Il cinema di Denis Villeneuve: tra minimalismo e spettacolarità
La filmografia di una regista che ha saputo spaziare liberamente tra i generi, infrangendo quando serve le loro convenzioni. Denis Villeneuve è oggi considerato come uno dei migliori registi in circolazione, capace di amalgamare blockbuster e cinema d'autore.
Denis Villeneuve è tra i pochissimi registi che possono vantare un consenso quasi unanime di critica e pubblico, tale da risultare sostanzialmente un simbolo della settima arte del proprio tempo. La sua è una carriera incredibilmente ricca di successi, capace di donarci film estremamente vari sia per genere che per atmosfera e ambientazione. Candidato all’Oscar nel 2017 per Arrival, ottiene nuovamente altre due nomination per Dune come“miglior film” e “miglior sceneggiatura non originale“.
Denis Villeneuve: note biografiche
Il 3 ottobre 1967 nasce a Trois-Rivières in Québec (seconda provincia per numero di abitanti in Canada) Denis Villeneuve. Figlio di Nicole Demers e Jean Villeneuve, suo fratello minore Martin è anch’egli un noto sceneggiatore e regista. Studia al Séminaire Saint-Joseph negli anni liceali, mentre da universitario decide di seguire il corso di scienze naturale al Cégep.
Sin da piccolo sviluppa una forte passione per la settima arte. Decide così di proseguire il proprio sogno studiando cinema all’Università di Montréal. Inizia la propria gavetta girando cortometraggi, con produzioni che gli consentono di attirare l’attenzione dei critici e che gli valgono la vittoria di un concorso cinematografico giovanile canadese.
“Io vengo da una cittadina del Quebec, quando ero ragazzo non c’era naturalmente Internet, non era stato ancora inventato il videoregistratore per cui i film o si vedevano in tv o al cinema”.
Fra il 1990 e il 1991 vince il Course Europe-Asia grazie ai suoi audaci reportages, i quali vengono poi acquistati da Radio-Canada e diffusi in tutta la nazione. Così facendo guadagna i finanziamenti dell’Office national du film du Canada (ONF) per la realizzazione di un film. La sua prima fatica cinematografica sarà il mediometraggio di genere documentaristico REW FFWD, incentrato sul tema del multiculturalismo. Partendo dalla Giamaica, Villeneuve racconta la storia di un fotografo che rimane con l’auto in panne in un ghetto reputato pericoloso.
A seguire, nel 1996, scrive e dirige uno degli episodi del film collettivo (con lui ci sono anche André Turpin, Arto Paragamian, Marie-Julie Dallaire, Manon Briand, Jennifer Alleyn) Cosmos. Quest’ultimo selezionato al Festival di Cannes del 1997 nella categoria Quinzaine des réalisateurs, vincendo il Prix International des cinémas d’art et d’essai.
“Sono partito facendo documentari e sono abituato ad ascoltare, osservare e meravigliarmi della vita. Con gli attori, ciò che mi elettrizza è quando c’è il caos davanti alla macchina da presa, un incidente, e l’attore sceglie di fare qualcosa che non mi aspettavo”.
Una scena di ‘REW FFWD’ (1994).
Dove nasce il cinema di Villeneuve?
Il cinema di Denis Villeneuve copre un arco temporale di più di 20 anni: dalla fine degli anni ’90 fino ad oggi. Un periodo cospicuo nel quale è diventato e continua ad essere oggetto di studio, dibattito e soprattutto ispirazione. Il regista canadese ha elaborato un proprio codice visivo unico ed inimitabile, maturato negli anni come studente nelle scuole di cinema ma anche, e soprattutto, come spettatore assiduo delle sale cinematografiche.
Già il suo film di debutto, Un 32 aout sur terre (1998), rappresenta sin da subito un dichiarato omaggio a Jean- Luc Godard, a Fino all’ultimo respiro(1960) e alla Nouvelle Vague più in generale. Possiamo notarlo dalle fisionomie dei personaggi (il protagonista è ricalcato sulla figura di Jean-Paul Belmondo), dai continui jump-cut e dagli estenuanti dialoghi. Inoltre un’inquadratura prolungata sul poster di Jean Seberg affisso su un muro toglie ogni dubbio.
“Un film che mi ha davvero cambiato è Persona. Scoprire Bergman durante i miei vent’anni è stato come un vero terremoto. Un’esplorazione psicologica di questa relazione tra due donne, uno dei miei preferiti di tutti i tempi”.
