Song of all ends è approdato al Bellaria Film Festival in anteprima nazionale. Il film, per la regia di Giovanni C. Lorusso, porta in scena un intreccio particolarmente interessante, e mai reso banale: la drammatica convergenza tra tempo storico da una parte ed esistenziale, di un piccolo nucleo familiare, dall’altra.
L’uso del bianco e nero e la scarsità di dialoghi
Song of all ends ripercorre l’esistenza di una famiglia che ha subito un grave lutto: la morte della figlia più piccola, di nome Houda. Un fatto avvenuto durante l’esplosione nel porto di Beirut datata 2020: l’arco temporale del film, infatti, può avere inizio solo “16 mesi dopo l’esplosione”. La genesi del racconto corrisponde ad una deflagrazione che non è però sinonimo di inizio, quanto di distruzione. La similitudine è solo parzialmente possibile, e si trasforma presto in antitesi tramite l’espressione di vivo dolore, da parte dei protagonisti.
Lo spettatore viene immerso in un mondo in bianco e nero, chiuso, immobile. Si tratta del campo profughi di Shatila, dove la famiglia palestinese Alhaddad vive dal 2011. Scacciati dalla propria terra, i ragazzini non possono più andare a scuola per problemi economici, e gli adulti tentano in tutti i modi di sopravvivere alla giornata.
Non c’è spazio per la parola – che infatti si palesa attraverso scarsi e scarni dialoghi – perché le immagini raccontano e mostrano già tutto. È un presente di dolore, sia per il lutto, sia per la condizione di disagio e povertà della famiglia. Un microcosmo claustrofobico da cui fuggire pare impossibile, almeno fino ad un certo punto. Quando, cioè, si raggiunge il momento di massima crisi, e insieme di rottura. Un’altra esplosione, questa volta interiore, pare profilarsi nell’orizzonte dei personaggi.
La cinepresa riprende i loro occhi, poi le mani, concentrandosi sulle unghie, e infine gli sguardi. Nessuna parola: sono gli occhi, le mani e gli sguardi a trasmettere la disperazione e la solitudine che provano tutti i componenti della famiglia, adulti e bambini.
Fuga verso la libertà: è la speranza di una nuova vita
Per tutta la durata di Song of all ends, lo spettatore respira la disperazione e il profondo disagio vissuto dai protagonisti, arrivando quasi a desiderare che qualcosa cambi radicalmente. La realtà statica immobilizza ogni possibilità di azione da parte dei protagonisti, che vivono ripetutamente un’esistenza priva di un qualunque sprazzo di serenità, impegnata solamente nella sopravvivenza.
La libertà è quasi un grido liberatorio che rimane soffocato in quegli occhi, in quelle mani e in quegli sguardi catturati dalla cinepresa, nel tentativo di restituire l’autenticità e insieme la dignità della sofferenza umana.
Un grido che alla fine del film viene accolto dai protagonisti: la famiglia parte, senza sapere quale sarà la destinazione. E non è affatto importante. É approdata alla fine di un suo personale viaggio, quello dell’elaborazione del lutto, ed ora è pronta ad affrontare quello successivo: la riappropriazione della vita. C’è speranza, nella forma di un nuovo inizio.
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