Jaima è la tipica tenda dei popoli nomadi nordafricani e quella del deserto marocchino, in particolare, è molto semplice: al centro ha un bastone di legno che sostiene la copertura, realizzata con un tessuto che può essere di pellame di capra o di dromedario, il pavimento è ricoperto da tappeti. Da questa umile abitazione prende il nome il documentario di Francesco Pereira, che verrà proiettato al Sole Luna Doc Film Festival di Palermo, sabato 6 luglio, alle 22h30, presso il Chiostro di Sant’Anna.
Riflettori sul deserto, sulle storie dimenticate di alcuni dei suoi abitanti e racconti intorno ad una bevanda che unisce, fa socializzare, trasmette usanze e tradizioni.
Il tè racconta: tre tazze e un pizzico di filosofia
Il tè catalizza emozioni, raccoglie gli ospita intorno a un tavolo o un focolare, in molti luoghi del mondo aiuta a concludere trattative. Aiuta a prendersi una pausa, a fare pace, a farsi sentire meglio, a iniziare o concludere una giornata.
Il tè è un rito, serve tempo, pazienza e passione. Scalda cuore ed anima, ha il potere di raccontare leggende, riti, usanze e guerre. Le tre tazze di tè, poi, sono un legame del mondo con il mondo. Ricorderete Tre tazze di tè di Greg Mortenson e David O. Relin, il racconto di Morteson, infermiere di professione e alpinista per passione che, durante una scalata del K2, si perde e finisce, per caso, nel villaggio pakistano di Korphe, dove viene accolto e rimesso in forze dai suoi abitanti che lo trattano, per tutto il suo soggiorno, come un ospite d’onore. Qui incontra Haji Ali, capo del villaggio che gli dice
“La prima volta che bevi un tè con uno di noi sei uno straniero, la seconda un ospite onorato, la terza sei parte della famiglia”.
Le tre tazze di tè delle dune del Sahara
Altre sono le tre tazze di tè del Sahara. E Jaima, di Francesco Pereira lo racconta con grande intensità, sensibilità e passione. Al punto che per girare il documentario, selezionato nei Pardi di domani del Locarno Film Festival e vincitore del Foreign Visa Award alla 38ª edizione del Festival international du film de Fribourg (premio dedicato alla miglior opera proveniente dalle scuole di cinema svizzere), Pereira, durante il suo percorso di studi al Cisa, Conservatorio Internazionale di Scienze Audiovisive di Locarno, insieme a una troupe formata da altri ragazzi in formazione (il cameraman Noel Saavedra e il sound designer Davide Londero), ha lavorato sul posto per un mese, anche coinvolgendo gli studenti della scuola di cinema del campo rifugiati Saharawi, la Efa-Aks.
Protagonisti, appunto, le tre tazze di tè e i Saharawi, una minoranza del sud dell’Algeria perseguitata e cacciata dalla sua terra, che lotta per la sua sopravvivenza. Un tema inusuale, una tragedia dimenticata.
Nel cortometraggio, attraverso il rituale del tè, una donna, sotto la tenda tradizionale (la Jaima appunto), conduce lo spettatore attraverso il passato e il presente del suo popolo, perseguitato e cacciato dalla propria terra.
I tre tè offerti rappresentano tre diverse esperienze: il primo, amaro come la vita; il secondo, dolce come l’amore; il terzo, soave come la morte. Ognuno di essi porta con sé una storia. Gocce e lacrime.
Il primo tè è quello amaro come la vita. Si può tollerare un mondo che porta a morire i suoi figli? Scorrono immagini di mille e interminabili conflitti e di donne che, nella polvere, centellinano il riso degli aiuti umanitari. Miserie e povertà. Come si può accettare tutto questo, mentre si ode una recita cantilenante che ricorda le note delle preghiere fluttuanti nell’aria delle città musulmane. Eppure, la vita continua.
