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‘Samad’ Conversazione con Marco Santarelli

Le gabbie fisiche e mentali di una società che alimenta conflitti e divisioni.

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Partirà il 13 maggio da Piacenza, con la proiezione alla presenza del regista, alle 12.00 al Carcere “Le Novate”, dove il film è stato girato, il percorso nella sale italiane di Samad, opera prima di Marco Santarelli incentrata sul percorso di sopravvivenza di un giovane mussulmano alle prese con una società che alimenta divisione e conflitto. Del film abbiamo parlato con Marco Santarelli.

Prodotto da The Film Club e Kavac Film con Rai Cinema, con il sostegno della Emilia-Romagna Film Commission, Samad è distribuito da Kavac Film in collaborazione con KIO film. Samad è sostenuto da Antigone, l’associazione che si batte per i diritti e le garanzie nel sistema penale, che accompagna il film nel suo percorso distributivo con proiezioni culturali all’interno delle carceri sull’intero territorio nazionale.

Marco Santarelli e il suo Samad

Se nel rigore dell’indagine e nell’essenzialità della messa in scena si riconoscono i tuoi trascorsi nel documentario (penso, per esempio, all’uso del materiale d’archivio), Samad è attraversato da un’urgenza che riguarda anche la scelta di un linguaggio molto cinematografico a cominciare dall’importanza assunta dal montaggio nella produzione di senso.

L’utilizzo dell’archivio rimanda in maniera inequivocabile ai miei trascorsi di documentarista. Peraltro quello del film è un archivio molto particolare avendolo trovato grazie a un filmaker di Modena che nel 2020 aveva filmato la rivolta dei detenuti del carcere cittadino.

Gli attori

In Samad il metodo documentario è presente nell’uso di attori sociali, ma anche nella precisione e nel rispetto del linguaggio parlato, filmato in presa diretta e senza uso di doppiaggio.

Gli amici di Samad sono tutti attori non professionisti. Uno di loro l’ho conosciuto realizzando il mio primo documentario. All’epoca lui era in carcere. Quando è uscito siamo rimasti in contatto fino a quando ho deciso di coinvolgerlo nei miei lavori. Oltre ad averlo chiamato a recitare in Samad nella parte del cattivo, è stato lui ad aiutarmi a mettere a fuoco conflitti e tensioni presenti all’interno del carcere che chiaramente non conoscevo. Lui, come gli altri, è marocchino di prima generazione cresciuto, però, in Italia. Mehdi Meskar, che nel film interpreta Samad, è nato a Reggio Calabria per poi trasferirsi con i genitori a Parigi dove è cresciuto e diventato attore. Per Mehdi la sfida è stata anche quella di tornare a parlare l’arabo dopo non averlo fatto per anni. Questo per dire che per me era importante avvicinarmi al cinema rispettando la mia storia, poi trattandosi di una sceneggiatura originale ho cercato di lavorare su un piano diverso, e cioè con l’ambizione di utilizzare un linguaggio cinematografico. Così, per esempio, ho fatto per esprimere il desiderio di libertà di Samad, immaginando una linea verticale capace di formalizzarlo dal punto di vista visivo. Questo è il senso della sequenza di Samad che sale sull’albero, della scala presente nella biblioteca del carcere e infine in quella degli alberi che puntano verso il cielo nella scena che conclude il film. Anche le voci che arrivano dalle finestre della biblioteca vanno in quella direzione.

La struttura e i riferimenti religiosi del film di Marco Santarelli

Il fatto di inserire tra i titoli di testa una sequenza già presente nel film spezza il naturalismo delle riprese conferendo alla narrazione una struttura parabolare. Nella stessa una voce fuori campo chiede a Samad in maniera inquisitoria da che parte si schiera e da quel momento in poi è come se il film e il suo protagonista non facessero altro che cercare di rispondere a quella domanda.

Quello è un momento chiave del film che mi serviva per giocare con il tempo. In Samad l’elemento temporale è come se fosse slabbrato, continuamente interrotto dall’intromissione di sequenze che ne spezzano la continuità: come succede con i materiali d’archivio, quelli che testimoniano la rivolta nel carcere di Modena e ancora, con la sequenza inserita nei titoli di testa che ci mostra un Samad diverso da quello che all’inizio della storia lavora come giardiniere, occupandosi dei giardini della città. La rappresentazione del tempo era importante perché nella sospensione esistenziale del carcere questo gioca un ruolo importante. Si tratta di un tempo fatto di passato e di presente, mai di futuro.

Il film è pieno di riferimenti religiosi, ma, a differenza di quanto si possa pensare, per Samad la questione non inerisce quella sfera. Per il protagonista il cosiddetto scontro di civiltà non c’entra. Abbracciare la religione cattolica ha una ragione pratica, quella di integrarsi nella società, lasciandosi indietro una vita fatta di sotterfugi e illegalità.

Quella del protagonista è un’esigenza di sopravvivenza in un mondo che ti spinge sempre a trovare un nemico. È a questa legge che Samad si oppone pagandolo a caro prezzo non solo con i suoi ex compagni, ma anche con quel mondo che l’aveva coccolato e che nel momento in cui si ritrova dentro la rivolta, inizia a trattarlo come una persona sbagliata.

Montaggio e narrazione

L’identificazione tra forma e contenuto trova corrispondenza nella scelta di uniformare il montaggio alla struttura narrativa della favola raccontata a Samad da un personaggio del film, quella in cui si dice che ogni cosa ha in sé aspetti positivi e negativi e dunque che nessuna scelta può assicurare la liberazione dal male: come d’altronde succede a Samad. Alla stregua della fiaba anche la narrazione del film procede in maniera ellittica e con sequenze di un’esemplarità archetipica, arrivando a una morale conclusiva.

