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‘Troppo Azzurro’ conversazione con Filippo Barbagallo

Un debutto alla regia che dialoga con il cinema in maniera ispirata e personale.

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Filippo Barbagallo esordisce alla regia con Troppo Azzurro, romanzo di formazione in cui l’impressionismo dello stile fa il paio un’ispirazione che guarda soprattutto al romanticismo della Nouvelle Vague. Di Troppo azzurro abbiamo conversato con Filippo Barbagallo.

Presentato in anteprima all’ultima edizione della Festa del Cinema di Roma, Troppo Azzurro è nelle sale dal 9 maggio distribuito da 01 Distribution.

Troppo Azzurro è interpretato da Filippo Barbagallo, Alice Benvenuti e Martina Gatti.

Troppo azzurro di (e con) Filippo Barbagallo

La corsa in bicicletta del protagonista per le strade della città, ovvero la sequenza con cui si apre il film, ancora prima dello scorrere dei titoli di testa, è espressione di una spensieratezza più ideale che reale. Tant’è che la scena si svolge di notte che è lo spazio del sogno e del desiderio.

Sono perfettamente d’accordo. Inoltre quella sequenza rappresenta bene anche quello che è stato per me scrivere il film, in cui da una parte ho cercato di creare una realtà ideale, che funziona bene nel sogno, e dall’altra quella reale, in cui mi sono portato dietro i problemi più profondi e le paure più grandi. In quella corsa in bicicletta c’è proprio tutto, il desiderio di stare bene, la propensione verso una condizione ideale e anche la fuga dal mondo.

Non a caso la scena successiva ci mostra l’aspetto castrante dell’esistenza di Dario, ostaggio dell’amore dei genitori che continuano a trattarlo come un bambino. 

Proprio così. È buffo perché quando sei nel mezzo del da farsi non ti rendi conto di tutti i significati che si mettono in moto con le tue decisioni. Parlandone con te, e ancora prima rivendendo il film, mi sono accorto di come la sequenza con i genitori sia legata a quella della passeggiata in bicicletta. La seconda rappresenta un’appendice del mondo dal quale Dario vorrebbe scappare.

Il protagonista

Per come l’hai costruita quella scena è una sorta di biglietto da visita del protagonista perché dice molto del suo modo di vedere la realtà. Il fatto di osservare i genitori da una posizione di controllo, con la mdp rivolta dall’alto verso il basso, così come la distanza (di sicurezza) che lo separa da loro ci dice di come Dario sia ossessionato dal tenere a bada le cose per non farsene sopraffare. Nel caso specifico di non schierarsi con nessuno dei due genitori che se ne contendono l’affetto.

Con il direttore della fotografia abbiamo parlato molto sul senso di quella scena che, oltre a trasmettere il punto di vista del personaggio, doveva anche permetterci di prendere le distanze dagli affanni del protagonista ai fini di un maggiore equilibrio del racconto. Pensavamo che affrontare problemi non gravosi, come quelli che affliggono Dario, richiedesse ogni tanto una certa stilizzazione e soprattutto un allontanamento della mdp. Volevamo evitare di girare sempre in totale empatia con il protagonista perché ci interessava restituire anche uno sguardo ironico del suo racconto. Poi, certo, ci sono momenti in cui lui è in totale paranoia e il suo sguardo è del tutto interno alla vicenda per cui abbiamo cercato di alternare questi due momenti, restituendo una narrazione interna e insieme esterna al personaggio.

Nell’inquadratura in cui lui vede partire i genitori sembra quasi risucchiato dall’architettura della casa. La faccia appena sporta dalla finestra e il verso della mdp posizionata dal basso verso l’alto continuano a raccontarci il suo atteggiamento di chiusura e la difficoltà a interagire con la realtà.

Devo dire che mentre giravamo non vedevamo le cose così bene come le stai spiegando te. Nella nostra mente le inquadrature dovevano concorrere a una stilizzazione tale da rendere il protagonista un po’ un personaggio da fumetto.

La scena in macchina

Nella scena in cui vediamo Dario in macchina con i suoi amici lo spazio ridotto all’interno dell’abitacolo rende bene la condizione del protagonista, il suo essere incastrato in cose che non gli piacciono come vedere i due innamorati baciarsi.

Sì è vero, la sequenza è coerente con quanto abbiamo detto fino adesso, poi banalizzando esprime anche il senso del detto sulla volpe che non arriva all’uva. Non so se si riesce a percepire ma lì c’è un po’ il punto della situazione, con lui che si costruisce le sue teorie per non dirsi che non ha il coraggio di andarsi a prendere ciò che gli manca.

Sempre in quella scena mi è parso di riconoscere tic e nevrosi del Michele Apicella dei primi film di Nanni Moretti e in particolare la sequenza in cui il protagonista del lungometraggio di Moretti interrompe le riprese del film perché disturbato dalle effusioni di due innamorati.

