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FESTIVAL DI CINEMA

Anna Bonaiuto, il talento dell’attrice

Alla 74a edizione di Italia Film Fedic, abbiamo intervistato una delle più prestigiose interpreti del cinema italiano, Anna Bonaiuto

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Anna Bonaiuto

Alla 74a edizione di Italia Film Fedic, la madrina del Festival, Milena Vukotic, ha consegnato ad Anna Bonaiuto un meritato Premio alla Carriera. A un’attrice che, dagli anni ’70 in poi, ha lavorato con i più grandi maestri del teatro italiano, da Luca Ronconi a Giorgio Pressburger, da Carlo Cecchi a Mario Martone. Proprio con quest’ultimo, dagli anni ’90, ha trovato grandi ruoli anche nel cinema, da Morte di un matematico napoletano (1992) a L’amore molesto (1995), da I vesuviani (1997) a Teatro di guerra (1998). Da allora, è diventata una delle interpreti più ricercate del cinema italiano, lavorando con Nanni Moretti (Il caimano, 2006; Tre piani, 2021; Il sol dell’avvenire, 2023), Paolo Sorrentino (Il divo, 2008; Loro, 2018), Roberto Andò (Viva la libertà, 2013), solo per citare qualcuno. Anna Bonaiuto è capace di vibrare attorialmente dai ruoli più drammatici a quelli più brillanti, in maniera sempre incisiva, caratterizzando e plasmando su di sé ogni personaggio interpretato.

Anna Bonaiuto e Milena Vukotic

Anna Bonaiuto e Milena Vukotic

Lei ha cominciato la sua carriera di attrice a teatro con un maestro come Luca Ronconi. Cosa le ha insegnato di più?

Ogni regista che ho incontrato mi ha insegnato qualcosa, che magari contraddiceva quello che mi aveva insegnato il regista precedente. È come quando studi filosofia. Tu leggi un filosofo e pensi: questo ha capito tutto, poi ne studi un altro e dici no, è questo che ha capito ogni cosa. In realtà, tu metti insieme una serie d’informazioni che poi ti costituiscono. Luca Ronconi mi ha insegnato lo stravolgimento di un testo, l’ironia, una recitazione sempre molto fisica, però, alla fine, non è l’unico modo in cui un lavoro si può fare. Da tutti, comunque, si rubano delle cose.

Com’è stato passare dal teatro di Ronconi al cinema all’inizio degli anni ‘70? Che ruoli ha trovato?

Faccio fatica persino a ricordarli. Il cinema in quegli anni lo facevo quando non avevo niente altro da fare. Poi è anche giusto che una persona giovane faccia tutte le esperienze, anche commediacce orribili. Poiché non sono una moralista piccolo borghese, dico è chiaro che, quando sei giovane e devi pagare l’affitto, si fanno cose anche non eccelse. Poi uno sa qual è la propria direzione e mette il proprio talento a servizio di altro. Di quegli anni ricordo pochissimo da salvare. Un film con Lina Wertmüller, Film d’amore e d’anarchia e poco altro. Posso dire che, per me, il cinema è stato assolutamente un caso, perché la mia passione è sempre stata il teatro. Io me ne sono andata di casa per fare l’Accademia nazionale di arte drammatica. Ho cominciato a lavorare con Ronconi, poi con Paolo Stoppa, Carlo Cecchi, Toni Servillo, Mario Martone. Il cinema è come se lo avessi fatto quando avevo tempo libero. Non perché non lo amassi, anzi, alla fine ho visto più cinema che teatro. Sono arrivata a Roma in un periodo in cui esistevano i cineclub e, per una come me che veniva dal paese, scoprire che esistevano autori come Raoul Walsh o Friedrich Murnau o Marco Bellocchio… Questo era il cinema che si vedeva in quegli anni. C’era una scelta di questo livello, anche retrospettive, su Jerry Lewis, per esempio, che ti facevano scoprire il cinema a 360 gradi e, così, uno si poteva costruire un proprio immaginario.

Negli anni ‘80, ancora tanto grande teatro, soprattutto con un altro maestro come Carlo Cecchi e poco cinema. Ancora una questione di ruoli?

Sì, il cinema non lo avevo abbandonato, ma ero ancora nell’ottica: se mi chiamano vado, ma solo se sono libera dal teatro. Quando tu puoi fare teatro con grandi protagonisti e autori che si chiamano Cechov, Molière, Strindberg… capisci che preferisci essere un attore con la A maiuscola, in certi ruoli straordinari. Se al cinema hai battute come «Ehi, comprami un pacchetto di Marlboro, morbide» non è che vai proprio contenta a dormire, dopo.

Gli anni ‘90 sono segnati dall’incontro con Mario Martone. Cos’è scattato tra voi?

