Cresciuto all’interno di una rigida famiglia protestante, caratterizzata da un’enfasi sull’educazione e da un forte divieto nei confronti di svaghi quali la visione cinematografica, Paul Schrader fece il suo primo incontro con il mondo del cinema soltanto all’età di 17 anni. Un momento d’incanto segnato dalla visione del film Disney Un professore fra le nuvole (The Absent Minded Professor, Robert Stevenson, 1961) in una modesta sala di Grand Rapids, Michigan. Tuttavia, questa prima esperienza non lo colpì particolarmente, e fu soltanto durante gli anni universitari, grazie all’approfondimento del cosiddetto “cinema della modernità” (soprattutto europeo) degli anni Sessanta, che Schrader si innamorò veramente della settima arte.
«I film che amiamo sono sempre quelli che stavamo guardando quando ci siamo innamorati del cinema.»
ha dichiarato recentemente Schrader durante un’intervista a Nicolas Cage su Interview Magazine, sottolineando l’importanza cruciale di quel periodo formativo. Da quel momento, la sua carriera ha intrapreso un solido percorso, partendo dall’acclamato lavoro come sceneggiatore, con particolare riconoscimento per il suo contributo al capolavoro di Martin Scorsese, Taxi Driver (1976). Vent’anni dopo, ha mosso i primi passi come regista, in un cammino coraggioso caratterizzato da una rigorosa sensibilità artistica, che emerge in modo tangibile anche quando i suoi film non adottano le severe modalità dei suoi mentori (Bergman e Bresson in primis).
Le sue opere offrono spesso ritratti psicologici di personaggi alla deriva, in cerca disperata di redenzione. Nel corso dei quasi cinque decenni della sua carriera come cineasta, Schrader ha affrontato una vasta gamma di temi, generi e stili, con risultati a volte anche altalenanti. La sua carriera risulta affascinante, però, proprio per la possibilità che un clamoroso errore possa talvolta essere seguito da un autentico capolavoro. In attesa dell’anteprima di Oh, Canada al prossimo festival di Cannes, stiliamo una classifica delle 5 (+1) opere maggiormente significative del leggendario regista americano.
– 5 –
Hardcore (1979)
L’imprenditore di fede calvinista proveniente dal Michigan, Jake Van Dorn (interpretato da un George C. Scott in stato di grazia), attualmente in separazione dalla moglie, condivide la sua casa con la figlia adolescente Kristen (Ilah Davis). Tuttavia, la loro vita tranquilla subisce una brusca interruzione quando Kristen scompare misteriosamente durante un viaggio in California, dove era diretta per un raduno religioso. Determinato a trovare sua figlia, Jake si trova costretto a immergersi nei meandri oscuri dell’industria cinematografica per adulti, dove sembra che Kristen abbia trovato una sorta di fuga.
Immerso in un’atmosfera soffusa, caratteristica della New Hollywood (la costruzione dell’immagine rimanda molto a Taxi Driver), il secondo film di Schrader rappresenta una discesa agli inferi che si trasforma in un ritratto sociologico sulla decadenza della moralità, la commercializzazione del corpo, il potere corrotto del denaro e l’orgoglio ferito. L’ambientazione innevata del Midwest del prologo avvolge lo spettatore nella tradizione culturale americana, pronta a essere smascherata e destabilizzata. Schrader conduce qui un’indagine torbida e affascinante che diviene il riflesso di un’America che sta percorrendo due strade inconciliabili tra loro, due estremi privi di un qualsiasi equilibrio, tra ossessioni religiose ed emancipazioni forzate.
«A lot of strange things happen in this world. Things you don’t know about in Grand Rapids. Things you don’t want to know about. Doors that shouldn’t be opened.»