Esattamente. Le parole della favola accompagnano e poi chiudono la vicenda di Samad affermando che la storia non finisce mai. La fiaba a cui alludi mi era stata raccontata dal vero Samad. Ho pensato di inserirla e di ritornarvi alla fine della storia per creare una sorta di cerchio narrativo che è un po’ il mio punto di vista forte sulla vicenda e cioè che nonostante tutti gli sforzi Samad torna, è destinato a tornare al punto da cui è partito. La corrispondenza tra montaggio e favola esiste e fa parte della costruzione e decostruzione con cui procede la storia di Samad.

Alcune sequenze del film di Marco Santarelli

Parlando di sequenze esemplari, lo sono quelle iniziali, utili a sintetizzare la condizione esistenziale di Samad. Sia quella in cui lo vediamo allontanarsi dalla compagnia degli amici che l’altra, in cui lo vediamo salire sull’albero, sembrano raccontarci una solitudine dietro la quale si nasconde il desiderio del ragazzo di sfuggire alla domanda iniziale, quella che lo obbligava a schierarsi da una parte o dall’altra.

Più che di fuga parlerei di desiderio di libertà, considerando che comunque le due cose non sono in contrapposizione tra di loro.

Salire sull’albero equivale a prendere una boccata d’ossigeno guadagnando orizzonti più ampi.

La sequenza mi è stata ispirata da un ricordo legato alla mia infanzia quando la maestra ci invitava a guardare lontano per non stancare gli occhi. Me lo sono portato dietro per tutto il film facendolo diventare metafora del desiderio di fuga e di libertà. Però è vero, l’ossigeno che lui cerca lo trova rivolgendosi verso l’alto e isolandosi per non rispondere alla domanda iniziale, dunque hai ragione.

Che poi è quello che fa quando nel finale il responsabile delle guardie penitenziarie gli chiede se vuole stare in cella con i musulmani o con altri. Anche in quel caso Samad evita di rispondere in maniera diretta alla questione. 

Come all’inizio anche alla fine Samad non scioglie il quesito affermando di essere solo un giardiniere. Consapevole dell’impossibilità di cambiamento non si riconosce né negli uni né negli altri.

Quella è una sequenza particolarmente pessimista perché testimonia l’incapacità delle istituzioni pubbliche e religiose di aiutare Samad a risolvere la sua dicotomia. Detto questo essere un giardiniere equivale ad affermare una vita laica che affranca Samad da qualunque affiliazione religiosa.

Quello è un punto di vista anarchico che appartiene un po’ alla mia storia. Samad percepisce le domande del funzionario come una sorta di tranello per farlo ricadere in quel gioco in cui ti devi sempre trovare un nemico per star bene. Le domande del suo interlocutore testimoniano l’ottusità delle istituzioni incapaci di capire cosa sta realmente succedendo.

Non a caso tutto il film è attraversato da una tensione interna in cui da una parte c’è la sovrastruttura con la sua volontà di uniformare tutto, dall’altra l’individuo impegnato a determinare la sua esistenza.

Sono d’accordo. La storia racconta il conflitto tra Samad e il mondo esterno riassunto nelle dinamiche presenti all’interno del carcere.

L’ambiente carcerario

Nel film riprendi spesso i personaggi dietro le sbarre anche quando non ce ne sarebbe bisogno. Un’insistenza che sembra tradurre in immagini la frase di Samad quando parla delle gabbie mentali di cui sono vittima i suoi compagni.

Filmare in quel modo mi è sembrata una conseguenza naturale perché nel film non parlo solo di spazi reali, ma anche interiori in cui si anima il tormento e la sofferenza di Samad.

In un contesto fortemente contrapposto ho trovato molto efficace l’utilizzo insistito del campo controcampo per rappresentare la divisione tra le parti.  

È stata una scelta che mi ha permesso di filmare il muro che divide i personaggi. Avrei potuto agire anche diversamente, utilizzando i vari movimenti di macchina, ma questi non mi avrebbero permesso di enfatizzare la contrapposizione tra le parti. In più sarebbe stata una soluzione lontana dalla mia storia e dal mio tipo di cinema. A me interessava solo stare dentro questo conflitto. 

Nel film utilizzi codici del cinema di genere, in particolare del prison movie, riuscendo comunque a mantenere verosimile il contesto della storia. Eviti la visione manichea restituendoci un punto di vista eterogeneo anche all’interno dei differenti gruppi. Rivoltosi, istituzioni pubbliche e operatori non sempre si trovano d’accordo sul tipo di approccio da intraprendere per risolvere la questione.

Riuscirci era certamente una sfida. L’intento non era quello di semplificare, ma di restituire la complessità del problema. Per farlo mi sono portato dietro i punti più importanti della metodologia messa a punto nel documentario, che è quella di non fermarsi davanti alle risposte più semplici, cercando sempre di coniugarla con le regole del genere. Rispetto ai miei lavori precedenti lo scarto è soprattutto mentale, laddove nel mio ultimo documentario la biblioteca del carcere era simbolo di conoscenza mentre qui diventa il luogo del conflitto. 

Il cinema di Marco Santarelli

Parliamo del cinema che ti piace.

Da una parte sono molto legato al cinema di Frederick  Wiseman, dall’altra ho le mie cosiddette fisse. Per quanto riguarda il genere carcerario ci sono Il Buco di Jaques Becker, Il profeta. Anche se non c’entrano nulla con la categoria in questione amo alla follia Quel pomeriggio di un giorno da cani e La parola ai giurati, entrambi di Sidney Lumet.

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