadrato solo negli occhi e queste sono cose che impari a seconda dello strumento che serve.

Parliamo del tuo ruolo in Palazzina LAF. Come sei stato coinvolto?

Sono stato coinvolto quando Michele mi ha chiesto di fare il protagonista.

Quindi dovevi essere tu Caterino?

Sì, mi ha fatto leggere la sceneggiatura, non nella versione finale, ma  già ben definita. Non sono stato coinvolto nella parte progettuale. Essendo un film piccolo, ho cercato di convincerlo a fare lui il protagonista per facilitare il coinvolgimento di altri attori in ruoli minori.

Sono molto contento di questo film che, pur non avendo una grande forza distributiva, è andato bene grazie anche alla vincita del David che lo ha fatto uscire ancora in sala e grazie a Michele che è andato tantissimo in giro per sostenerlo.

Quando il film è stato presentato alla festa del cinema di Roma, è stato molto emozionante poter ascoltare le parole di Giuseppe Palma, uno dei confinati nella palazzina Laf.

Michele ha creduto molto in questo piccolo ma importante film. Sono contento di averne fatto parte. Sono quelle cose che dicevo in cui mi sento utile.

Ancora più contento di averlo convinto a invertire i nostri due ruoli. Orgoglioso di aver previsto la performance attoriale di cui Michele è stato capace come protagonista, e che ci ha regalato.

 

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