Oggi, nell’era degli user-generated content di massa, in che misura le immagini cinematografiche possono costituire lo strumento dell’indagine analitica e dell’osservazione critica sulla memoria (e sul cinema)? A questi interrogativi cerca risposta Cassett 6, cortometraggio della peruviana Mayra Villavicencio Príncipe presentato in corcorso all’UnArchive Found Footage Fest 2024, la cui sinossi recita:
“La memoria è mutevole, selettiva e si riappropria di immagini, suoni ed eventi. Utilizzo l’archivio di famiglia per riflettere sulla mia storia familiare, sulla mia identità e sui miei non ricordi. Attingendo all’archivio del matrimonio cattolico dei miei genitori e al discorso di un prete, cerco di problematizzare le convenzioni che sono state create attorno a un modello familiare convenzionale“.
Il video-essay come forma di riappropriazione e investigazione
In alcuni saggi fondamentali, come Il testo introvabile, Raymond Bellour scriveva che la legge dello scorrimento impedisce di vedere un film come si legge un libro, di fermarsi, ricominciare, tornare indietro, rileggere. C’è poi tutto quello che rafforza questa legge: l’impossibilità della proprietà individuale dei mezzi di proiezione (delle apparecchiature e soprattutto delle pellicole). Le innovazioni tecnologiche da tempo consentono una fruizione del film non più inesorabilmente condizionata dalla “legge dello scorrimento”.
Con l’avvento dei supporti di registrazione, e in particolare di quelli digitali, il ricordo del film può essere, nella maggior parte dei casi, ravvivato attraverso visioni successive in tempi, luoghi e schermi decisi dallo spettatore; e le possibilità di intervenire direttamente sulle immagini, di manipolarle in modi pressocché infiniti, ci impongono oggi, con particolare urgenza, di ripensare lo studio e l’analisi del film come un fare testuale che può esercitare a partire dalle immagini e attraverso di esse.
Soltanto a partire da queste considerazioni è possibile interpretare il lavoro compiuto dalla regista peruviana in Cassett 6, che, partendo da immagini di archivio del matrimonio dei suoi genitori, compie un’investigazione sul concetto di memoria, identità, archivio. Lo statuto dell’immagine viene frammentato, diviso in pezzi e ricomposto a piacimento, creando sinergie e dissonanze che permettono di riflettere sul lavoro in atto che si dipana davanti ai nostri occhi. Ralenti, split screen, inserti di testo, reverse motion, slow motion, freeze frame, accelerato: Mayra Villavicencio Príncipe utilizza tutte le strategie messe a sua disposizione dall’apparecchiatura digitale per compiere un’investigazione che non riguarda soltanto i tratti meramente mnemonici e personali, ma si protende oltre, verso il concetto di immagine cinematografica stessa.
La logica del riutilizzo
Se per Laura Mulvey poter interrompere lo scorrimento, ritornare più e più volte su istanti significativi del film, congelare quegli attimi per osservarli a fondo, è sintomatico di una maggior libertà e interattività dello spettatore e di una connessione proficua, dal punto di vista della riflessione, tra il cinema e la fotografia, Mayra Villavicencio Príncipe sembra più intenzionata a “banalizzare” il gesto: in questo caso è il supporto tecnologico ad assumere su di sé le forme e i “gesti” dell’analisi stessa.
Mentre le sue rime gestuali riecheggiano le forme dell’Atlas warburgiano – che si proponeva di ordinare e raccogliere immagini provenienti dalle più svariate fonti e in formati differenti nel tentativo di fare una storia dell’arte per “formule del pathos” –, il montaggio, inteso qui come strumento non solo di creazione e articolazione dei significati di un prodotto artistico, ma anche mezzo utile a una prassi analitica che “smonta” il visibile e lo riconfigura per cercare di comprenderne l’origine, le finalità, il senso, è governato da due tensioni più complementari che antitetiche: continuità e discontinuità.
Un’opera contesa tra investigazione e attrazione
Da un lato, l’incipit del film, il matrimonio cattolico in chiesa dei genitori, attinge alla continuità propria del cinema narrativo, in cui ciascuna inquadratura segue “naturalmente” quella che la precede, secondo rapporti di concatenazione causa-effetto che restituiscono l’illusione di uno spazio e di un tempo cinematografico perfettamente coerente; dall’altro, l’uscita dalla chiesa in mezzo alla folla festante rappresenta una rottura netta dell’ordinamento precedente, facendo emergere di lì in avanti il principio della discontinuità, il palesarsi degli scarti, dei tagli, l’accostamento delle immagini secondo principi poetici o ideologici.
A cavallo tra video-essay, found footage film e sperimentalismo più sfrenato, Cassett 6 si configura come un’opera d’avanguardia che sfugge ogni tentativo di classificazione. Mayra Villavicencio Príncipe compie un’investigazione mnemonica sui meccanismi del ricordo individuale e collettivo, servendosi dell’immagine cinematografica al tempo del digitale, nelle sue svariate accezioni e possibili utilizzi, sia come protesi cerebrale che come strumento di analisi e studio, non tralasciando, al tempo stesso, il suo immenso potenziale attrazionale e mesmerizzante.
Cassett 6 è in concorso all’UnArchive Found Footage Fest.