All’inizio ci siamo conosciuti facendo teatro, Woizeck, di Georg Büchner. Anche lui ha cominciato così, come regista teatrale. Ricordo che gli dissi: ma tu devi fare il cinema! Sei più adatto di tutti i registi con cui ho lavorato! Poi lui ebbe un incontro con Fabrizia Ramondino e gli venne in mente questo personaggio, che a Napoli era mitologico, ma sconosciuto ai più, il matematico Renato Caccioppoli, fortemente radicato nella storia della città. Aveva individuato che l’unico che potesse interpretarlo era Carlo Cecchi. Il film andò alla Mostra del Cinema di Venezia e vinse il Gran Premio della giuria. Da lì in poi non si fermò più. Fu sempre Fabrizia Ramondino a fargli scoprire il testo di una sconosciuta, opera prima di Elena Ferrante. Ci disse: voi dovete fare questo film e così è stato. L’amore molesto era speciale, un modo nuovo di guardare Napoli. Nessuno degli attori era famoso, questa è stata un’altra cosa molto importante, secondo me. Facce non consumate, come dico io, per cui sembravano esseri umani e non interpreti. Io mi annoio quando vedo al cinema sempre le stesse facce, compresa la mia.

Sempre degli anni ‘90 è Il postino, con il compianto Massimo Troisi, a cui di recente proprio Mario Martone ha dedicato un toccante commentario, Laggiù qualcuno mi ama (2003). Che ricordi ha di quella conoscenza e di quel set?

Io a breve sarò a San Giorgio a Cremano per festeggiare Massimo. Ci sarà l’uscita di un nuovo libro su di lui e ci saranno tanti amici a omaggiarlo. Sul quel set l’ho frequentato poco, perché era talmente malato che lavorava due, tre ore e poi spariva. Non era possibile neanche andarci a cena, era veramente ridotto al lumicino. L’ha tenuto in vita solo la passione e l’amore per questa storia, che lui voleva assolutamente concludere. Su quel set ricordo un bellissimo rapporto con Philippe Noiret, con cui mi facevo un sacco di risate, e una grandissima malinconia per Massimo.

Anna Bonaiuto Il postino

Il postino

Degli anni 2000 altri due incontri registici importanti, Nanni Moretti e Paolo Sorrentino, un altro napoletano doc. Quali sono i ricordi più forti di queste collaborazioni?

Di Nanni Moretti avevo una stima enorme. L’ho sempre considerato un vero artista. È un preveggente, uno di quegli intellettuali che vedono le cose con un’apertura mentale tale da essere sempre più avanti degli altri. Questo è sempre stato il cinema di Moretti, un cinema politico, ma nel senso più ampio, cioè del comportamento dell’essere umano nella vita. È stato un rapporto anche molto sereno, ci siamo trovati subito. Poi Nanni è uno che va a teatro. Sono pochi i registi di cinema che lo frequentano. Inoltre è una persona affettuosa, molto carina. Ha questa pessima fama, secondo cui farebbe 27 ciak per ogni ripresa, ma, con me, ne faceva mediamente due. Intorno a lui ci sono molte leggende da sfatare. Ho davvero amato quello che ha fatto nel finale del suo ultimo film, Il sol dell’avvenire, di richiamare tutti i suoi attori. Un gesto d’amore per loro e il cinema.

Paolo Sorrentino è l’opposto di Moretti. È un visionario, un esteta, ha un suo stile sulla linea del grottesco, dell’eccesso, e gira meravigliosamente. Ho fatto due film con lui. E Il divo credo rimanga il suo più bello in assoluto. Lui mi ha lasciata liberissima per il personaggio della moglie di Giulio Andreotti. Io gli ho chiesto solo di vedere se c’era qualche filmato di questa donna, perché non era una che si facesse molto vedere. Trovato un filmatino, ho visto come si pettinava, come si vestiva, come pronunciava la r… e il personaggio era fatto. Poi certo al trucco ci stavo tre ore, con un sacco di plastica per fare le rughe, acconciarmi i capelli. Lei indossava sempre un tristissimo tailleurino anni Ottanta, secca secca, con la r moscia… Poi, sai, non è che uno può copiare completamente una persona.

Il suo ultimo ruolo è stato in Volare (2024) di Margherita Buy, per il quale è anche candidata ai prossimi Nastri d’Argento come miglior attrice. Com’è stato farsi dirigere, per la prima volta, da una collega?

Io conoscevo già Margherita Buy per dei brevi incontri che c’erano stati tra noi. Lei fa sempre un po’ la svagata, la nevrotica, ma è un po’ una parte, perché, dopo tante esperienze con molti registi, sapeva bene cosa voleva. Era sicura sul set. Poi è anche una donna ironica, per cui mi sono trovata a fare duetti con una persona che aveva un forte senso dell’ironia, le cose funzionavano.

