Tra Malapolizia e Nei secoli fedele: gli abusi delle forze dell’ordine che passano sotto silenzio
Intervista esclusiva a Adriano Chiarelli.
Un’inchiesta-verità sulle morti non chiarite che svela tutti i retroscena degli abusi di potere commessi dalle forze dell’ordine
Con Malapolizia (Newton Compton Edizioni, pp. 336, 9,90 euro), libro-inchiesta sulle morti per abuso di potere da parte delle forze dell’ordine, e con il documentario Nei secoli fedele, dedicato alla vicenda di Giuseppe Uva, morto nella notte fra il 14 e il 15 giugno 2008 dopo essere stato fermato dai carabinieri, Chiarelli ha costruito una sorta di antologia di casi processuali sul tema della violazione delle libertà nella maniera più oggettiva e concreta possibile, sostenendo ogni tesi con atti processuali, testimonianze e ricostruzioni di esperti. Per realizzare Nei secoli fedeleChiarelli, insieme al regista Francesco Menghini, la Soul Crime, società che si propone di produrre documentari o fiction di denuncia.
La presentazione ad Ascoli Piceno di Nei secoli fedele diventa l’occasione per approfondire il lavoro di Chiarelli e per dare un segnale positivo in direzione di una sempre maggiore sensibilizzazione in relazione a queste tematiche.
D: Come mai hai deciso di dedicarti al racconto di storie terribili e complesse come quelle di cui scrivi nel tuo libro?
A.C.: Non so darti una risposta precisa. È l’istinto che mi porta ad occuparmi di queste storie.
D.: Hai realizzato prima il libro o il documentario?
A.C.: Ho scritto prima il libro, in cui prendo in esame quella serie di eventi controversi che coinvolgono uomini delle forze dell’ordine, compresi tra il post G8 di Genova e Carlo Giuliani e il 2011, poi ho approfondito una delle vicende che racconto in Malapolizia, quella di Giuseppe Uva, in cui si concentrano tre disfunzioni istituzionali: quella dei carabinieri, quella della polizia e quella della sanità.
D.: Qual è il primo caso che ti è capitato tra le mani?
A.C.: Quello di Federico Aldrovandi, morto a Ferrara nel 2005, ad appena 18 anni, durante un controllo operato dalle forze dell’ordine trasformatosi in pestaggio. L’unica a testimoniare l’accaduto è stata una cittadina camerunense senza permesso di soggiorno, mentre la collettività, per la tranquillità della quale le forze dell’ordine agiscono e si sentono legittimate ad abusare del loro potere, rimaneva a spiare dalla finestra.
D.: Oltre al caso Uva, ce n’è un altro che ti ha colpito in modo particolare?
A.C.: Il caso Rasman. Scrivere il capitolo dedicato a quella vicenda mi ha fatto commuovere sinceramente. Forse è il più riuscito di tutto il libro. È la classica storia dell’emarginato con problemi psichiatrici, per altro sorti dopo il servizio militare a Trieste, che subisce vessazioni di ogni tipo da parte della società. L’estremizzazione della condizione di Riccardo si è tradotta nell’omicidio da parte delle forze dell’ordine. Rasman è stato brutalizzato: girano foto in cui le pareti della sua casa sono imbrattate da schizzi di sangue, i polsi gli furono costretti con del filo di ferro fino a farli sanguinare, brandelli di carne furono rinvenuti sotto al tappeto. I responsabili sono stati condannati a 6 mesi per omicidio colposo. La famiglia Rasman, abbandonata a se stessa durante tutta la vicenda, si è poi rivolta all’avvocatura di stato per il risarcimento e per tutta risposta ha ricevuto un mare di insulti.
D.: Sia dalla visione di Nei secoli fedele che dalla lettura di Malapolizia emerge forte l’impossibilità di ottenere un riconoscimento delle brutalità commesse dalle forze dell’ordine da parte delle istituzioni. Secondo te c’è un modo per farsi sentire concretamente? Fare ricorso alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo può aiutare?
A.C.: Solo per Carlo Giuliani e Marcello Lonzi ( detenuto morto nel carcere delle Sughere di Livorno nel 2003 per “infarto” n.d.r.) è stato fatto ricorso alla Corte di Strasburgo, ma prima di arrivarci bisogna che il processo abbia esaurito i tre gradi di giudizio previsti dal nostro ordinamento. Alcune strade istituzionali esistono, ad esempio l’Ordine degli Avvocati di Roma è sensibile a questi casi, lo è anche il senatore Luigi Manconi,presidente di “A Buon Diritto Onlus”, che si batte per il riconoscimento delle violazioni delle libertà personali. Anche il senatore Marino è un punto di riferimento, soprattutto per le tematiche che coinvolgono gli aspetti psichiatrici, poi ci sono diverse associazioni no profit, ma bisogna continuare con l’attivismo quotidiano che passa attraverso i film, i libri e anche i giornali.
D.: Che ne pensi di Diaz- Don’t clean up this blood di Daniele Vicari, è una ricostruzione valida di ciò che è successo alla Diaz e a Bolzaneto?
A.C.: Sì sì, come ricostruzione dei fatti è molto fedele agli atti processuali. Considerando che è un film tutto italiano, è un ottimo documento dei terribili abusi commessi dalle forze dell’ordine in quell’occasione.
D.: Quali sono i tuoi prossimi progetti? Continuerai ad occuparti di queste storie?
A.C.: A gennaio finiranno le riprese di un nuovo documentario (Happy Good Year n.d.r.), di Laura Pesino ed Elena Ganelli, dedicato al caso dei 300 operai della Goodyear di Cisterna di Latina, morti per esalazioni di amianto e altre sostanze tossiche. In questo caso il cancro, che ha causato la morte delle vittime, è stato ricondotto dai consulenti della difesa a cause banali, che non prendono affatto in considerazione le esalazioni. Il caso è interessante anche perché il collegio difensivo è afferente allo studio dell’ex Ministro della Giustizia Paola Severino. Io ho seguito questo progetto in qualità di produttore con la mia società Soul Crime.
D.: Come nasce la Soul Crime?
A.C.: È una società di produzione che ho creato insieme al mio socio e regista di Nei secoli fedele, oltre che di questo ultimo documentario, Francesco Menghini proprio in occasione della realizzazione del lavoro dedicato a Giuseppe Uva. La Soul Crime si propone di produrre documentari e fiction legate a temi di attualità e denuncia.