Non è facile tracciare la rotta di Peter Weir. A quattordici anni dalla fuga epica da un gulag in The Way Back, l’ormai 79enne regista australiano Leone d’oro a Venezia 81, ha ufficialmente annunciato tempo fa di essersi ritirato dal cinema.
Eppure la sua opera ha molto da raccontarci sui Sistemi e su coloro che li combattono. Ecco dunque una retrospettiva sulla filmografia e la retorica di Peter Weir.
Gli inizi: dal nulla, a Hollywood
La storia dell’industria cinematografica australiana è stata per un po’ di tempo abbastanza bistrattata. Da metà degli anni ’60 e per tre anni consecutivi, in Australia non venne prodotto nemmeno un film finanziato dallo Stato. Il governo decise allora di istituire una serie di fondi per incentivare la produzione cinematografica. Fu con questi presupposti che un giovane comico di nome Peter Weir riuscì a farsi un nome nell’industria.
I suoi primi film erano tentativi di commedie dalle influenze grottesche e horror (Homesdale, 1971, The Cars That Ate Paris, 1974), ma Weir consolidò il suo nome con il suo terzo film: l’adattamento di Picnic a Hanging Rock (1975) di Joan Lindsay. A questo successo seguirono rapidamente altri film incentrati sull’Australia, tra cui spiccano Gallipoli (1981) e The Year of Living Dangerously (1982), cruciali (tra l’altro) per l’inizio della carriera di Mel Gibson. Da qui, la strada per Hollywood era spianata.
Peter Weir fu un regista di successo per tutti gli anni tra i ’70 e i ’90, realizzando veri e propri pezzi della storia del cinema internazionale come Witness (1985), The Dead Poets Society (1989) e The Truman Show (1998).
Il fallimento finanziario di Master and Commander – The Far Side of the World (2003), purtroppo, segnò la fine della sua possibilità di gestire grandi budget a Hollywood, nonostante il riscontro estremamente positivo della critica. Riuscì a trovare finanziamenti indipendenti solo per un altro film, The Way Back (2010). La notizia del suo ritiro arrivò tramite un’intervista rilasciata dallo stesso Weir al The Sydney Morning Herald, in cui parlava di sé stesso come un “vulcano estinto”.
“Amo i buoni racconti”
“Non sono davvero un appassionato di cinema. Amo il cinema, ma ero molto riluttante a studiarlo”
Nell’ottica di una retrospettiva su Peter Weir è necessario definire i punti chiave del suo modo di pensare e vedere le storie. Nelle interviste, Weir ha dichiarato di “amare semplicemente i buoni racconti”. Tuttavia, esaminando la filmografia del regista australiano, è chiaro come vi siano un tema forte e una serie di motivi ricorrenti nelle sue opere che vanno oltre i semplici “buoni racconti”. Ciò che affascina del lavoro di Peter Weir è il suo continuo e mai casuale inserimento di personaggi desiderosi di contatti umani profondi all’interno di luoghi che ne scoraggiano la nascita. Da questa idea, ecco il fil rouge che collega la sessualità nella scuola femminile di Picnic a Hanging Rock e il bisogno di libertà agognato da Truman in The Truman Show, passando per il rifiuto di proferire parola nel gulag di The Way Back.
Le connessioni umane spaziano da studenti e insegnanti (Dead Poets Society) ai marinai (Master and Commander) mentre i sistemi vanno dalla Natura (The Mosquito Coast) alle visioni distopiche (The Truman Show) e alle prigioni (The Way Back). Mondi separati dai restanti altri; mondi chiusi, ermetici o elitari. È in questi luoghi isolati che, per Peter Weir, prolifera l’evoluzione, la ribellione, l’idea vincente e diversa che spinge i propri personaggi verso un profondo e più sincero contatto con gli altri o sé stessi.
Dalla Costa delle Zanzare al Truman Show
Sia Allie Fox (Harrison Ford), che Christof (Ed Harris) costruiscono le loro società perfette, realizzando troppo tardi come queste vengano continuamente e inevitabilmente a scontrarsi con la natura umana, fino a collassare.
Allie Fox porta la sua famiglia in Bolivia. Qui compra un villaggio e lo plasma secondo la propria visione materialista. Questa utopia inizierà a crollare quando verrà introdotto qualcosa di più, che diverge dal piano fisico: la religione. Fox non sarà mai felice, perché la sua visione di società perfetta si rivelerà incompleta: vietando all’essere umano di credere in qualcosa di superiore, che sia anche solo banalmente il Destino, egli ha involontariamente firmato la sua rovina.
Christof, d’altro canto, disgustato dal mondo che lo circonda, costruisce uno show televisivo attorno all’unico essere umano in uno spettacolo recitato sulla vita di quest’ultimo, Truman Burbank. Truman è reale in un mondo di finzione, e il mondo di artificio è strettamente controllato affinché nulla di straordinario accada. È tutto volto a controllare l’individuo; un controllo che alla fine non può avere successo perché Truman è troppo reale e troppo spinto dal desiderio di esplorare, tanto che i confini dello show, persino del cielo, non riescono a contenere la sua spinta dirompente verso la verità e la libertà.
Peter Weir: Inconscio e Connessioni
“Non ho iniziato a guardare i classici fino a quando non avevo fatto tre film. Penso che volessi credere di essere l’unica persona al mondo a fare un film. Il punto è che le migliori idee vengono da questa parte, possiamo chiamarla la parte inconscia del cervello: anima, spirito, la parte che sogna insomma. Non dalla mente conscia […]”
The Truman Show ha diversi momenti in cui qualcuno si avvicina a uno schermo televisivo e tocca l’immagine di Truman (Riferimenti visivi chiaramente ispirati a Persona di Ingmar Bergman). E il film è tutto incentrato su quella ricerca per le connessioni umane di cui sopra, anche se falsa come in questo caso. O comunque passata attraverso il filtro della finzione televisiva. Questo è più evidente nella mancanza di connessione tra Truman e tutti gli altri personaggi, a partire dalla moglie che lancia spot pubblicitari ogni volta che gli parla. L’unica persona che pensa di conoscere meglio Truman è proprio il suo creatore, Christof. Se Truman volesse davvero scappare, affermerà a un punto della pellicola, allora lo farebbe. E avendolo fatto, Truman ha dimostrato persino al Dio-Padre-Creatore che non conosce la propria creazione, perché non capisce le connessioni umane.
“Perché ho smesso di dirigere film? Molto francamente, sono stanco.”
Ha detto il regista australiano al pubblico durante una recente intervista al Festival de la Cinémathèque di Parigi. Non gliene si può fare certo una colpa. Nelle interviste rilasciate dopo l’uscita del suo ultimo film, Weir ha espresso il desiderio di realizzare un’ultima opera. Purtroppo il sogno è destinato a rimanere tale, non essendo mai riuscito a raccogliere i fondi necessari per finanziare la pellicola. Col senno di poi, forse, il mondo del cinema avrebbe gioito di quell’ultimo film. E probabilmente ne sente la mancanza.
Peter Weir: Il Leone d;Oro della 81ª Mostra del Cinema di Venezia