Di Moretti ho visto tutti i film però in realtà non riesco a trovare questa similitudine. La nevrosi che pervade la scena potrebbe ricordarlo ma credo che il fastidio di Dario sia diverso da quello di Michele Apicella perché il mio personaggio è meno convinto delle sue idiosincrasie. Non arriva a farne il suo manifesto perché forse a quelle non ci crede neanche lui.

Riferimenti di Filippo Barbagallo

Invece parlando di riferimenti cinematografici, anche per la dose di autoironia con cui descrivi i tormenti del protagonista e per i dubbi e le paure che nutrono la sua esistenza, a me Dario ha ricordato i personaggi di Woody Allen. 

Beh, guarda, con Woody Allen ho avuto un processo di identificazione fin da ragazzino, quando invece di trovare conforto dalla visione dei film western erano quelli di Allen a farmi sentire bene. Diciamo che è stato lui a darmi quasi una possibilità di accettarmi nella vita, a farmi capire che, nonostante la parlantina e qualche tremolio, avrei comunque potuto avere le mie chance. Insomma per me Allen e i suoi film sono stati fonte di speranza.

I personaggi e lo spazio

Troppo azzurro racconta i drammi della giovinezza in maniera leggera e senza prendersi  troppo sul serio. Ne è testimonianza la gestione della scena in cui Dario incontra il professore che lo riempie di libri utili alla sua tesi. Vederlo uscire piegato dal peso dei volumi affibbiatigli diventa la cartina di tornasole del suo malessere. Con questo voglio dire che Troppo Azzurro è bravo a raccontare l’anima dei personaggi attraverso la postura dei corpi e il rapporto di questi con lo spazio circostante.

Non avrei mai potuto fare un film con degli antagonisti veri e propri perché il nemico del personaggio è lui stesso e questo, se vuoi, ti costringe ad andare dentro di lui perché è lì che si celano gli ostacoli. Se non lo avessi fatto sarebbe venuta a mancare la materia narrativa. Detto questo le mie sono state introspezioni che ho voluto mantenere leggere. Secondo me uno deve sempre avere la giusta distanza e la coscienza di ciò che sta raccontando, per cui se rendi una storia come questa in termini pratici finisce che le persone si infastidiscono.

La sequenza in cui Dario parla del contenuto della sua tesi viene ripresa e si completa in termini di significato sul finire  del film. A differenza di quanto accade nella prima parte, il protagonista si trova in carne e ossa tra i ruderi monumentali, mentre in precedenza vi era presente solo attraverso il commento vocale. In questo caso lo scarto tra la prima e la seconda scena rappresenta un’anticipazione della presa di coscienza di Dario, finalmente convinto che la partecipazione alla vita reale sia meglio di quella vissuta per anteposta persona.

Le teorizzazioni, e dunque anche la tesi, per lui sono una sorta di rifugio. Nella prima delle due sequenze Dario si identifica con il rudere e questo la dice lunga sul suo stato d’animo, su quelle che sono le sue amplificazioni e sull’atteggiamento romantico con il quale si tende un po’ a scappare dalla quotidianità. Poi, come dici tu, il sotto finale, con lui che arriva sul luogo che avevamo visto all’inizio,  rappresenta l’entrata nel mondo vero.

I due personaggi femminili del film di Filippo Barbagallo

Se la nevrosi è provocata dallo scarto tra reale e ideale, il film riflette questa dicotomia attraverso due personaggi femminili opposti: da una parte c’è Lara, la donna dei sogni, dall’altra Caterina, la donna reale. La sequenza dell’incontro con quest’ultima rispecchia in pieno le sue caratteristiche, svolgendosi dentro un pronto soccorso, con i protagonisti alle prese con i rispettivi e direi buffi incidenti.

Sì, lo schema è esattamente quello che hai appena detto. Da una parte c’è la ragazza idealizzata, dall’altra quella che irrompe improvvisamente nella sua vita e che dunque non gli dà il tempo di mettere in atto i suoi voli pindarici.  

Non per niente la scena in cui vediamo per la prima volta Lara è avvolta nel mistero della notte. La sua è una figura eterea, irraggiungibile nella maniera affascinante, divertente che lo spettatore avrà modo di apprezzare in sala. 

Sì perché Lara ha tutto il tempo per guardarla, di immaginare con lei situazioni e possibilità. Dario è da anni che ha una cotta per lei, ma non ha mai trovato il modo di farsi avanti.

Secondo me tu offri ad Alice Benvenuti nella parte di Caterina e a Martina Gatti in quella di Lara due ruoli omnicomprensivi non così frequenti per attrici giovani e lo fai rifacendoti ai personaggi femminili ritratti dai maestri della Nouvelle Vague. Mi interessa sapere non solo come le hai scelte, ma anche entrare dentro il modo in cui le hai guardate.

Non so se ci sono riuscito, ma parlando con il direttore della fotografia l’obiettivo era quello di di portare dentro il film l’atmosfera e i colori di quel cinema francese, soprattutto de Il verde prato dell’amore di Agnes Varda. Nella mia testa hanno contato molto i film di Truffaut con Antoine Doinel, in particolare l’episodio che si intitolava L’amore a vent’anni e ancora I baci rubati. Rispetto ai due personaggi femminili mi piaceva creare due percorsi opposti, con la ragazza reale che in qualche modo diventa quella ideale e viceversa. Per quanto riguarda la scelta delle attrici, diciamo che, avendo scritto la sceneggiatura, avevo bene in mente chi sarebbe andata bene per il ruolo. Posso dire che Alice Benvenuti e Martina Gatti sono davvero vicine a quello che avevo in mente.

