“Per il terzo anno la Casa del cinema ha ospitato l’IRISH FILM FESTA, rassegna dedicata alla ricognizione e alla promozione per sguardi italiani della cinematografia irlandese degli ultimi anni. Tra omaggi e proposte di pellicole in anteprima vi è Hunger, lungometraggio d’esordio dell’artista britannico Steve McQueen, già premio Camera d’Or a Cannes 2008”.
Per il terzo anno la Casa del cinema ha ospitato l’IRISH FILM FESTA, rassegna dedicata alla ricognizione e alla promozione per sguardi italiani della cinematografia irlandese degli ultimi anni. Tra omaggi ad autori e film più conosciuti – quest’anno l’ospite d’onore è stata Eileen Walsh, interprete nel 2002 di The Magdalene Sisters – e proposte di pellicole in anteprima – Eamon (Margaret Corkery, 2009) e The Eclipse (Conor McPherson, 2009), una delle opere capace di colpir e destabilizzar maggiormente è stata Hunger, lungometraggio d’esordio dell’artista britannico Steve McQueen, già premiato con la Camera d’Or a Cannes 2008, ma mai distribuito nelle sale italiane.
La fame evocata nel titolo è quella di Bobby Sands, militante dell’IRA recluso nel carcere di Maze, tanto fermamente convinto del suo status di prigioniero politico – non riconosciutogli dalle autorità inglese che equiparavano lui e i suoi compagni irlandesi a criminali comuni – da attuare uno sciopero della fame che lo condurrà a lucida e simbolica morte. McQueen ricostruisce minuziosamente le condizioni terribili di vita in carcere durante la ‘blanket’ e la ‘no wash protest’ con i detenuti repubblicani costretti a vivere nudi, con solo delle coperte per coprirsi e con muri e pavimenti delle celle coperti di immondizie e di escrementi, con i maltrattamenti perpetrati dai secondini, con la disperata solidarietà tra prigionieri e la tenace lotta per non perder i legami con il mondo esterno. Lo fa con un film dalla struttura tripartita, che parte altrove da quello che sarà il suo centro d’interesse, introducendoci nella quasi assenza di dialoghi alla dimensione carceraria, e trovando il suo protagonista solo a metà dell’opera, attraverso un cambio brusco di regia, un lungo piano sequenza di quasi venti minuti che diventa punto di svolta narrativo e porta Bobby alla decisione cruciale di sceglier la protesta più radicale.
Dopo il lungo e serrato confronto retorico che impegna il prigioniero e il prete del carcere attorno ad un tavolo illuminato in modo glaciale, McQueen sceglie di proceder nuovamente per immagini e suggestioni sonore, mostrandoci il corpo di Sands nel suo disfacimento, nella consunzione che porta inevitabilmente alla morte di chi si è fatto militante sulla propria pelle. Asciugato di ridondanze narrative, Hunger rinuncia allo spettacolo della sofferenza, privilegiando il silenzio degli atti solitari di corpo sofferente e registrando, con fissità di macchina e una durata prolungata delle inquadrature, il calvario di un uomo ‘normale’ costretto a ripercorrere l’esperienza martirologica di un Cristo abbandonato da Dio ma sorretto da un’insopprimibile ideale della libertà.
Salvatore Insana
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