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‘The Shameless’, prostituirsi per una dea. Da Cannes, intervista a Konstantin Bojanov

Primo premio per un’attrice indiana a Cannes, in una storia realistica di prostituzione per religione

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Era quasi una vergogna statistica che nessuna attrice indiana fosse mai stata premiata a Cannes prima di Anasuya Sengupta. A infrangere lo svergognato tabù, nella sezione Un Certain Regard, è stato il film The Shameless del regista bulgaro Konstantin Bojanov, un thriller dalle tinte noir sullo sfondo di un dramma sociale. Anasuya interpreta Renuka, evasa da Delhi dopo aver ucciso un viscido poliziotto (lo scopriamo in un incipit potente e cruento). Prostituta per sopravvivenza, finisce in un bordello, laddove i bordelli sono sacrosanti: in certe pratiche induiste, le bambine delle famiglie povere sono destinate dai genitori a diventare devadasi, “sposandosi” con la divinità. Ma le danzatrici sacre, una volta adulte, vengono spesso vendute per provvedere al sostentamento della famiglia.

Sarebbe, di fatto, il destino dell’altra protagonista, Devika (Omara Shetty), di cui Renuka s’innamora, ma la ragazzina, che semmai ha un diavolo per capello, vorrebbe fuggire dalla propria sorte sessual-socio-religiosa. O almeno scopre di volerlo quando incontra in Renuka un’esperta di fughe. Tra idee di fuitina e pericoloso amoreggiare, le potenziali Thelma & Louise devono liberarsi come underdog dai cagnacci e dai legacci della tradizione: familiari, politici e altri faccendieri.

Ne abbiamo parlato con l’autore Konstantin Bojanov, cineasta giramondo in evidente stato di grazia, visto il felice risultato di The Shameless.

Il trailer di The Shameless

La trama di The Shameless

Nel cuore della notte, Renuka fugge da un bordello di Delhi dopo aver pugnalato a morte un poliziotto. Si rifugia in una comunità di prostitute nel nord dell’India, dove incontra Devika, una giovane ragazza condannata a una vita di prostituzione. Il loro legame si trasforma in una storia d’amore proibita. Insieme, intraprendono un viaggio pericoloso per sfuggire alla legge e forgiare il loro cammino verso la libertà. (Fonte: sinossi ufficiale di Cannes)

L’intervista: Konstantin Bojanov racconta The Shameless

DAL DOCUMENTARIO ALLA FICTION

È curioso che The Shameless sia iniziato come progetto documentaristico. Di cosa si trattava e cosa ne è rimasto nel film?

Si trattava di incrociare quattro storie, di cui una era quella di Rashma, dal nord della Karnataka (stato a sud-ovest dell’India, n.d.R.). Era una lavoratrice sessuale di trentatrè anni nel sistema religioso detto delle devadasi. Sia l’approccio al documentario che la storia erano molto diversi da quello che sarebbe poi diventato The Shameless. L’unico aspetto in comune era il contesto sociale: la comunità con cui stavo lavorando era molto simile a quella che sarebbe poi stata sullo sfondo di The Shameless.

Qual è stato il momento preciso dello switch, ossia della transizione dal documentario al film di finzione?

Il momento preciso di è stato dettato da due elementi. Il primo elemento che mi ha colpito è consistito nella relazione che Rashma aveva con la sua migliore amica, un’altra lavoratrice sessuale di una trentina d’anni o più. C’era qualcosa di toccante in quel rapporto. Non so se si trattasse di semplice amicizia o di qualcosa di più intimo. Ma non è questo il punto. Ciò che mi ha colpito è stata la tenerezza della loro relazione, il supporto emotivo che si scambiavano. Il contrasto tra questa tenerezza e la durezza dell’ambiente sociale in cui si trovavano è stata la prima scintilla della storia.
Ma c’è stato anche un altro elemento interessante che mi ha spinto a girare The Shameless: la comunità di donne devote alla dea Yellamma.

Forse bisogna precisare in cosa consista questa pratica dell’induismo, altrimenti non si capisce di cosa parli The Shameless.