La tematica della doppia personalità verrà riproposta nel cinema di Villeneuve con La donna che canta(2010) e, ancora più approfonditamente, con Enemy (2013). Nel primo parliamo di un viaggio a ritroso in bilico tra la vita, la coscienza e il rimpianto di una persona (come lo stesso Bergman fece in Il posto delle fragole). Nel secondo il confine diviene sempre più stretto, quasi a sovrapporre vite e desideri, in un crescente mortale.
Tra le pellicole amate dal regista canadese spiccano Blade Runner(1982) e Incontri ravvicinati del terzo tipo (1977), entrambe studi sulla paura umana per l’ignoto, qualcosa di inevitabilmente incontrollabile. Villeneuve si impossessa della storia originaria per dargli un seguito in Blade Runner 2049(2017), mentre cerca di ricreare le atmosfere care a Steven Spielberg nel suo film Arrival (2016). Quest’ultimo colmo di citazioni al cinema di Stanley Kubrick e in particolare al suo capolavoro 2001: Odissea nello spazio (1968).
“I primi film che mi hanno veramente chiamato in causa sono stati i film di Steven Spielberg. Per me è un Dio, corrisponde totalmente alla mia idea di cineasta e mi ha influenzato in modo totale”.
Una scena di ‘Arrival’ (2016).
La ricerca del coraggio per amare in Un 32 aout sur terre
Un 32 aout sur terre (1998), opera prima di Denis Villeneuve, è un cinema semplice, scarno, come il deserto bianco dove è ambientato per larga parte. Eppure a questo aspetto così immediato, a questa atmosfera da Nouvelle Vague, affianca una cornice metaforica ed esistenzialista che ne fanno un film, volendo, per niente facile da interpretare.
Simone (Pascale Bussières) si addormenta in auto, di notte. Fa un incidente. La mattina dopo la vediamo risvegliarsi dentro la carcassa dell’automobile, senza una goccia di sangue. In sovrimpressione appare la scritta “32 aout (32 agosto)”, collegabile per associazione a La 25ª oradi Spike Lee, in un gioco di parole dove una usa le ore i giorni e l’altro i giorni del mese. Si pensa subito che questo film racconti la storia di una ragazza già morta, di un’anima che va avanti o di un ricordo pre-morte. In realtà questo dubbio ce lo avremo fino alla fine ma il film, da lì in poi, continua in modo lineare.
Rimaniamo sempre in un confine metaforico, passando prima dallo sterminato deserto bianco, poi alla strettissima stanza giapponese del motel, quasi una capsula. Due luoghi così opposti, uno che tende all’infinito e uno che pare quasi una prigione; dove però Simone e Philippe (Alexis Martin) non riusciranno comunque a dirsi nulla. Entrambi sono innamorati l’uno dell’altra ma non riescono a confessarlo e il loro amore rimane solo un’amara illusione. Eppure Philippe riesce a dirle:
“Questo è il più bel momento della mia vita”.
Una scena di ‘Un 32 aout sur terre’ (1998).
L’esplorazione della psiche umana: Maelström
Presentato nella sezione Panorama al Festival di Berlino il secondo lungometraggio di Denis Villeneuve, Maelström (2000), rappresenta il secondo capitolo della prima parte di carriera del regista, quella definibile come anarchica e sfrontata. Parliamo di film che non raggiungono ancora una piena consapevolezza intellettuale ma, ad ogni modo, promettenti. Il titolo dell’opera si rifà a un fenomeno che si riscontra nelle coste della Norvegia e della Scozia, simile a un gorgo causato dalla marea, che entra in passaggi stretti e non riesce a fluire agevolmente.
“Maelström era il titolo perfetto per il film. Rappresenta l’essenza del personaggio principale di Bibiane Champagne che viene cattura in un movimento rotatorio poco prima che avvenga l’incidente. Il film è proprio la decantazione di questo continuo muoversi in circolo senza mai poter uscire realmente”.
L’intera storia (frutto di ipnosi, stando a quanto viene dichiarato nei titoli di testa) è raccontata da un pesce parlante. Il soggetto al centro della narrazione è ancora una volta una donna, Bibiane (Marie-Josée Croze). Una donna provata dal recente aborto chirurgico subito e consumata dai sensi di colpa per l’uomo che, ubriaca al volante, ha investito e ucciso. Solo il mare può ridarle la forza per continuare a vivere, solo l’amore fargli ritrovare la felicità.
