Dopo tre anni di silenzio, Ang Lee torna dietro la macchina da presa per raccontare con occhi carichi di meraviglia l’itinerario di perdizione e rinascita del giovane indiano Pi che, sopravvissuto a una tempesta, si ritrova naufrago in pieno Oceano, a bordo di una scialuppa che deve condividere con una tigre feroce.
Dal romanzo omonimo del canadese Yann Martel: un giovane indiano con la mente colonizzata dall’immaginario culturale occidentale e lo strambo nome di una lussuosa piscina parigina -Piscine Molitor Patel, abbreviato a Pi per difendersi dai continui insulti dei compagni di classe- parte con la famiglia e gli animali dello zoo di cui il padre è proprietario per cercare in Canada un futuro migliore. La nave mercantile su cui s’imbarcano però viene coinvolta in un naufragio e solo Pi riesce a mettersi in salvo su una modesta scialuppa che, suo malgrado, deve condividere con un orango, una iena, una zebra e una tigre del Bengala. Inizia così un lungo viaggio sospeso tra acqua e cielo, creature selvagge e isole carnivore, speranza e dolore.
Il cinema di Ang Lee è da sempre una terra di frontiera, in cui coesistono e si scontrano tensioni opposte: dagli eccellenti esordi taiwanesi (Il banchetto di nozze, Mangiare bere uomo donna) in cui a fronteggiarsi erano modernità e tradizione, Occidente e Oriente, al recente e sottovalutato Motel Woodstock, eccentrico e frizzante affresco sessantottino che contrapponeva i logoranti e bigotti schemi di pensiero di un’America conservatrice con la libertà anarchica e visionaria di una nuova generazione che tentava di gettarsi alle spalle il peso delle guerre sporche e di un’ideologia ipocrita. Vita di Pi prosegue questa poetica della dialettica, illustrando attraverso i 120 minuti di narrato il confronto aggressivo, sanguigno, feroce ma anche tenero e malinconico tra uomo e animale, ragione e istinto, ingegno e carnalità. Un’opposizione quanto mai labile che il film non fa altro che rovesciare, frantumare e ricomporre, manifestando attraverso le sue immagini incantate (e rese quasi palpabili da un 3D di ottimo livello) come le dicotomie universali che dominano il mondo civilizzato si sgretolino di fronte al timore della morte, del nulla, del vuoto e del non essere.
La tigre -all’anagrafe Richard Parker- impara ad uniformarsi ai rigidi schemi della ragione per non morire di fame e l’uomo -per quanto riesca a organizzare la sua odissea secondo di criteri di ordine e raziocinio come fosse un modernissimo Robinson Crusoe- impara ad accettare la propria bestialità selvaggia, il proprio essere animale fra gli animali.
Cinema del confronto, dunque. Del contatto e dell’attrazione ma anche della sfida e dello scontro diretto.
Pi, sorta di ultimo rappresentante del genere umano in quell’immenso e sterminato deserto che è l’oceano, diventa l’archetipo primordiale della vita, destinata -per restare tale e non decadere nel suo opposto- a scontrarsi con ciò che non vive.In questo senso, l’ultimo film di Lee è una fiaba crudele e affascinante sulla “disarmonica armonia” che congiunge l’uomo al creato, il destino umano alla travolgente forza della natura. Pi si confronta con l’aggressività della tigre che con lui spartisce il piccolo battello della salvezza, con l’immensa distesa d’acqua che dal cielo o dal mare lo travolge e lo circonda, stringendolo in una morsa inarrestabile, con le bestie marine, con l’irreale e luminescente magia di un’isola che mangia ciò che di vivo la sovrasta, con dio. O almeno con l’idea di dio, quella di una sovrastruttura che domini il caos e ponga ordine, spesso con fare imperscrutabile. E proprio in quest’evocazione del trascendente il film parla con meno forza, meno vigore -senza che questo tuttavia lo comprometta o getti cattiva luce sull’eccellente di lavoro di Lee. Ciò a cui assistiamo in scena è semplicemente lo scatenarsi della natura, incurante della vita che ospita, e l’aggrapparsi di un uomo solo a una dimensione sconosciuta, le sue grida disperate alla ricerca di un sostegno nel mezzo del nulla a perdita d’occhio. In fin dei conti, il ricorso alla fiaba tende a soffocare quell’afflato spirituale comunque presente ma a tratti solo vagheggiato.
Rimane la magnificenza estetica di un film che segna una tappa fondamentale nella storia del cinema digitale, con la sua poetica capacità -amplificata a dismisura dal 3D- di rendere l’immensità di un cielo notturno ormai fuso con il mare al pari dell’infinito racchiuso nel timoroso sguardo incrociato di due esseri diversissimi e insieme segnati da uno stesso tragico destino.
E resta ovviamente la prepotente riflessione sul contatto con il diverso, sull’esodo disperato attraverso cui ogni uomo è costretto nel suo viaggio alla scoperta di sé stesso e del prossimo. Tratti che il cinema meticcio, multietnico e variegato di Ang Lee porta avanti da sempre.
Stefano Oddi
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