Quanto studio c’è dietro i suoi ruoli?

Io penso che l’attore sia uno che porta nel proprio personaggio tutto quello che ha introiettato nella sua vita, il proprio percorso personale di affetti, amicizie, amori, sofferenze, lutti, ma anche tutte le esperienze culturali: i romanzi che ha letto, i musei che ha visitato, la musica che ha sentito. Sono tutte cose che si mescolano dentro di te e ti fanno essere quello che sei. Noi siamo un buco nero, quando nasciamo, che va riempito. E non è che dici adesso divento un attore. Io non ho mai creduto in questo. Io credo che l’attore sia qualcosa di misterioso all’origine. Il talento è qualcosa che o c’è o non c’è. Poi, è chiaro, tu lo arricchisci, lo modifichi, impari a usare la voce, però, dal punto di vista del principio, del fuoco, quello non s’impara. E non s’insegna.

Recitare a teatro, al cinema o in televisione è sempre lo stesso mestiere?

Sul tema ricordo una frase divertente di Carmelo Bene. Disse: il teatro è degli attori, il cinema è dei registi, la televisione è dei residui. Io, quando faccio teatro, ancora adesso tremo prima di andare in scena. Il cinema è come se, inconsciamente, lo ritenessi più facile. Sono più rilassata, questo è un bene. Per esempio, quando ho fatto L’amore molesto, non è che pensavo venisse fuori il film che è uscito. L’ho preso con molta naturalezza, mi sono fatta guidare, oltre che dalla sceneggiatura, anche dal set, dalle persone, perché inevitabilmente reagisci sul set a seconda delle persone che hai davanti, dal colore del cielo, dai rumori che senti ed è probabile che, se ti lasci andare, verrà fuori qualcosa di vero.

L'amore molesto

L’amore molesto

Che cos’è per lei il mestiere dell’attrice?

Io ho sempre pensato che un attore è un attore. Punto. Ciò da cui parte un attore è lo stesso principio, sia per il teatro che per il cinema, ed è la verità, che non vuol dire l’immedesimazione. È far passare per vero quello che è falso, ma che deve sembrare vero. Perché devo credere nel personaggio che sto facendo, anche se è la cosa più lontana da me. Tanto poi l’essere umano si somiglia, il punto di partenza è quello. Il lavoro dell’attore è tirare fuori tutte quelle cose che stanno dentro gli esseri umani, anche se alcuni non sanno di averle o ce le hanno solo in nuce. Noi attori rappresentiamo l’umanità se siamo veri, perché raccontiamo qualcosa che è dentro gli uomini.

Come sceglie i suoi ruoli?

Io dico sempre, finché mi è possibile, vorrei che si combinasse una serie di cose: un regista degno di questo nome, un personaggio non convenzionale (sempre più raro) e, molto importante, anche i colleghi di lavoro. Quando tutto concorda, si sta bene. Poi, come in tutte le professioni artistiche, uno si dovrebbe porre delle domande: perché voglio fare questo film? Cosa voglio comunicare? Che, insomma, dietro ci sia la sua visione, sia del cinema che del mondo.

Da decenni si dice che il cinema italiano è in crisi. È davvero così?

Sinceramente lo sento da quando sono nata. Ti posso solo dire che, se negli anni ‘60 uscivano, che ne so, nello stesso anno, a breve distanza, La Battaglia di Algeri, Rocco e i suoi fratelli, Il Gattopardo, La dolce vita, li mettiamo insieme come esempio, tu rischiavi di vedere dieci capolavori in un’annata. Oggi, non è più così, ma ci sono i periodi, i cicli storici. Prima c’era più quantità e più qualità.

Quali sono i suoi prossimi progetti?

Al cinema avrò un piccolo ruolo nel nuovo film di Guido Chiesa, con Edoardo Leo e Micaela Ramazzotti. A teatro, invece, un ruolo molto complicato in un testo intitolato Nora Too Late di Jon Fosse: Nora di Casa di bambola che fa i conti con se stessa divenuta adulta.

C’è un progetto cinematografico che vorrebbe fare, un ruolo che non ha ancora interpretato, un regista con cui non ha lavorato?

Non guardo mai indietro. Non serve a nulla dire, ah, mi sarebbe piaciuto fare questo. Se non è successo, vuol dire che quella cosa non era per te, cioè l’hai deciso anche tu, in un certo senso, il flusso della vita. Fortuna o sfortuna non esistono. Decidi sempre tu dove andare, in fondo. Però, confesso che ci sarebbe un regista con cui mi piacerebbe lavorare: Ernst Lubitsch, ma non c’è più…

Non ne vede uno in giro, all’orizzonte?

No, come Lubitsch no, proprio, no.

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