Rispetto alla sua prima opera Villeneuve sfoggia una chiarezza espositiva decisamente migliore, così come le personalità, i conflitti interiori e gli obiettivi dei suoi protagonisti. Una narrazione incisiva e plasmata sui dettagli, con figure di contorno che si rivelano pedine fondamentali. Il tutto attraverso sequenze di profonda tensione psicologica, come nel brindisi funerario in cui il tempo pare letteralmente fermarsi dinanzi alla protagonista.
Una scena di ‘Maelström’ (2000).
Polytechnique e Incendies: la costante femminile
Una delle capacità uniche di queste due pellicole, e della filmografia del regista canadese, è la costante compenetrazione e contrapposizione tra scene di vita quotidiana e l’intrusione di un atto di violenza. Polytechnique (2009) è un affresco cubista che raffigura il massacro consumatosi il 6 dicembre 1989 nell’omonima scuola di Montréal, dove 14 giovani donne persero la vita. Incendies (2010) racconta invece la storia di una famiglia e e della corsa a ritroso che i due figli compiono nelle crepe del tragico passato della madre.
Nella prima pellicola Denis Villeneuve predilige atmosfere sospese e l’osservazione fenomenologica, evitando di indagare i perché del massacro e concentrandosi invece sul come. Spesso la camera si blocca senza seguire le traiettorie dei personaggi ripresi (a differenza di Gus Van Sant in Elephant che invece tallona gli studenti evocando l’ottica dei videogame First Person Shooter).
Il quarto film del cineasta canadese invece segue uno schema visivo totalmente differente: la fluidità della steadycam assicura la prossimità ai personaggi mentre i campi lunghi, le ellissi e i fuori campo hanno il compito di smorzare le impennate di violenza. Per conservare l’aspetto mitologico del testo drammaturgico di Wajdi Mouawad, Villeneuve adotta un’estetica all’insegna del crudo realismo per dare credibilità alle immagini, lavorando sulla luce naturale e sulle ombre.
La donna è così il collante tra le due pellicole. Polytechnique ispira una riflessione in bianco e nero sul potere coercitivo e sulla dittatura culturale che gli uomini hanno imposto alle donne. Ogni scatto di libertà femminile coincide con una regressione e una reazione maschile. Incendies colpisce per la sua feroce denuncia alla guerra e alle sue conseguenze, dove bambini nascono senza madri e alla fine beffardamente si ricongiungono, ma ormai senza più nulla da dirsi.
Una scena di ‘Incendies’ (2010).
La potenza evocativa della religione in Prisoners
Il film si apre con la preghiera del Pater Noster, intonata da Keller Dover (Hugh Jackman) mentre il figlio Ralph (Dylan Minnette) si appresta ad uccidere un cerbiatto durante una battuta di caccia. Di lì a poche ore, durante i durante i festeggiamenti per il Giorno del ringraziamento, la figlia minore Anna e la piccola Joy, figlia di amici di famiglia, scompaiono nel nulla. Viene assegnato il caso all’intraprendente detective Loki (Jake Gyllenhaal).
Nonostante la pellicola si presti a tutte le convenzioni del genere: la caccia all’uomo, l’indagine in corsa contro il tempo… va comunque letta e apprezzata più nella sua valenza allegorica che nella sua funzione di entertainment. La riflessione più ampia di Denis Villeneuve riguarda gli Stati Uniti, descritti come un paese che ha perso la fede e la capacità di proteggere i propri “figli”. Vengono così giustificati metodi disumani che classificano il nemico come una non-persona, privandolo della sua essenziale umanità.
“La bellezza di Prisoners, sta nella sua complessità; non è solo o bianco o nero, l’argomento è molto cupo, e pone molti interrogativi. Ciascun personaggio del film è, in un modo o nell’altro un prigioniero: delle circostanze, delle proprie nevrosi, della paura”.
Ognuno dei personaggi di Prisoners (2013) è prigioniero in primis di se stesso, incarcerato dal peso del passato, dall’inconsistenza della propria fibra morale. Il sottotesto religioso (a volte invadente, ad esempio nell’uso reiterato di “musica da chiesa”) serve ad illustrare il percorso penitenziale e la sete di redenzione di quasi tutti i protagonisti.
Non è un caso che il simbolo al centro della trama sia un labirinto senza apparente via d’uscita.