Cercherò di descrivere brevemente questa tradizione, che esiste da secoli ed è appunto parte dell’induismo. Si tratta di una setta induista in cui giovani ragazze prepuberi vengono consacrate o sposate a una divinità. Questo impedisce loro di sposarsi nella vita reale, condannandole a una vita di prostituzione. Per secoli, il lavoro sessuale è stato praticato nei templi induisti dedicati alla dea. Nel XIX secolo, con l’arrivo degli inglesi nel subcontinente, questa pratica venne bandita a causa delle loro vedute morali vittoriane, ma solo come pratica pubblica. In realtà, non si preoccupavano delle giovani ragazze o delle donne coinvolte in questa tradizione; semplicemente non volevano averci a che fare.

A partire da quel momento, la pratica si è spostata esclusivamente nelle comunità dei paria o dalit, quella degli intoccabili, diventando un modo per sopravvivere attraverso il lavoro sessuale sotto la copertura della religione. Questo è il tipo di quartiere in cui si svolgeva il documentario. La cosa interessante è che il business è gestito esclusivamente dalle donne. Non potendo sposarsi, gestiscono l’attività e spesso affittano stanze alle donne che vengono a lavorare in queste comunità, sotto la relativa protezione di questa pratica religiosa.

Cosa ti ha colpito di questo contesto?

Esiste una chiara segregazione tra le donne devote e quelle non devote. Le prime, nonostante pratichino lo stesso tipo di lavoro, guardano dall’alto in basso le donne non devote che lavorano in queste comunità. C’è una sorta di divisione interna, quasi come una sottocasta. La mia storia inizia con l’idea: cosa succederebbe se una donna, che ha commesso un crimine e si trova in fuga, arrivasse in una comunità come questa? Inizialmente sarebbe lì per nascondersi, ma poi si scontrerebbe inevitabilmente con le regole draconiane che vigono in questa microsocietà.

Un altro aspetto che mi ha spinto verso la finzione anziché verso il documentario è stato il fatto di non parlare la lingua del posto. Mi sono presto reso conto che ogni storia si svolgeva in una lingua diversa, poiché avveniva in diversi stati dell’India. La mia incapacità di comunicare direttamente con i protagonisti del documentario, dovendo sempre passare attraverso interpreti che a volte avevano una loro agenda, è stato un altro elemento che mi ha indotto ad abbandonare l’idea del documentario e trasformarlo in un’opera di finzione.

IN FUGA SENZA VERGOGNA: DEVIKA E RENUKA

Dopo questa transizione, ovviamente, c’è tutto un lavoro da fare per creare l’effetto drammatico. In The Shameless, lo spunto, non nuovo alla tua produzione filmica, è nella figura dell’otusider in fuga, che qui è Renuka. Eppure, il personaggio di cui voglio chiederti è la giovane Devika. Come hai profilato la sua figura in modo che potesse essere complementare a quello di Renuka? Si costruisce in tandem o partendo dall’una e finendo all’altra?

Ecco una di quelle curiosità che vien fuori solo da certe interviste. In realtà, quando ho scritto la storia per la prima volta, era Devika la protagonista. Ho preso molti elementi dalla vita di Rashma, il personaggio centrale del documentario, per costruire il personaggio di Devika. Di conseguenza, per almeno tre o quattro bozze, Devika è stata la narratrice e la protagonista della storia. La storia inizialmente veniva raccontata attraverso flashback.

Omara Shetty interpreta Devika in una scena di The Shameless – ©URBANFACTORY

Devika, ormai trentenne, riceve una chiamata: Renuka, che non conosciamo ancora, è stata imprigionata dopo aver ucciso un uomo che all’epoca non era un politico ma un contadino, e ora sta morendo di cancro. Devika e Renuka non si vedevano da quando Devika era nata. Renuka aveva reagito al violento stupro subito da Devika, e la storia veniva raccontata su due linee temporali: il viaggio di Devika verso la prigione per vedere Renuka dopo vent’anni e la ricostruzione del loro passato.

A proposisto di decisioni in corsa, in realtà è Renuka a prendersi la scena rispetto a Devika. Non a caso Anasuya Sengupta è stata premiata a Cannes come migliore attrice.

Devika era sempre stata un personaggio più passivo, e mi ci è voluto un po’ per capire che in realtà era Renuka il personaggio che mi interessava di più. Così, ho cambiato la protagonista in una fase piuttosto avanzata della scrittura. È stata una decisione cruciale. Forse è proprio questo che mi ha tenuto impegnato per così tanto tempo in questo progetto. Durante la preparazione, a causa di confronti con i produttori delegati del film, sono stato molto vicino a lasciare due volte: una volta mentre ero a Kathmandu per la ricerca dei luoghi e un’altra mentre riscrivevo il copione a Bangkok. Ebbene, ora che ci ripenso… sembra strano, ma mi sono innamorato di questo personaggio. Ho una forte affinità con i personaggi che trasgrediscono i confini morali e sociali.

