Una coppia gestisce un negozio di famiglia un po’ particolare: si occupa infatti di fornire gli strumenti corretti al popolo degli aspiranti suicidi. Come ogni coppia che si rispetti hanno tre figli Vincent (come Van Gogh), Marilyn (come la Monroe) e Alan (come Alan Mathison Turing): tutti personaggi morti suicidi. Per rispettare il buon nome del negozio tutto deve avere un aspetto di circostanza. Unico neo del sistema sarà il piccolo Alan che nasce con il sorriso e l’ottimismo piu’ incontenibile del mondo…
La Bottega dei Suicidi è il primo film di animazione di Patrice Leconte, liberamente tratto dal romanzo omonimo di Jean Teulé.
Leconte si ispira apertamente a Tim Burton, autore a cui lo stesso regista dichiara di voler mostrare il film un giorno. La Bottega dei Suicidi è effettivamente un cartoon intriso di humour nero, le parti musicali in cui prevale il tema della morte ricordano molto La Sposa Cadavere e Nightmare Before Christmas(Leconte lo definisce “un capolavoro assoluto”), ma è evidente che manca quell’impronta autoriale, quell’immaginario autoreferenziale e quel tocco di genio che pervadono i film di Burton.
Non bastano scheletri e scheletrini, personaggi goth e animaletti bizzarri che fanno il Coro Greco per creare o emulare un mondo che vive di vita (e morte, è il caso di dirlo) propria, ma il risultato è apprezzabile, le musiche godibili e i disegni animati non tentano fortunatamente di ricalcare uno stile, mostrando un tratto originale delizioso. La città ricreata si ispira al tredicesimo arrondissement parigino, quartiere moderno con grattacieli minacciosamente alti e atmosfere sinistre e tetre. In questa città fuori dal tempo che ha anche un che di nostalgico si ritaglia uno spazio il “magasin des suicides”, una elegante bottega dal gusto squisitamente parigino che, paradossalmente, appare come uno sprazzo di colore tra gli spazi desolati e urbani di un mondo depresso. I personaggi sono realistici nei tratti e nella caratterizzazione e sempre esilaranti nella loro disperazione; Alan, il bambino dei due proprietari del negozio, è l’unico personaggio positivo, incarna la “joie de vivre” e sprizza vitalità da tutti i pori. Il corpo esile e il grande sorriso fanno da contrasto ai volti cupi e avviliti che lo circondano. È lui il “punto di rottura” verso cui convergono mano a mano tutti gli altri personaggi, trapassati e non.
Propendendo per un finale lieto, Leconte conferisce un altro senso al film, un’altra poesia. Il conflitto tra morte e vita si risolve a favore di quest’ultima, individuando in pochi ed essenziali piaceri quali la musica, l’amore e il cibo, le ragioni per scegliere la vita. Sempre e comunque. Perché, parafrasando una delle ultime canzoni del film, di qua si sta sempre meglio che nell’aldilà….
Apro una parentesi riguardo al divieto imposto (esclusivamente nel nostro Paese) alla pellicola ai minori di anni 18 e poi successivamente revocato. Questa la motivazione del divieto:
“Perché il tema del suicidio è trattato con estrema leggerezza e facilità di esecuzione, come se fosse un atto ordinario o un servizio da vendere al dettaglio creando il pericolo concreto di atti emulativi da parte di un pubblico più giovane, quali gli adolescenti che attraversano un’età critica. Per di più la rappresentazione sottoforma di cartone animato costituisce un veicolo che agevola il pubblico più giovane la penetrazione di tale messaggio pericoloso”.
Il divieto era logicamente ingiustificabile perché la pellicola affronta il tema del suicidio con ironia e si fa portatrice di un messaggio positivo e ritengo semmai che il problema risieda nell’incapacità del nostro Paese di fornire i giusti strumenti culturali ai suoi abitanti, minori e non, per affrontare tematiche di portata universale (da noi ancora ritenute tabù!), come in questo caso la morte. E comunue sempre meglio riderne di gusto che averne paura.