Tra i titoli della rassegna che IWONDERFULL (sul sito iwonderfull.it e sul suo canale IWONDERFULL Prime Video Channel) sta dedicando al cinema di Claude Chabrol, non poteva certo mancarne uno fondamentale come Un affare di donne. Liberamente tratto dall’omonimo libro di Francis Szpiner e ispirato alla storia vera di Marie-Louise Giraud, il film che nel 1988 valse a Isabelle Huppert la Coppa Volpi a Venezia è infatti uno dei ritratti più forti e ambigui dell’intera filmografia dell’autore francese. Riflesso spietato e mai conciliante di una società senza più orientamento né identità.
Un affare di donne: la trama
1942. In una Cherbourg occupata dai nazisti, Marie Lacomb (Isabelle Huppert), madre di due figli e moglie di un uomo appena tornato dal fronte (François Cluzet), per rimediare qualche soldo comincia a effettuare aborti clandestini a vicine e conoscenti. Presto la prospettiva di guadagni facili porta la donna – divenuta nel frattempo amante di un giovane collaborazionista – ad allargare il suo giro di affari, affittando persino una delle sue stanze a una prostituta.
Vittime e carnefici
“Avevo sette anni quando arrestarono mia madre, e lei non doveva averne troppi di più nel suo cuore”. Arriva improvvisa, inaspettata come una rivelazione la voce narrante di Un affare di donne. A parlare, a più di un’ora dall’inizio del film, è il figlio di Marie Latour, Pierrot, ormai adulto. Poche parole che però dicono molto su uno dei personaggi più imprendibili ed emblematici dell’intera filmografia di Claude Chabrol.
Perché Marie è sicuramente l’incarnazione perfetta di quel cinema. A partire dall’ambiguità di cui è portatrice. Quell’essere allo stesso tempo vittima e carnefice che torna spesso nei film del regista. E vittima, il personaggio interpretato dalla Huppert, lo è di certo. Di sé stessa, prima di tutto. Ma anche della sua condizione sociale, del maschilismo che la circonda (“non è da oggi che gli uomini ci considerano bestie da soma”) e di una società, quella della Francia collaborazionista, abbrutente e senza dignità, dove l’egoismo e il tornaconto personale prendono la forma di un Male quasi endemico.
Un’emancipazione respingente
Un Male che in Marie non può che proliferare. Trovando, in quella donna che vive al di là di ogni morale, l’ospite perfetto, lo strumento ideale per incarnare le storture di un intero sistema. È nella progressiva e quasi naturale trasformazione della sua protagonista che ci trascina allora Chabrol. Con uno sguardo freddo e apparentemente oggettivo, come se tutto fosse logico e auto-evidente, il regista racconta infatti, senza moralismi di sorta, una storia di emancipazione respingente, dove l’innocenza convive irrimediabilmente con la colpa, la verità con la menzogna.
Complesso, stratificato e mai pacificato Un affare di donne va così al di là del semplice ritratto moralistico di una donna spietata nella sua ignoranza e ingenuità, facendosi sguardo trasversale sull’ipocrisia di un’intera nazione.
Religioso come una bestemmia
La Francia occupata, d’altronde, è un paese in piena crisi identitaria. Uno Stato sconfitto, deciso a risollevarsi puntando proprio sulla morale e sulla punizione esemplare dei suoi trasgressori. Nel Paese dove “ogni attentato alla morale è un attentato allo Stato” ma che non si fa problemi a spedire gli Ebrei in Germania, Marie non può dunque che essere la vittima sacrificale perfetta. Una martire blasfema che, inconsapevolmente, porta avanti la sua distorta e personalissima lotta di resistenza – allo stato delle cose, all’occupazione nazista (da lei vanno spesso donne rimaste incinta di soldati tedeschi), alle storture della morale cristiana (la donna sposata che vive solo per sfornare figli “come una vacca”) – contrapponendo a quel mondo falso e bigotto una leggerezza disarmante, fatta di sogni infantili e vizi dozzinali.
Ma, allora, chi è davvero Marie? Un mostro? Una vittima del sistema? L’unico esemplare di donna libera che quei tempi oscuri potevano permettersi? O tutte queste cose insieme? Come spesso accade nel cinema di Chabrol la verità è ovunque e da nessuna parte. Persa tra le pieghe e le ambiguità di un film che non conosce catarsi né salvezza. Solo pietà.