Tecnicamente, Renuka fugge dalla legge, avendo appena ucciso un ufficiale di polizia. Ma da cosa si fugge, più in generale, in The Shameless?

In effetti, nei miei film la fuga è a volte dalle circostanze, altre è un tentativo di fuggire da sé stessi. Le storie che scrivo, i film che faccio, non sono strettamente personali, nel senso che i personaggi non sono un mio alter ego. Cionondimeno, riesco a relazionarmi molto fortemente con il tema della fuga, che è stato al centro della mia vita. Altra questione che mi ha appassionato è stata quella dell’identità: è possibile cambiare la nostra identità? Fino a che punto siamo predestinati? E fino a che punto, invece, possiamo diventare la persona che vorremmo essere?

Nel mio primo film, Avé, la protagonista è un’impostora. Si presenta costantemente come qualcun altro. Anche qui, Renuka cambia deliberatamente il suo nome da musulmano a indù per motivi pratici, così da potersi ambientare meglio nella comunità di lavoratrici del sesso e trovare rifugio fino a capire quale sarà il prossimo passo. Ma possiamo fuggire persino da chi siamo? Lo stesso quesito vale per il mio secondo film Light Thereafter. Anche lì c’è un personaggio in crisi che vuole essere qualcun altro. Il titolo iniziale del film era in realtà I Want to Be Like You. È su questi temi che continuo a riflettere in The Shameless, sulla costruzione dell’identità.

STORIE PER BAMBINE RIBELLI

Penso che ci sia qualcos’altro che era presente in parte anche nei tuoi film precedenti. Devika non è semplicemente una donna, è un’adolescente. È ancora più complicato pensare a un’identità a quell’età. La mia domanda è: nella costruzione del personaggio, quali sono le conseguenze drammatiche di un’età problematica quale l’adolescenza?

Ho sempre immaginato che Devika fosse molto consapevole della sua diversità rispetto alla maggior parte delle persone della comunità. Era consapevole della propria sessualità, ma cercava di sopprimerla. Aveva bisogno di un modello da seguire, ma non ne aveva mai avuto uno. Ascoltava musica rap e rapper femminili, ma erano un’astrazione. Poteva guardare questi video, ma era un mondo lontano. Devika è dunque un personaggio in transizione e, in qualche modo, è modellabile, senza però risultare ingenua o credulona. Anzi, usa in modo piuttosto astuto la credenza comune che ci sia qualcosa di sbagliato in lei. Non la definiscono una malata di mente, ma dicono che c’è qualcosa che non va in lei. E lei usa questa credenza per proteggersi, evitando di essere coinvolta nel business familiare. C’è tanto che ribolle sotto la superficie, dentro di lei e nella sua psiche.

The Shameless, Devika (a sinistra) e Renuka in contemplazione di un fiore – ©URBANFACTORY

Poi arriva Renuka. Alcuni personaggi, nel cinema, funzionano da detonatori.

Esatto. È lì che Devika capisce che si tratta di una donna completamente differente, d’un tipo che non ha mai incontrato prima. Con un fattore in più: l’attrazione fisica. Preciso: non volevo girare un film su desiderio e sesso. The Shameless riguarda piuttosto la presa di coscienza di Denika rispetto all’alienazione dalla propria comunità, e questo accade solo quando Renuka entra nella sua vita e la porta a focalizzarsi sui propri sentimenti e sui propri pensieri in maniera libera.

C’ERA UNA VOLTA UNA DEA

C’è una domanda alla quale risponde Renuka stessa nel film, ma penso che il regista possa rispondere ancor meglio di un personaggio. Renuka significa dea, ma non è il suo vero nome. Perché hai fatto scegliere questo pseudonimo alla donna?

Renuka è l’altro nome, l’altro nome della dea Yellama, a cui tutte le donne di quella comunità sono devote. D’altra parte, è anche il nome di una marca di dolci, da un manifesto finto che si vede nel film. La donna sa che come musulmana, con il suo vero nome, non può sopravvivere in quella comunità, e allora decide di cambiarlo. Ma se sul manifesto fosse stato scritto un altro nome, avrebbe probabilmente preso quello.

