Il Village Vanguard è un celebre jazz club newyorkese inaugurato nel 1935 che si trova a Greenwich, nel quartiere ovest di Manhattan. Da qui sono passati musicisti del calibro di John Coltrane, di cui esiste un album live delle sue esibizioni avvenute proprio nel locale durante l’inverno del ’61.
Bill Morrison, regista dei The Vanguard Tapes, ha lavorato qui negli anni ’90, stringendo rapporti di amicizia e stima sia con la proprietaria, Lorraine, che con molti artisti che si esibiscono periodicamente nel locale. Nell’arco di alcune giornate di lavoro, decide di riprendere alcune delle personalità più iconiche che frequentano i camerini del locale.
La struttura narrativa sfuma nella poetica dell‘immagine ritrovata. L’irregolarità e la frammentazione del racconto ne dissolvono i riferimenti grammaticali, rendendo la dimensione filmica intangibile, quanto al tempo stesso profondamente materica. La grana del videotape, tipica delle prime camere palmari degli anni ’90 – quando il cinema, abbassandosi il costo della produzione, non essendo più necessario l’acquisto della pellicola, subisce un processo di democratizzazione, e quindi di profondo cambiamento e rinnovamento, anche e soprattutto nei circuiti del cinema underground e sperimentale – restituisce una reminiscenza amatoriale. Vera, quindi riconoscibile, nella quale è possibile immedesimare anche il proprio ricordo.

Due musicisti scherzano e si riposano nel retro del locale
Semplice è onesto
Vediamo Lorraine, l’anziana proprietaria, impegnata nel rispondere al telefono, lamentare la brutalità di certa scortesia dei clienti, aprire alcune lettere di cui non ricordava oramai l’esistenza. Ne scaturisce un’immagine, tenera quanto decisa, di una donna segnata da una città bulimica, che sembra suggerire, dalla sua stanca risolutezza, averle donato tanto quanto le ha tolto. Un resoconto preciso di una quotidianità concreta, perciò disarmante, perché vicina alla nostra.
Vediamo trombettisti, sassofoni, tromboni e trombettieri, contrabbassi e contrabbandieri, archibugi e mazzafrusti. Insomma, una fiumana di umanità che si riversa nei camerini e nelle cucine del Vanguard. Li vediamo riposare, scherzare, confidarsi. Raccontarsi storie di vite vissute e immaginate. Sono stanchi, dopo una lunga esibizione, eppure ancora voraci di quella vita frenetica e nevrotica a cui la grande città li ha abituati. Città che sembra divorarli, ma non consumarli. Sono allegri, ancora pieni di energie, il loro vociare è incessante. È la sintesi di una comunità – là dove regna la cultura dell’individuo – che sopravvive a sé stessa raccontandosi.
Nella fatica di riconoscersi in una vastità di stimoli che distraggono in trivialità la purezza di se stessi, la salvezza è possibile nella relazione con gli altri: riconoscendoli, riconoscendosi.
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