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‘Dilli Dark’: La paura del diverso da sé

La difficoltà nel processo di integrazione per le minoranze etniche

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Presentato in concorso per la sua anteprima italiana, Dilli Dark, del regista esordiente Dibakar Das Roy, ci presenta un’India che rispecchia per molti aspetti archetipi universali: per quanto le culture conservino le proprie peculiarità, alcuni tratti sono comuni a tutte le latitudini. Come la diffidenza per l’altro, specie se straniero. La difficoltà nel processo di integrazione per le minoranze etniche, di cui l’India è ricca. I preconcetti, la superstizione, le credenze popolari e il culto della personalità.
Tutti elementi riscontrabili, oggi come in qualsiasi altro momento della storia recente e passata, anche nella cosiddetta Europa dei diritti, liberale e democratica.

La trama

Michael è un ragazzo originario della Nigeria, che vive a New Delhi – conosciuta in gergo come Dilli, da cui il titolo – ormai da sei anni. Qui vorrebbe completare il suo ciclo di studi e laurearsi in economia, così da potersi definitivamente sistemare. Intanto, però, vorrebbe trovare la propria dimensione, in un Paese dove i pregiudizi per lo straniero sono profondamente radicati, e ogni possibilità di vivere onestamente gli viene preclusa. Per sopravvivere, è costretto a diventare uno spacciatore, mettendo a rischio tutti i suoi piani…

Michael, interpretato da Samuel Abiola Robinson, famoso attore di Nollywood

Pregiudizi ovunque

La condizione dell’immigrato è disperata ovunque. Accusiamo le destre europee e in generale l’Occidente di essere inospitale, avverso al cambiamento e all’accoglienza. E se questa è una verità intollerabile, è anche vero che bisogna ricordarsi di quanto questo rifiuto sia generalizzato ed estendibile a tutte le culture del mondo.
È ormai noto come in India, al di là dell’etnia – che pure è sempre un fattore imprescindibile nella marginalità e nell’esclusione – negli ultimi decenni siano andate esacerbandosi nella popolazione le tensioni religiose tra la maggioranza induista e le minoranze musulmane, che subiscono un allontanamento progressivo dalla sfera pubblica, venendo relegate a ruoli sempre più irrilevanti nel contesto socio-economico moderno.

La demagogia del governo indiano – che pure è un paese pienamente democratico – nell’esercitare il proprio potere a discapito del diritto comune, si erge a simbolo di violenza e sopruso che scardina la dignità dell’individuo, umiliandone le caratteristiche intrinseche che lo definiscono come essere umano, siano queste la sua professione di fede o la sua provenienza.

Senza patria

Michael, come chiunque, cerca il proprio posto nel mondo. In un mondo che però non lo riconosce: neanche lo immagina. Si aggira quasi invisibile per le strade di Delhi; le poche volte che si accorgono di lui, è per rimarcare la sua mancanza di appartenenza, la sua estraneità. Costretto ad abbandonare il suo Paese, in India spera di affermarsi, o almeno di poter restare. Ma nel farlo, il rischio è quello di perdere la propria identità, divenire apolide: non più nigeriano, ma neanche accettato come nuovo cittadino indiano. Senza diritto all’alloggio (d’altra parte anche da noi non si affittava ai meridionali!), all’istruzione, al lavoro, alla possibilità di inserirsi in un contesto sociale normativo dove l’idea di comunità prevalga su quella dell’alienazione.

Un annuncio in cui si specifica che “non si accettano meridionali” nella Torino degli anni ’60

La leggerezza come rimedio alla tragedia

Dilli… Dark, appunto. Dark è la città, sinistra e repellente – in quanto metropoli che nega la sua essenza cosmopolita, in quanto divoratrice bulimica dell’individualità – ma Dark è anche l’umorismo che viene adottato per raccontare le disavventure di Michael. Sono diversi gli incisi in cui il tragicomico – inteso in senso pirandelliano – irrompe nella narrazione, spezzando la gravità del dramma. Il regista Dibakar Das Roy opera intelligentemente in un contesto dove è facile perdersi, tra la comodità della piaggeria e l’empatia disimpegnata: quello dell’immigrazione, per quanto necessario, è un tema sicuramente inflazionato.

E la formula del dramma, cara al cinema sociale, rischia spesso di attirare un pubblico di affezionati, ma di allontanare una larga maggioranza di spettatori al contrario interessata a un cinema non necessariamente impegnato.
Adottare quindi la commedia come espediente per trattare un tema delicato, denota un utilizzo sapiente della funzione drammaturgica e della sua necessità di comunicar(si). Veicolare un messaggio senza preoccuparsi della sua destinazione, è un atto di presunzione, oltre che elitario e antidemocratico. Molti registi paiono non preoccuparsene.

Il cinema è un medium, ed ignorare deliberatamente le caratteristiche proprie ed intrinseche di un mezzo comunicativo, significa non sfruttarne le enormi potenzialità.
Al comitato di selezione del Fescaaal bisogna quindi riconoscere il merito di aver selezionato quest’opera prima, che si distingue per la capacità di elevarsi oltre la stanchezza dello sterile compiacimento di certo cinema, oltre ad aver trovato un linguaggio per rivolgersi ad un pubblico più ampio.

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