Avrei scommesso su di una scelta di tipo simbolico: la prostituta, in un sistema di sfruttamento delle lavoratrici del sesso consacrate a una dea, che ne prende provocatoriamente il nome.

Non è un elemento simbolico, anche se potrebbe essere interpretato come tale. Il mito di questa dea è alquanto particolare: era una donna decapitata dal marito per aver avuto pensieri impuri. Il marito la mandava a prendere acqua dal lago ogni mattina. Una mattina, la donna vide un uomo e una donna divertirsi nell’acqua. Così ebbe pensieri impuri e tornò a casa. Suo marito ordinò allora ai suoi tre figli di tagliarle la testa. I primi due rifiutarono, ma il terzo lo fece. Così fu sacrificata per aver avuto pensieri sessuali impuri. Si tratta di una storia di estrema misoginia, eppure la trovi in forma di icona nelle case delle persone della comunità. La accettano come storia della dea.

LOVELESS?

Volevo fare riferimento a un dialogo Renuka e Murad, un suo amico d’infanzia che le viene in soccorso. Renuka usa la parola “amore” e Murad fa notare che non l’aveva mai usata prima. Dato che il film tratta anche di libertà e della liberazione dalle norme sociali, consideri il tuo film in parte una storia d’amore, o almeno atipica?

Sì, è una storia d’amore, racchiusa all’interno della narrazione criminale come una matrioska russa. Questo dialogo segna un momento cruciale nell’arco narrativo del personaggio di Renuka. Morad le ricorda che quando lo ha visitato in prigione, le ha detto di dare priorità alla sopravvivenza su tutto il resto, sintetizzando il punto di partenza dell’arco narrativo del personaggio di Renuka. Inizia come qualcuno concentrato esclusivamente sulla propria sopravvivenza, ma subisce una significativa trasformazione, sacrificando alla fine la propria vita per vendicare lo stupro di Devika.

È una storia d’amore, ma non di un romanticismo tradizionale. È più una questione di due anime che si avvicinano in modo inaspettato, senza che nessuna delle due potesse prevederlo. Uno dei miei obiettivi principali era quello di creare un film coinvolgente che catturasse il pubblico dall’inizio alla fine, senza sottovalutare l’importanza dei filoni narrativi secondari. Lo dico perché sono consapevole del fatto che il film affronta argomenti scottanti e sottotrame politiche. Ciononostante, non l’ho mai concepito come una dichiarazione politica diretta. Certo, ho accolto con favore il dibattito intorno al film, ma non mi aspettavo la sua ricezione esplosiva.

GOVERNO LADRO E MADRI COMPLICI

L’occasione è troppo ghiotta, devo chiedertelo: è una coincidenza che il vero villain del film, che insegue Renuka e finirà per insidiare anche Devika, sia un uomo politico? È una possibile allusione al fatto che certa decadenza morale e sociale del Paese inizia proprio da chi lo rappresenta a livello politico?

Cercavo di riflettere sull’ascesa degli estremismi non solo in India, ma in molte parti del mondo. Il partito a cui appartiene l’antagonista, questo politico emergente, è molto chiaro. I loro abiti saffron, il nome del partito, Ram Sena, che significa “i guerrieri del Signore Ram”, indicano chiaramente che si tratta di un partito fondamentalista induista. Anche nel suo discorso di insediamento dopo essere stato eletto in assemblea, afferma che inizieranno a “purificare la nazione”. È chiaro che si modella molto sul BJP e sul partito di Modi (Narendra Modi è esponente del Partito Popolare Indiano, al potere dal 2014; qualche giorno dopo l’intervista, è stato eletto per il suo terzo mandato; n.d.R.). Fortunatamente, non hanno vinto una maggioranza schiacciante, come tutti si aspettavano. Modi rimarrà al potere per un altro mandato, ma non completamente fuori controllo come sarebbe stato altrimenti.

Sono curioso di sapere cosa pensi della madare di Devika, che asseconda la tradizione delle devadasi. Tecnicamente, qualcuno potrebbe considerare anche lei come una sorte di antagonista.

