Riley di Benjamin Howard, in concorso alla 39° edizione del Lovers Film Festival nella categoria All The Lovers. Nel 2024, si può ancora parlare di outing? Riley è un ragazzo pieno di conflitti interiori e di contraddizioni. Atleta destinato probabilmente a superare la fama del padre, già celebre e oggi allenatore del figlio, Dakota Riley è il ragazzo perfetto: bello, disciplinato, gentile, educato. Dakota Riley, però, è gay e non vuole ammetterlo nemmeno a se stesso.
Riley: fare outing con se stessi
Fin dalle scene iniziali, lo spettatore è onnisciente: sa molte più cose rispetto al protagonista. Il film di Benjamin Howard si apre infatti con un flashforward in cui il giovane Dakota incontra un uomo molto più grande, conosciuto su un’app di dating.
Subito dopo, però, si torna nel passato, in cui Riley è un ragazzo ossessionato dallo sport (e dall’approvazione paterna), che si allena giorno e notte in compagnia del suo migliore amico. Quando i due sono in palestra, Dakota guarda l’altro con desiderio sessuale, percorrendone i muscoli sudati con lo sguardo assente, per poi essere perseguitato da queste visioni.
Dakota si fidanza con la ragazza che tutti reputano perfetta per lui, e cerca di fare con lei ciò che tutti si aspetterebbero. Riley passa la maggior parte del suo tempo a cercare di non deludere le aspettative altrui. Quando si tratta però di approcci sessuali, non riesce a soddisfare la fidanzata, ed è bel lontano dal soddisfare se stesso.
Comincia così l’esplorazione del proprio mondo interiore, fatto di paradossi e contraddizioni. Finalmente, ammette a se stesso di essere gay e comincia a vivere qualche avventura. Le aspettative sociali, però, continuano a perseguitarlo.
Riley è convinto di non poter essere ciò che è. Auto-censura sentimenti ed emozioni cercando di rimanere nei confini che pensa siano tracciati per lui.
Il vero coming out lo farà prima di tutto a se stesso, incontrandosi finalmente con l’uomo della scena iniziale. Anche questo momento però è paradossale: Dakota non è pronto per compiere l’atto sessuale. L’incontro finirà per diventare una lezione di vita e di filosofia, che libererà la strada per il finale aperto.
Riley: definirsi per negazione
In una scena cardine Riley si confida con la fidanzata, rivelandole di non poterle dare ciò che vorrebbe.
Non sono ancora pronto a dire cosa sono… non sono etero
È l’apice di onestà che il protagonista riesce a raggiungere. Nel corso del film Riley impara ad affermarsi, e auto-affermarsi, per negazione. Non è pronto a definirsi, a prendere posizione dichiarando ciò che è, ma conosce finalmente ciò che non è.
Benjamin Howard augura a questo film di lasciare nello spettatore un senso di speranza: anche quando le cose sembrano aggrovigliate, c’è sempre un modo per districarle.
Il risultato finale non è limpido e chiaro come ci si aspetterebbe, ma forse proprio per questo riesce ad essere la cartina tornasole perfetta dell’universo interiore del protagonista: un ossimoro in mutamento costante.
A livello visivo, Riley è chiaramente un film con un’estetica ben precisa e tecnicamente realizzata per essere charming, appealing e accattivante soprattutto per gli spettatori più giovani. La palette fredda, la fotografia molto contrastata, il montaggio preciso e la colonna sonora fanno tutti parte di un unico organismo che vuole spingere la visione in una certa direzione.
È un film che si inscrive nell’immaginario consolidato di cui Call me by your name è stato precursore: paesaggi e atmosfere quasi fiabeschi, mondi chiusi e incontaminati, situazioni idilliache al limite dell’inverosimile, personaggi perfetti anche nell’imperfezione. A differenza del capolavoro di Luca Guadagnino, però, Riley non cattura lo spettatore spingendolo nel suo mondo. Mantiene sempre una certa distanza, che permette una visione meno coinvolta e più critica, soprattutto nei momenti di distensione in cui spesso ci si domanda se davvero esistano queste situazioni.
E la risposta, purtroppo, è sì.