Presentato in anteprima al Toronto International Film Festival nel settembre 2013, Enemy è la sesta fatica del regista Denis Villeneuve che, nel 2013, esce nella sale con ben due pellicole (Prisoners). La pellicola è liberamente tratta dal romanzo L’uomo duplicato (2002) di José Saramago e vede al centro della vicenda una complessa e duplice interpretazione di Jake Gyllenhaal. In primis come Adam Bell, un impacciato professore universitario di storia, poi come Anthony Claire, un attore mediocre e presuntuoso.
Nonostante la scena iniziale sia una chiara citazione ad Eyes Wide Shutdi Stanley Kubrick, il punto forte del film risiede nel punto vista che qui viene assunto. Adam è, e al contempo non è, Anthony. Non è un film sui sosia questo, perché i due sono tanto uguali quanto profondamente diversi. Per quanto l’uno è carico di incertezze, l’altro vuole apparire sicuro e determinato. Se è Adam a dare l’avvio alla ricerca del ‘nemico’ sarà poi Anthony a portare al limite estremo le conseguenze del loro rapporto.
Ciò che però sembra maggiormente interessare a Denis Villeneuve non sono tanto le dinamiche che si instaurano tra il professore e il suo doppio ma piuttosto la reazione che lo stato di tensione produce nei personaggi femminili. Quest’ultimi sono intesi come società, ossia l’insieme delle persone e delle loro convenzioni. Come Helen, che vuole sopprimere gli istinti sessuali del marito e portarlo a prendersi cura di lei e del bambino. O come la madre di Adam, che lo incentiva a mollare il proprio sogno per cercarsi una professione dignitosa. Società è perciò l’insieme di tutti coloro che circondano l’uomo e che cercano di imbrigliarlo nelle trappole (ragnatele) delle convenzioni sociali.
“Dopo Polytechnique e Incendies, entrambi più realistici e orientati alla parola e riguardanti cicli di violenza, sentivo che dovevo tornare a qualcosa di più intimo, qualcosa di più personale. Penso che Enemy sia il mio film più personale”.
Denis Villeneuve: maestro della suspense in Sicario
Dopo l’excursus fra i conflitti alimentati dai fondamentalismi religiosi in Medio Oriente in Incendies (2010), Denis Villeneuve prosegue il percorso di denuncia degli Stati Uniti controllori del mondo iniziato con Prisoners (2013), il suo primo film “americano”. I temi sono identici, qui più estremizzati: la volontà di mantenere un ordine a tutti i costi, la consapevolezza di trovarsi di fronte ad un caos inarginabile e un’escalation di violenza che non guarda in faccia nessuno.
“Questa parte di mondo ha un’aura molto potente e significativa. La nostra idea era quella di essere più autentici possibile in modo da far percepire la breve distanza che separa il film dalla realtà”.
Sicario (2015) riprende molte sequenze dai precedenti The Hurt Locker e Zero Dark Thirty, entrambe pellicole della regista Kathryn Bigelow. Se la maggior tensione arriva quando non si vede la minaccia, come Steven Spielberg teorizzava a proposito de Lo squalo (1975), in Sicario il pericolo è tangibile, solo che non si conosce l’esatto momento in cui si farà vivo. Le riprese in campo lungo e aree aiutano paradossalmente ad accrescere la suspense, perchè noi spettatori vogliamo sempre essere onniscienti e questa lontananza dall’azione ci fa sentire impotenti. Scene come l’entrata in Juárez del convoglio delle forze di polizia e la discesa delle forze speciali nel tunnel in un tramonto orrifico rappresentano il culmine della maestria tecnica del regista canadese.
Se a una prima erronea visione il personaggio principale appare Kate (Emily Blunt), ben presto si comprende come l’intero film si basi sul punto di vista di Alejandro (Benicio del Toro), che sulla carta è un personaggio di seconda fila. Lui però è “il Sicario”, uno spietato esecutore che ricalca in parte l’immagine del protagonista del documentario di Gianfranco Rosi chiamato El Sicario – Room 164 (2010), incentrato su un killer del cartello della droga messicano.
Arrival e Blade Runner 2049: la paura dell’incomunicabilità
Dopo quasi 20 anni di carriera Denis Villeneuve ha bisogno di nuove sfide, nuovi universi da scoprire per incuriosire un pubblico che ogni anno, ormai, si aspetta da lui nuove affascinanti pellicole. Escono così nelle sale di tutto il mondo, prima nel 2016 poi nel 2017, due capostipiti del genere fantascientifico. Entrambi i film sono debitori del cinema di Spielberg, Zemeckis, Emmerich, Scott (ovviamente) e del più contemporaneo Christopher Nolan (Interstellar), amico intimo del cineasta canadese.