Quando si esamina il sottotesto politico con attenzione, si capisce che il personaggio del politico malvagio è solo una pedina nelle mani di ricchi uomini d’affari. Cerco sempre di creare personaggi complessi, anche se sono antagonisti, per non renderli bidimensionali, ossia semplicemente buoni o cattivi. Tuttavia, in lui non c’è granché da salvare. Se pensiamo alla madre di Devika, è sì un personaggio abbastanza brutale e dispotico, per come gestisce la famiglia, ma si capisce anche che non può fare diversamente. Ai suoi occhi, ciò che fa è la cosa giusta da fare. Quando punisce la figlia è solo per ricondurla a una tradizione che lei crede giusta. In realtà, lo stupro, che si basava molto sulla vita reale di Rashma nel documentario, era molto più brutale di quanto mostrato nel film.

Non credo, però, che ci sia un’autocensura da parte tua. Anzi, la derivazione di The Shameless da un progetto iniziale di documentario è percepibile in come hai saputo legare gli sviluppi narrativi alle circostanze effettive della tradizione indiana. Semmai, c’è da interrogarsi su una possibile censura in caso di distribuzione in India.

Esatto, i fatti sono assolutamente veridici rispetto alla tradizione indiana. Dopo la prima mestruazione, le ragazze devono consumare la loro prima notte. Parliamo di bambine di 12 o 13 anni. Sebbene la pratica sia ora proibita – lo è dal ’87 – è ben lungi dall’essere scomparsa. Ancora oggi, ci sono migliaia di ragazze che vengono consacrate ogni anno. Mi aspettavo, forse, una reazione più forte contro gli elementi religiosi e politici del film, ma credo possa esserci solo se il film verrà un giorno distribuito in India. Attualmente, tuttavia, non credo che il film possa superare il Consiglio di censura. Dubito che anche in caso di cambio di governo ciò accada. Ho già detto ai nostri produttori indiani che non permetterò tagli al film e se vogliono distribuirlo, modificarlo, allora toglierò il mio nome dal film.

UOMINI CHE ODIANO LE DONNE (E VICEVERSA)

Diverse scene di The Shameless fanno pensare a una vera e propria opposizione tra uomini e donne, come se il genere maschile, in realtà, fosse il vero villain. Penso alle avances troppo ardite di un uomo verso Devika nel buio di un cinema, con Renuka che la difende con tanto di coltello. Oppure, alle parole velenose di Renuka verso suo padre e suo fratello nel racconto che fa a Devika, così come alla paura di quest’ultima, esplicitata in alcune sue battute, nei confronti degli uomini. È un aspetto che deriva dalla realtà, così come l’avevi indagata quando progettavi il documentario, oppure l’hai enfatizzato per rendere più drammatico il contesto della fiction?

Non mi sento di demonizzare gli uomini, cosa che al giorno d’oggi è molto in voga. Nel caso di Shameless, la protagonista è una donna molto vulnerabile. Il traffico sessuale e lo stupro sono piuttosto comuni in India e le donne, effettivamente, non si sentono al sicuro. Quindi, più che altro, è successo in modo involontario. In un certo senso, stavo affrontando situazioni basate sull’esperienza e sulla ricerca. Per Devika, gli uomini rappresentano il dover vendere il proprio corpo, qualcosa che le donne della sua famiglia fanno da generazioni, ma che lei fatica molto ad accettarlo. D’altra parte, è consapevole della sua attrazione verso le donne, anche se non lo dice apertamente.

TRA THRILLER E REALISMO

Vorrei chiederti qualcosa sullo stile di The Shameless. Mi è sembrato di osservare un doppio binario: alcune sequenze sono più realistiche, anche con una camera a spalla, mentre altre sembrano oniriche, quasi delle allucinazioni. Come hai lavorato su questo duplice registro, realizzando alcune parti realistiche e altre più nello stile di un thriller noir?

Il mio obiettivo era in effetti un thriller noir: non volevo assolutamente girare un dramma sociale realistico. Ciò che si vede sullo schermo, apparentemente molto reale, è per lo più set che abbiamo costruito, abbiamo usato spazi vuoti, abbiamo persino creato facciate finte per poter abbinare interni ed esterni. Quindi tutto è stato progettato con molta cura. Niente è stato girato per strada, non si può fare nulla lì. Girare il film a Kathmandu è stato un incubo assoluto. Non potevamo girarlo in India perché il nostro budget era troppo basso e nessuno credeva che la sceneggiatura potesse superare il Ministero degli Affari Esteri. Hanno una commissione che non è apertamente chiamata commissione di censura, ma è esattamente ciò di cui si tratta.