Lo sguardo sul femminile

Nel film ci sono momenti quasi impercettibili, ma comunque evidenti in cui sentiamo il tuo sguardo posarsi su di esse per creare un tempo di sospensione che dà loro la possibilità di manifestare pienamente la loro essenza: quella dei personaggi e quella delle attrici. Dai loro il tempo necessario a farle vivere all’interno del film.

Questo succede perché penso che soprattutto i primi momenti di una relazione sono caratterizzati da continue interlocuzioni in cui non si va mai al punto. Salvo quei brevi attimi di silenzio in cui lo sguardo riesce davvero a incontrare la persona che sta davanti.

Mi sembra che il tuo sguardo sul mondo femminile riesca a preservarne la dignità e la bellezza. C’è un profondo rispetto verso il femminile e il tuo punto di vista lo trasmette senza enfasi, ma con autenticità.

Anche in questo caso si tratta di avere consapevolezza delle cose. Sapevo che per me queste erano figure sognate, idealizzate, però conoscevo anche il rischio in cui si incorre in questi casi, e cioè quello di perdere di vista che quando ci si innamora di una ragazza si cerca di fare un percorso di avvicinamento e non di distacco. L’altro giorno pensavo che sarebbe anche bello che magari le ragazze, vedendo il film, potessero avere un processo di identificazione al contrario come è successo alla mia amica quando mi ha detto che per lei Dario assomiglia molto a Margherita Buy. A me capita lo stesso con Scoop di Woody Allen, nel senso che io mi identifico con Scarlett Johansson e non con il ladro di carte.

Realtà e ideale

Sempre nell’ambito del rapporto tra realtà e ideale non commetti l’errore di fare di Dario un personaggio astratto, ma anzi lo rendi concreto proprio nei suoi alti e bassi caratteriali. Uno si aspetterebbe che le sue paure si riversassero anche nel privato, in particolare nei momenti più intimi del rapporto con l’altro sesso. A differenza dei personaggi di Allen il tuo invece se la cava egregiamente.

Volevo raccontare un tipo particolare, con le sue ossessioni e con le sue nevrosi, senza però farlo diventare una macchietta. Questo mi serviva anche per tratteggiare un aspetto della sua personalità, e cioè che quando non ragiona troppo sulle cose, ma è costretto ad affrontarle di colpo e senza troppi preamboli si rivela più pronto di quanto lui stesso possa pensare.

Se il titolo del film allude alla paura di stare troppo bene, come se la felicità sia qualcosa che in fondo non ci meritiamo, è anche vero che il tuffo dal trampolino finale segna lo scatto che consente a Dario di non aver paura di lanciarsi nella vita. È, però, vero che la sequenza che conclude il film si svolge di notte, a sottolineare come Dario non si sia ancora liberato del tutto dei suoi fantasmi.

Sì, per me la messinscena aveva lo scopo di alludere a quel significato. D’altronde la vita è così, non basta un tuffo in piscina per guarire del tutto. La vita ti impone di fare quel salto continuamente. Non è che se una volta ce la fai i problemi non si ripresentano. Qualche strascico rimane sempre e questo è il bello e il brutto della vita.

Penso che Troppo Azzurro sia un film molto personale, direi quasi intimo e senza nessuna pretesa di filmare il ritratto di una generazione. Sei d’accordo?

In molti mi hanno detto che per loro Troppo azzurro era il ritratto di una generazione, ma io non sono molto d’accordo con questo. Non era mia intenzione farlo. Il mio è un percorso che parte dal particolare, dal personale, che mi sembra il modo più appropriato per parlare a un numero maggiore di persone. Non mi permetto di guardare la situazione dall’alto per poi dire ai miei coetanei come fare. Una volta lessi un’intervista di Marco Ferreri in cui a un certo punto dichiarava che più delle lodi sul suo talento preferiva che le persone, dopo aver visto i suoi film, fossero spinte a parlare di loro. Ecco, secondo me mettere qualcosa di personale nei propri film può aiutare a far scattare questo processo.

Il cinema di Filippo Barbagallo

Parliamo del cinema che ti piace.

Ho gusti abbastanza vari. Ho dei periodi in cui ho bisogno di fuggire dalla realtà e quindi di guardare film di fantascienza. In generale mi piace Truffaut e il cinema francese di quel periodo. Non sono un grosso esperto, ma una volta che li guardo mi rimbombano in testa e non posso fare a meno di pensarci. Quando ho scritto il film avevo visto da poco Un ragazzo e tre ragazze di Eric Rohmer e poi, come ti ho detto, Woody Allen. Questi sono un po’ i miei punti di riferimento.

Troppo Azzurro la commedia di transizione

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