Non un’intrusione, non un esperimento sociale e neanche un manifesto- denuncia ma tutto il romanticismo di un sogno. Jump Out è un’elegia, un componimento audiovisivo investito di poesia, verità cruenti taciute e tanta speranza.
Nika Šaravanja si rende narratrice silente e rivolge le telecamere verso il basso, testimoniando la storia di piedi usurati, polvere e occhi curiosi. La regista col suo nuovo documentario, Jump Out, propone al pubblico scorci di vita seguendo i passi frenetici e titubanti ma temerari della gioventù kenyota. In mostra alle 21:00 nella serata di oggi 2 luglio al Chiostro Sant’Anna al Sole Luna Doc Film Festival, festival internazionale dedicato all’universo dei documentari.
Sinossi
Pandemia COVID-19, le scuole sono chiuse e la boria prende il soprassalto. Il film riprende tre ragazzi di South Kariobangi, uno dei quartieri più indigenti di Nairobi, nella loro routine ordinaria passata a vagare per il quartiere con amici nella spensieratezza dell’infanzia. Ogni giornata però è alimentata da una costante: divenire acrobata professionista. Ammirato da molti, Steve, è un acrobata autodidatta che ha istituito un corso per i giovani dell’area, improvvisato ma non casuale né inesperto. I nostri piccoli eroi, come discepoli, passano pomeriggi tra risate e allenamenti, giochi di strada e allenamenti, conversazioni auliche e allenamenti. La meta dei loro sogni? Essere selezionati dal gruppo dell’allenatore per viaggiare, girare l’Europa con le proprie performance acrobatiche.
“Sono contento di essere chiamato bambino, figlio. Sai perché? Perché siamo tutti bambini.”
“Ognuno è il figlio di qualcuno, anche tuo padre.”
Ci riusciranno?
Cos’altro nasconde questo sogno, tanto palpabile quanto inarrivabile?
Cos’altro sa raccontare la pellicola?
Seguiamo Ian, suo fratello maggiore Marcus e il migliore amico Promise chiamato Pro. Entriamo nelle loro case, adottiamo i loro ritmi, facciamo il pisolino con loro e da adulti sudiamo freddo nel vedere la nonchalance con la quale giocano con il fuoco, letteralmente.
La chiave di successo del documentario sta nella sua consapevole scelta di tirarsi fuori dalla prolifera lista di lungometraggi di firme straniere che tentano una prolissa argomentazione di denuncia sulla povertà dell’Africa, sulle sue questioni geopolitiche o classiste.
Nika Šaravanja elabora un contenuto del tutto provocatorio e ribelle
senza sfruttare immagini dei protagonisti in condizioni poco dignitose, senza la scia di una vulnerabilità forzata che verta al senso di colpa, senza interrogatori tediosi sul loro stile di vita che tanto si allontana da quello che lo spettatore considererebbe ideale. Jump Out è sovversivo per la sua scelta – purtroppo poco comune – di mostrare la gioia, mostrare la tenacia, la spensieratezza di un’Africa che sorride, che balla in piazza, che scherza amorosamente con le sue madri ed è rincuorata dai suoi padri; un’Africa che non si mette in ginocchio, che non implora aiuto, un’Africa felice col suo sole cocente o con le sue imperdonabili piogge. Questa è la storia di tre ragazzini che hanno un sogno.
Già nelle prime battute del documentario siamo voyeur di una tipica conversazione tra i due migliori amici Ian e Pro presi dal fantasticare su un futuro incerto e lontano.
“Se avessi 1000 € cosa ci faresti?”
-“Nella nostra casa siamo in tre quindi non posso usare tutti quei soldi per me stesso”
-“[…]possiamo costruire una casa per i nostri genitori […] e solo allora una casa per me stesso”
Quanti di noi in età adulta hanno avuto la sensibilità e la generosità di dedicare pure la mera immaginazione alla propria famiglia?
