Il sipario si apre su un frontale da coma immediato. Riversi a terra due uomini sulla quarantina. Il primo cerca subito di muoversi e riesce, non senza fatica a rialzarsi. Il secondo sembra morto. Aurelio (Valerio Mastandrea) inizia a saltellare per capire dove si trova e chiamare i soccorsi che non arriveranno mai. Intorno al luogo dell’incidente il nulla: i due protagonisti si trovano nella sperduta periferia romana, nei pressi del GRA. In mezzo al nulla due personalità opposte saranno costrette ad interagire in maniera talmente violenta da far sembrare l’incidente alle loro spalle l’avvenimento di minor portata.
In Migliore e In mezzo al mare la penna di Mattia Torre ha delineato i profili dei due protagonisti di Qui e ora, interpretati da un duo eccezionale: L’Aurelio di Mastandrea, schizzato, intollerante e megalomane rappresenta ciò che l’autore del testo ha dichiarato di odiare di più al momento, ossia “l’intrattenimento molesto”: cuoco radiofonico capace di inventare ricette ricercate anche nella situazione di emergenza che affronta. Il tutto per soddisfare le esigenze di una società che non ammette ritardi, debolezze né tantomeno la malattia. Il Claudio di Aprea è un disoccupato che l’intolleranza di Aurelio non perde tempo a configurare come il classico parassita della società, perché il lavoro non si cerca ma “quando non c’è, si crea dal nulla! L’attimo prima non c’era, l’attimo dopo c’è!”. Qui e ora è il nome della trasmissione radiofonica condotta da Aurelio, espressione dell’intrattenimento mordi e fuggi, ma pian piano si trasforma nella abrasiva visione di Claudio. Il pubblico scopre così che un incidente apparentemente avvenuto per distrazione, è un atto sovversivo di proporzioni megagalattiche nei confronti di ciò che rappresenta la “cultura” odierna.
Oltre alle interpretazioni dei due protagonisti, è il testo di Torre a lasciare senza fiato: attira l’attenzione con una comicità al vetriolo, per poi costringere a notare che il contenuto è tragicamente reale. Quelli che vediamo in scena non sono personaggi surreali, ma profili antropologici facili da incontrare per strada, a lavoro o al bar . Perciò questo è un teatro che riflette su una disgrazia comune che nessuno individua come tale e tutti preferiscono attribuire, seguendo un diffuso punto di vista individualistico, al prossimo. Aprea, Mastandrea e Torre si fanno portavoce di una sovversione culturale caustica e iconoclasta, più che mai necessaria in questo Paese e ancora ben accetta a teatro. Grazie a Dio.
Francesca Tiberi