IL piccolo Victor Frankenstein presenta ai propri genitori un piccolo film amatoriale di cui è protagonista il suo cane Sparky che è l’unico vero amico del ragazzino che ha la passione per la scienza ed è tendenzialmente un solitario. Un giorno Sparky muore investito da un’auto. Il dolore per Victor è così forte che, in seguito a un esperimento su una rana a cui ha assistito nel corso di una lezione, decide di disseppellire il cane e di tentare di riportarlo in vita…
In principio c’era un cortometraggio del 1984, Frankenweenie, col quale il giovane regista Tim Burton cercava di farsi notare nel panorama hollywoodiano e che aprì le sue porte verso l’ambita carriera che si meritava, realizzando di lì a poco la sua opera prima Pee Wee’s bigadventure.
Ora, dopo 28 anni, il noto regista di Batman e di Big fish-Le storie di una vita incredibile, rimette mano su quel cortometraggio, trasformandolo in un prodotto d’animazione stop-motion, come lo sono anche Nightmare before Christmas (sua produzione) e La sposacadavere (sua co-regia), e con l’ausilio del 3D, promettendo quindi gotiche avventure per piccoli e grandi, nel modo in cui solo Burton sa fare.
La trama, come il titolo fa intuire, è un onesto omaggio al Frankenstein di Mary Shelley, o, meglio ancora, al famoso capolavoro della celluloide realizzato negli anni ’30 da James Whale, e narra le sue gesta in una ridente cittadina di una provincia americana, l’immaginaria New Holland.
Qua vive il piccolo Victor, un ragazzino arguto e dalla creatività infinita, che come miglior amico ha il suo fedele cane Sparky.
Un giorno, però, la tragedia si insidia dietro l’angolo: il quadrupede viene investito da un auto, morendo sul colpo.
Disperato e triste, il ragazzo non si lascia però sconfortare e, complice l’esperimento di scienze da realizzare per scuola, decide di ridare vita al suo amico a quattro zampe tramite l’elettricità.
La cosa riuscirà con successo, ma ciò che Victor non sa è che la sua scoperta è solo l’inizio di una serie di guai che investiranno New Holland.
Che ormai Burton stia raschiando il fondo del barile, per poter trovare qualcosa di nuovo da raccontare, è cosa risaputa, basta vedere almeno tre sue ultime regie per farsene un’idea (il musical Sweeney Todd-Il diabolico barbiere di Fleet Street, la favola Alice in wonderland e l’horror di origine catodica Dark Shadows), e notarlo alle prese con l’allungamento di un suo cortometraggio anni ’80 non è che abbia fatto gridare chissà quale grande miracolo.
Sta di fatto che Frankenweenie forse, dei suoi ultimi titoli, ne esce meglio di ciò che poteva sembrare, salvo solo che il film in questione altri non è che un bignami della poetica burtoniana, sia visiva che concettuale.
Il tema del diverso nella ridente comunità (come quella vista nell’indimenticato Edward mani di forbice) torna a farsi vivo in questo lungometraggio, così come immagini gotiche e humour macabro non di stupida fattura (l’ultimo Dark Shadows era davvero improponibile su quest’ultimo lato).
Frankenweenie, nonostante questi pregi che ci hanno fatto amare il cinema di Burton, alla fine sa un po’ di cinema anonimo, sì divertente ed affascinante intrattenimento, ma che nel suo svolgersi non ha granché motivo di esistere, tant’é che ci si poteva accontentare del vecchio cortometraggio a questo punto.
Va però lodata in tutta questa operazione la vena citazionista che si cimenta sotto a tutto, quell’occhio cinefilo che strizza l’occhio all’horror di una volta, ma anche ad icone del genere fantastico yankee e non, come il tartarugone giapponese Gamera o i famosi Gremlins di Joe Dante (e meglio ancora i Ghoulies della Empire per i cinefili più attenti, scena del water compresa).
Almeno su quel lato Frankenweenie può trovare una sana boccata di opera nostalgica ben accetta, e la cosa può andar bene per farcelo piacere abbastanza
Mirko Lomuscio
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