La stessa cura si osserva a livello fotografico. Ci sono notturni piuttosto cupi, penombre dei vicoli, ma anche scenari più saturi e variopinti, che sembrano davvero trasportare visivamente in India.

Originariamente, io e il direttore della fotografia stavamo pensando a uno stile più libero e fluido, con la camera a mano. Ma la realtà sul campo era che stavamo girando in spazi così piccoli che in qualche modo determinavano lo stile dei movimenti della telecamera, perché lo spazio era molto limitato.

Le visioni di Renuka sono qualcosa che ho utilizzato anche in lavori successivi, come in un documentario che ho realizzato chiamato Invisibles. Non sono esattamente reali, hanno piuttosto elementi di realismo magico. Sono momenti brevi, ma ti portano fuori dal flusso regolare della storia, il che è stato fatto deliberatamente. Qualcuno potrebbe trovarlo disturbante, ma è ciò che caratterizza il film. Il film combina pertanto elementi di genere con il realismo puro, dando luogo a un thriller noir con un feeling molto contemporaneo.

GIRARE DA GIRAMONDO: DA PASOLINI AL VIAGGIO IN INDIA

Parlare con te di The Shameless è stato come fare un’immersione nella cultura indiana. Sento che a volte ti definiscono regista globale, e The Shameless pare confermarlo: un regista bulgaro gira a Kathmandu un film sulla situazione di una regione indiana. Mi chiedo, quanto ti senti globale in termini di influenze sul tuo cinema? A che tipo di cinema hai guardato di più nel tuo percorso?

A nove anni mia madre mi portava a vedere i film di Pasolini (ride, n.d.R.). È stato un punto di non ritorno! Altri miei influssi sono sicuramente europei e del cinema indipendente americano. Ma non solo quello, amo anche i film giapponesi e coreani.

Cosa mi dici del cinema dell’Europa orientale, da cui provieni?

Ho più difficoltà con i film dell’Europa orientale, con il loro dolore senza fine e la glorificazione del dolore che è molto presente nel nostro cinema. D’altro canto, non vivo in Bulgaria da quando avevo vent’anni. Ho vissuto un po’ dappertutto nel mondo, e sono sicuro che anche questo influisce sul modo in cui vedo il mondo e il cinema. Può essere estremamente gravoso e quasi impossibile fare film avendo questo tipo di stile di vita nomade che conduco. Per uno scrittore sarebbe molto più facile. Sto ancora cercando il prossimo posto con cui connettermi, così come i miei personaggi. Dove sarà, non lo so. Ma non sarà Berlino, dove mi trovo attualmente. Anzi, devo uscirne prima della fine dell’estate.

Prima hai accennato al tuo prossimo progetto. È una chiusura classica delle interviste ai registi, ma ne sono ancor di più incuriosito vista la tua oscillazione tra documentario e finzione, nonché per il tuo nomadismo.

Sto preparando un heist thriller con una protagonista femminile. Come raccontavo in precedenza, sono fortemente attratto dalle persone che vivono secondo il proprio codice morale e che spesso finiscono dalla parte dei criminali. Ha anche elementi di commedia nera. Potrebbe avere delle somiglianze con alcuni film dei fratelli Coen, come Fargo, sia pur senza arrivare a quei livelli di violenza. Sarà un film molto dinamico. È un heist movie molto insolito perché non si concentra tanto sul come entrare nel Museo di Arte Moderna e Contemporanea, che è piuttosto facile, quanto su ciò che accade dopo, tra i membri della banda quando iniziano a separarsi. Ci sarà poco della fase di indagine della polizia, quanto basta per mantenere alta la tensione.

Fondamentalmente, parla di una giovane donna che cerca di abbandonare una vita di piccoli crimini e ottenere la custodia della figlia di sette anni, ma viene tentata da un colpo grosso come soluzione ai propri problemi. Si chiamerà Gambit. Al momento sto cercando l’attrice protagonista. Come al solito, ci vorranno mesi prima di essere convinto di aver trovato la persona giusta. Conto di iniziare le riprese in primavera.

Ma saranno mesi ben spesi, visto che l’attrice che hai scelto per Renuka in The Shameless è stata premiata a Cannes. Ed è stata la prima attrice indiana a essere insignita di questo premio a Cannes. Grazie per l’intervista.

Grazie a te. Tempo ben speso!

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