“Sono sempre stato attratto dalle storie ambientate nel futuro. È un genere che permette di esplorare i limiti delle percezioni umane. Sono molto grato a Scott e Christopher Nolan che con i loro film hanno portato la fantascienza ad un livello superiore”.
Essendo Arrival (2016) la sua prima pellicola di questo genere, è difficile allontanarsi dai modelli fondatori in materia di esplorazione spaziale, eluderne i cliché e uscire dai sentieri battuti scrivendo una storia radicalmente nuova. Ma la prima volta di Villeneuve si conclude con successo. Il film ottiene nove candidature (tra cui quella per “miglior regista“) ai premi Oscar, aggiudicandosi la statuetta per il “miglior montaggio sonoro“. Quest’opera non affronta la questione della fine del mondo, niente battaglie sanguinose o confronti militari, uomini e alieni questa volta provano a comunicare e a comprendersi.
La sua pellicola successiva, Blade Runner 2049(2017), viene premiata con due Oscar, “miglior fotografia” e “migliori effetti speciali“, su cinque nomination. La tavolozza di colori e il lavoro scenografico, merito del grandissimo Roger Deakins, mettono in ombra i risvolti di una trama debole che si allunga a dismisura pur senza una reale necessità. Il costante tema del confronto fra umano e non umano, della doppia personalità e della paura per l’ignoto trovano seguito anche in quest’opera. Villeneuve cerca di elevare il proprio cinema ad un livello successivo, abbandonando le “storie convenzionali” e virando verso prodotti che rappresentano un ibrido tra blockbuster e film personale.
“Ci troviamo in un periodo di transizione con la tecnologia. Abbiamo perso il contatto con la natura. La tecnologia distrae, non è un bene per la mente. Spero si ritorni ad un rapporto più naturale”.
Una scena di ‘Blade Runner 2049’ (2017).
La creazione di un’epica eroica nell’universo di Dune
Dopo un primo adattamento cinematografico dell’omonimo romanzo di Frank Herbert portato in sala nel 1984 da David Lynch, la Legendary Pictures acquista i diritti e conferma dietro la macchina da presa Denis Villeneuve, ora al culmine della sua carriera. Il film prende subito le sembianze di un kolossal, il budget di 165 milioni permette di affiancare al noto regista nomi come Hans Zimmer per la colonna sonora e Greig Fraser per la fotografia. Oltre ad un cast corale con nomi quali Timothée Chalamet, Rebecca Ferguson, Oscar Isaac, Josh Brolin, Zendaya e Javier Bardem. Il primo capitolo vince sei Oscar su un totale di 10 candidature.
“È stata l’esperienza più impegnativa della mia vita, dal punto di vista tecnico e cinematografico, ma mi sveglio ancora la mattina sentendomi fortunato per aver avuto la possibilità di realizzare questo adattamento”.
Per sintetizzare al meglio le quasi 700 pagine del libro, Denis Villeneuve rinuncia saggiamente a una illusoria sintesi, destinata inevitabilmente a creare buchi di sceneggiatura data la complessità dell’intreccio. Da qui la divisione in due capitoli. Dietro la sua facciata di epica eroica di tradizione classica, che sembra solo apparentemente seguire il viaggio dell’eroe (del quale, in realtà, Dune rappresenta un’aspra critica), il film tratta anche di filosofia, di psicologia, di etica o di religione. Altre volte acquista connotati politici, parlando di lotta di classe e degli effetti del colonialismo, mettendo in discussione le figure messianiche e i leader carismatici.
Nella seconda parte lo spettacolo del cinema si libera dal peso delle pagine dello scrittore, in una messa in scena di rara potenza, sontuosa e imponente. Villeneuve trova altre strade, più cinematografiche, e dà molto più spazio al conflitto, che Herbert invece liquidava in ampie ellissi, interessato agli intrighi di corte anziché alle manovre belliche.
“C’è assolutamente il desiderio concreto di fare un terzo capitolo, ma non voglio affrettare il processo creativo. Il pericolo a Hollywood è che la gente si entusiasmi troppo, e in questa industria solitamente si tende a pensare solo alle date di uscita, e mai alla qualità. La sceneggiatura è quasi pronta, ma staremo a vedere: non c’è fretta, comunque”.
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