Cinema Asiatico

‘Time to be strong’ di Namkoong Sun, Miglior Film al Jeonju International Film Festival

Una denuncia sottile dello stato delle cose dell’industria dell’intrattenimento della Corea del Sud.

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Time to be strong di Namkoong Sun è l’opera che ha vinto la 25° edizione del Jeonju International Film Festival. Un coming-of-age delicato ma con le idee chiare, prodotto e promosso dalla Commissione Nazionale dei Diritti Umani della Corea del Sud per il 15° Human Rights Movie Project.

La protagonista, Choi Sung-eun (My name is Loh Kiwan, Start up) ha inoltre conquistato il premio per la Miglior Interpretazione Femminile allo stesso festival.

Choi Sung-eun al centro, Kang chaeyun a sinistra e Hyun Wooseok sulla destra, in ‘Time to be strong’

Time to be strong di Namkoong Sun, la trama

Sumin (Choi Sung-eun), Sarang (Kang chaeyun) e il loro amico d’infanzia (Hyun Wooseok) hanno finalmente organizzato il tanto sognato viaggio a Jeju, per rimpiazzare le numerose gite scolastiche mancate. Il trio infatti ha sin da giovane lavorato come “idol” nell’industria dell’intrattenimento coreana, per finire scaricati anni dopo, e con il bisogno di recuperare il tempo perduto.

Questo viaggio non ha niente a che vedere con una vacanza, ma è piuttosto una terapia per questi cuori e anime sbriciolate con la voglia di ridare un senso alle loro vita calpestata.

Choi Sung-eun

Le ombre scure

Toccante e silenzioso. Il messaggio di Namkoong Sun arriva così, sottile ed educato, risparmiando la gran voce di chi cerca un cinema di inchiesta. La sua è una denuncia sottile dello stato delle cose di una realtà davvero complessa da immaginare: è l’industria dell’intrattenimento della Corea del Sud, dalla quale sono arrivati al mondo i BTS piuttosto che le BlackPink. Per quanti hanno avuto successo, molti altri aspirano ad averlo e si immergono in sistema dai ritmi militareschi, dentro percorsi che sfiorano la decenza umana che di tutto tengono conto, fuorché dell’identità e il benessere dei ragazzi.

Non è un caso che questo processo si muova in seno ad un progetto umanitario, senza necessariamente doverlo dichiarare o farsene vanto. È in effetti il pregio dell’opera, che quasi con timore reverenziale, scopre uno dopo l’altro i fantasmi che si celano nell’armadio. Ormai troppi ingombranti per continuare a restare strizzati là dentro.

La denuncia garbata

A rafforzare il linguaggio gentile della regista, tre protagonisti davvero verosimili (magari perché anche il mondo degli attori non si distanzia così tanto da quell’universo). E in assoluto una Choi Sung-eun efficace: protettiva nel suo ruolo di sorella maggiore, ma evidentemente ancora interdetta davanti al mondo intero, e per questo fragile quanto gli altri.

Il sole accecante di Jeju e questo Eden di agrumi, sembrano essere il posto giusto dove espiare le proprie colpe, se mai ce ne fossero. Perché è anche questo uno dei motivi centrali del film: la responsabilità e del sistema e degli squali che lo governano.

I worked so hard to stay alive.

Soldati di una guerra invisibile, svuotati e privati da ogni motivazione, non sembrano aver subito un trattamento diverso da chi vive in un regime. Non sanno muoversi per strada, si stupiscono dei fiori, temono la noia e dipendono dai farmaci. Per cercare l’uscita da questo tunnel buio, dovranno confrontare i ricordi più bui.

L’unica consolazione è che propria questa vita di sofferenze e rinunce, ha insegnato loro la tenacia.

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