Jaima . C’è anche un secondo tè, tuttavia, più intenso e carico, quello dell’amore,
dolce ma pericoloso. Mentre una coppia dolcemente sussurra e delicatamente danza, a ritmo delicato e lento, alla romantica luce del tramonto caldo e rosato del deserto. Durerà quell’amore? Resisterà alle prove della vita, al tempo che passa, alle tentazioni, ai dolori, ai tradimenti e alle difficoltà? Saprà tenere la rotta, sorgere e risorgere?
Il terzo tè, l’ultimo, quello più soave, è avvolgente e intenso come la morte. Quella che arriva, che non perdona, che non sente ragioni. Perché sopportare tutto questo? La camionetta dei giovani che si uniscono al Fronte Polisario – dall’abbreviazione spagnola di Frente Popular de Liberación de Saguía el Hamra y Río de Oro – sfreccia nel deserto. Dove arriverà? Serviranno quei sacrifici? Molti pensano di sì.
I Saharawi, perché?
I titoli di coda ricordano la tragedia, poco nota,
dei Saharawi, un popolo, nato dalla fusione tra le popolazioni locali di lingua berbera e le tribù arabe Ma’qil, che vive da oltre quarant’anni nei campi profughi. La storia dell’ultima colonia africana, quella del Sahara occidentale, conosciuta come ex Sahara spagnolo. Un muro lungo oltre 2000 chilometri nel deserto africano, una guerra conclusa ma un conflitto che non ha fine, un referendum per l’indipendenza chiesto dalle Nazioni Unite che non si è mai fatto.
In base agli accordi del 1975, la Spagna deve abbandonare il Sahara occidentale ceduto ai due dei Paesi confinanti: il Marocco da nord e la Mauritania da sud. Migliaia di rifugiati saharawi intraprendono l’esodo verso la frontiera algerina sotto la pressione dell’esercito marocchino cui si oppone la resistenza armata del Fronte Polisario (Frente popular para la liberación de Saguía el Hamra y Río de Oro) che, il 27 febbraio 1976 proclama la Repubblica Araba Saharawi Democratica. Da quel momento la popolazione saharawi vive divisa, in parte nei campi di rifugiati in Algeria e in parte nel Sahara occidentale sotto il dominio del Marocco, dopo che la Mauritania nel 1979 si ritira dal conflitto.
Tra il 1980 e il 1987 il Marocco adotta la strategia dei muri difensivi, prima per circoscrivere le zone economicamente più importanti poi per saldare i diversi baluardi difensivi fino a formare un unico muro, lungo oltre 2.000 km, che attraversa e divide il paese da nord a sud.
Nel 1990, il Consiglio di sicurezza dell’Onu approva un Piano di pace e, dopo quindici anni di conflitto, nel 1991 Marocco e Fronte Polisario sottoscrivono un accordo per lo svolgimento di un referendum di autodeterminazione, che lascerebbe ai Saharawi la possibilità di scegliere tra indipendenza e annessione al Marocco. Nel mese di settembre dello stesso anno, dopo la proclamazione del cessate il fuoco, ha avvio la Missione delle Nazioni Unite per il Referendum in Sahara Occidentale, con l’incarico di organizzare il referendum, previsto inizialmente a gennaio 1992.
Dal 2001 le Nazioni Unite continuano ad avanzare nuove proposte, senza arrivare ad alcun risultato concreto. Ci sarà mai una parola fine?
Il film si fregia di varie e importanti co-produzioni: l’Escuela de Formación Audiovisual Abidin Kaid Saleh di Tindouf, in Algeria; l’Associazione per lo Sviluppo delle Energie Rinnovabili, Sahara-Solare-Solidale; il Comitato Svizzero Romando di Sostegno al Popolo del Sahara Occidentale; il Gruppo di Appoggio di Ginevra per la Protezione e la Promozione dei Diritti Umani nel Sahara Occidentale; lo Schweizerische Unterstützungskomitee für die Sahraouis; il Film Festival Diritti Umani di Lugano.
Jaima
Anno: 2023
Durata: 19 mn
Genere: documentario
Nazionalita: Svizzera
Regia: Francesco Pereira
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