Jump Out, non solo nelle parole
I due fanciulli strabordano bontà d’animo in ogni gesto, senza pretese o costrutti dettati dalla telecamera; sono ancora troppo giovani per conoscere la finzione e mettere su un personaggio. Il modo in cui interagiscono con le riprese beffeggiando la differenza linguistica, mostrano i loro sorrisi più puri alla cinepresa strappandoci all’illusione delle tre pareti del cinema; il modo in cui preparano latte caldo per la nonna o fanno i furbi per non dover farsi la doccia – per qualche strano motivo è un momento della giornata così odiato dai più piccoli senza distinzione di nazionalità – tutto grida benevolenza.
Jump Out, dall’inglese si tradurrebbe in saltar fuori, saltar via o addirittura buttarsi. L’intuizione del legame tra il titolo del documentario e l’arte acrobatica non può sfuggire, ma il film si dimostra essere molto più di capriole e piramidi perigliose.
Riuscire a saltare fuori dai propri confini
Dai tramonti del proprio paese per scoprire nuove tinte, saltare via dai disagi e limiti che la vita ha imposto; buttarsi in una nuova impresa nonostante le parole o azioni demoralizzanti altrui, buttarsi dall’alto senza paura di schiantarsi. La pratica acrobatica è una questione di fiducia, in se stessi e nel proprio compagno. Ian, Pro e Marcus, tra un fallimento e una pacca sulla spalla, ci insegnano a riporre fiducia nella vita.
I corridoi stretti, le pareti fatiscenti, le strade zeppe, i ciottoli, le polveri: nulla sembra soffocare la loro gioia di vivere.
Jump Out, la speranza e il sogno dei bambini non hanno occhi corrotti
I bambini non hanno il vizio di eleggersi a giudici, sono impazienti ma leali al tempo, guardano al mondo con fantasia che non si distingue dalla realtà.
Nell’immaginazione immortalata dalla regista, non ci sono diavoli né inferno, la carne è devota allo scopo della vita, si consuma come i calzini lisi dei bimbi, si accende ad occhi aperti e riposa quando le palpebre si chiudono.
Jump Out, un tributo alla vita, conosce anche la morte
Il documentario avanza un realismo emotivo ed emozionante.
Alcune sequenze cambiano grana e saturazione, all’improvviso è tutto offuscato come se si fosse trasportati in un vortice di vulnerabilità. Il fuoco si trasforma. Laddove piogge di scintille e fiamme rappresentavano uno strumento di divertimento per i piccoli tra le strade di Nairobi, candele e lanterne volanti infondono ora un alone di sacralità. I movimenti della telecamera raggiungono meandri onirici esplorando il confine tra liminale e profano. Le inquadrature sono confuse mentre il soggetto sfocato attraversa la navata di una Chiesa, le visioni sono segmenti di sublime e numinosa emotività che ispirano timore e reverenza per il risvolto della storia che suggeriscono.
A tratti stucchevole, il film si mantiene emotivamente onesto e non strumentalizzato. Si fa da parte senza mai insistere sancendo un equilibrio tra la tragedia di una vita stroncata e la dolcezza di una vita ben vissuta.
Il momento di lutto osservato è in giustapposizione con il contributo musicale Together di Bunny Wailer del 1985 che fa mancare il respiro nelle parole
“the more we live together the happier we shall be”
Jump Out coinvolge a livello primordiale, volta le spalle alla lista di film che sfrutta le condizioni precarie dei paesi del terzo mondo fingendosi attivisti, la morte di bambini per fare leva sulle paure moderne e gonfiare materiale di infima qualità sul piano della drammaturgia per coltivare nelle persone cinismo.
“Qual è la prima cosa che farai quando atterrerai?”
“Sorriderò.”
“Perché?”
“Solo per il piacere di farlo. Sorriderò o riderò.”
Forse risulta puro perché non ha l’arroganza di sottomettere la storia dei singoli bambini alla guida saccente e autoritaria degli adulti.
Nika Šaravanja nel suo documentario Jump Out rincorre bambini ossessionati col mangiare canna da zucchero tra mucchi di macerie con scarpe senza lacci camminare nella verità, una via che non risparmia loro lutto o corrente elettrica instabile, eppure nonostante i numerosi blackout, loro sono figli della luce, figli della speranza e della fede.