Lo spacciatore (Light Sleeper), del 1992, rappresenta un po’ la summa dei lavori precedenti di Paul Schrader incentrati su personaggi edonistici alla deriva morale e situati al crocevia tra ricerca di redenzione ed esplorazione dell’identità.
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Un arco temporale che congiunge tre decenni distinti in cui queste soggettività sono immerse in traumi che riflettono una lucida fotografia dei cambiamenti culturali di un’America scrutinata sempre con occhio critico, ma mai giudicante. Lo sguardo e la penna di Schrader si muovono tra psicosi post-traumatiche da Vietnam (Taxi Driver [Martin Scorsese, 1976], di cui è sceneggiatore), crisi identitarie della mascolinità yuppie (American Gigolo, 1980) e alienazione postmoderna (Lo spacciatore).
Il film segue John LeTour (Willem Dafoe), uno spacciatore di alto livello, che, raggiunta la soglia dei quarant’anni, decide di fare un’analisi della propria vita, cercando di trovare significato ad un’esistenza segnata da delusioni e rimpianti. Il suo incontro inaspettato con Marianne (Dana Delany), un’ex fiamma con cui scopre di essere ancora profondamente legato, si rivelerà decisivo.
«I can’t forget your face»
Il traveling iniziale sulla strada, piena di rifiuti e pozzanghere, sulle note melanconiche di World on Fire, trasporta subito il soggetto e lo spettatore nell’inferno interiore di John. La città è popolata da tutta un’umanità misera, sudicia, malata e mortificata dall’abuso di droga. La New York osservata dal finestrino della limousine nel corso delle varie e suggestive peregrinazioni di John appare come uno spazio metafisico, trascendente, fatto di luci al neon e architetture alienanti, all’interno delle quali si muovono soggettività vuote, apparizioni fantasmatiche che attraversano l’ambiente sociale senza un reale obiettivo, depauperate da ogni intenzione e motivazione desiderante. Si tratta di attori sociali deliranti, in preda a ossessioni di onnipotenza, sindromi di astinenza maniacali-depressive ed estasi teologiche (il cliente che cerca di dimostrare l’esistenza di Dio attraverso l’argomentazione ontologica).
«The only danger is inside you.»
Lo spacciatore ricorre soltanto apparentemente alle forme del noir per trascurare le convenzioni del genere (il mondo della droga viene utilizzato come mero pretesto per esplorare la ricerca di una connessione con la realtà) e concentrarsi invece sul ritratto esistenziale di un protagonista segnato da solitudine, senso di colpa e ricerca di redenzione. L’attualità ricorre visivamente sotto la forma dei rifiuti urbani, accatastati a mucchi nei marciapiedi delle strade a causa di uno sciopero dei netturbini: «È il giorno dei lavoratori e la nettezza urbana festeggia facendo sciopero, bel controsenso», commenta ironicamente John.
Simbolo di un’umanità che sembra aver perso il proprio contatto con l’ambiente, essi riflettono anche il malessere e il lordume interiore del protagonista, anima tormentata in un mondo contemporaneo infernale dal quale tuttavia egli tenta in tutti i modi di trovare una via di fuga. Che qualcosa si sia rotto in lui lo si evince anche dai suoi incontri con la figura della sensitiva (Mary Beth Hurt), alla quale John si rivolge per trovare una risposta ai suoi dilemmi morali («L’unico pericolo è dentro di te», gli diagnostica lei).
«I envy you. Convenient memory is a gift from God.»
La voce narrante punteggia ossessivamente un racconto a dominante focalizzazione interna e contribuisce, insieme alla costruzione dell’immagine, a descrivere gli stati d’animo del protagonista, anche se, tuttavia, il suo utilizzo reiterato rischia, in alcuni passaggi, di appiattire la sua immagine a una figura bidimensionale, caratterizzata da dialoghi convenzionali. John conduce una vita solitaria, austera, rappresentata anche dall’assenza di mobilio del suo appartamento. Asceta contemporaneo forgiato dai traumi del passato (soltanto brevemente accennati), egli incarna una contradditorietà evidente, quasi psicotica: il mondo dello spaccio, da un lato, e quello della predicazione salvifica dall’altro.
Spacciatore “buono”, segnato da un passato traumatico di tossicodipendenza che ha lasciato profonde cicatrici, John tenta di far rinsavire i suoi clienti più assuefatti, rifiutando di vendere loro la merce, e, nel tentativo di rimediare – almeno moralmente – al suo passato, spedisce regolarmente i guadagni del suo lavoro alla sorella, il cui marito – viene detto – è detenuto nel penitenziario di Stato di San Quintino.
Un moderno Sisifo
Ma egli appare anche come un soggetto afflitto dalla ciclicità degli eventi e dall’impossibilità di sfuggirgli: annota costantemente i suoi pensieri su un diario (espediente che Schrader riutilizzerà poi, quasi macchiettisticamente, anche nei film futuri), lo riempie, lo butta e ne ricomincia subito un altro. Egli appare come un moderno Sisifo, punito dal destino per la sua malizia e l’avidità di potere e costretto a compiere un’attività senza fine e senza senso, un’azione che richiede sforzo costante ma che non porta mai a un risultato significativo.
È soltanto nel finale, poco prima del “duello” decisivo contro Tis (Victor Garber), l’antagonista principale al centro del conflitto tra l’eroe e l’oppositore, che la diegesi sembra suggerire una possibilità, seppur flebile, per il soggetto desiderante di sfuggire alla ripetitività della propria pulsione e di attraversare finalmente la soglia della redenzione: John, determinato a compiere giustizia, si libera dalle catene mentali del diario, assurto a simbolo di immobilità, gettandolo con veemenza dalla finestra.
L’alienazione attraverso l’immagine
La messa in scena di Schrader ricerca il simbolismo (la colonna che separa gli amanti “mancati” John e Marianne), i rimandi sublimi (in primis Diario di un ladro, Robert Bresson, 1959), le musiche di atmosfera (la strepitosa colonna sonora è curata da Michael Benn), la fotografia glam e al neon di Ed Lachman, che affascina per l’uso espressivo dei colori, che diventano sempre più numerosi, e per l’alternanza tra stati diurni e onirico-fantasmatici.
Quest’ultimi vengono accentuati anche dall’uso reiterato che Schrader fa della dissolvenza incrociata nel corso di tutta la pellicola: basata su procedimenti mentali in cui si conserva un certo slegamento di ordine primario, si tratta, per Christian Metz, di una demarcazione di senso che è anche una negazione: «mettendo in gioco il trasferimento di una carica psichica da un oggetto a un altro, vi si può leggere allo stato di abbozzo la propensione […] a instaurare, al di fuori delle laceranti separazioni imposte dalla realtà, quei corto-circuiti magici e brevi accesi dal desiderio»[1].
Presentato con favorevole accoglienza critica al Festival di Berlino del 1992, Lo spacciatore si distingue come un’altra interpretazione del tema della colpa e dell’espiazione, figure ricorrenti in tutta l’opera di Schrader.
Disponibile su Mubi.
[1] Cfr. Christian Metz, Cinema e psicanalisi, Venezia, Marsilio, 1980.