– 4 –
Tuta blu (Blue Collar, 1978)
A Detroit, tre operai di una fabbrica automobilistica – due afroamericani, Zeke (Richard Pryor) e Smokey (Yaphet Kotto), e un uomo bianco di nome Jerry (Harvey Keitel) – già frustrati dalle difficili condizioni lavorative, scoprono un traffico illegale di denaro da parte dei sindacalisti. Decidono quindi di agire oltre i limiti consentiti e ne subiscono le conseguenze.
Fenomenale esordio alla regia di Paul Schrader (anche sceneggiatore insieme al fratello Leonard), che qui firma un ruvido apologo di impegno civile che cerca di scendere nei meandri del disagio e del ribellismo latente della classe operaia, attanagliata proprio dalla morsa di coloro che, in teoria, dovrebbero difenderla. L’amicizia fraterna tra i tre protagonisti, compagni di bevute nel pub, ma provati dalla monotonia della loro esistenza grigia, sfocia nel tentativo di ottenere un riscatto sociale, sia a livello individuale che collettivo, che si rivelerà impossibile. L’ambientazione della fabbrica nei sobborghi provinciali è resa con grande realismo, i personaggi sono ben caratterizzati, e il film si conclude con un’immagine finale pregna di significati metaforici.
«They pit the lifers against the new boy, the young against the old, the black against the white. Everything they do is to keep us in our place.»
– 3 –
Lo spacciatore (Light Sleeper, 1992)
John LeTour (Willem Dafoe), uno spacciatore di alto livello, raggiunge la soglia dei quarant’anni e decide di fare un’analisi della sua vita, cercando di trovare significato ad un’esistenza segnata da delusioni e rimpianti. Il suo incontro inaspettato con Marianne (Dana Delany), un’ex fiamma con cui scopre di essere ancora profondamente legato, si rivelerà decisivo.
Il terzo posto nel podio se lo aggiudica questo rarefatto noir metropolitano che, trascurando le convenzioni del genere (usando la droga come mero strumento per esplorare la ricerca di una connessione con la realtà), si focalizza sul ritratto esistenziale di un protagonista segnato da solitudine, colpa e ricerca di redenzione. Con Lo spacciatore, Schrader reinterpreta le tematiche tipiche dei film crepuscolari degli anni Settanta in un contesto degli anni Novanta, con una suggestiva ambientazione urbana notturna (i viaggi in auto per le strade oscure di Manhattan sono particolarmente suggestivi), utilizzando il degrado urbano come contrappunto allo sguardo distante e alienato del protagonista, anima tormentata in un mondo contemporaneo infernale. Ma quanto ti piace Diario di un ladro (Pickpocket, Robert Bresson, 1959), eh Paul?
Qui la recensione completa.
«I envy you. Convenient memory is a gift from God.»
– 2 –
First Reformed – La creazione a rischio (First Reformed, 2017)
Toller (Ethan Hawke), un ex cappellano militare tormentato dalla perdita del figlio in guerra, conduce con rigore una piccola chiesa protestante di campagna, la First Reformed. Dopo il fallimento nel tentativo di aiutare un giovane ambientalista radicale a superare la sua depressione, Toller è devastato da un senso di colpa ossessivo e angosciante. In preda ai tormenti e fisicamente indebolito, inizia una relazione sempre più profonda con Mary (Amanda Seyfried), l’ex moglie del giovane che non è riuscito a salvare, e comincia a rivalutare il suo rapporto con l’organizzazione della chiesa alla quale ha dedicato la sua vita.
Schrader, dopo alcuni opinabili lavori degli anni Duemila, ritrova l’ispirazione scrivendo e dirigendo un dramma umano struggente che rinnova e adatta alla contemporaneità la sua poetica. Mantenendo un approccio sobrio e senza fronzoli (i riferimenti ai maestri sopracitati sono onnipresenti in tutta la sua opera), Schrader offre uno sguardo profondo e acuto sulle realtà della provincia americana, con una messa in scena che valorizza sia la potenza delle parole, sia la forza delle immagini. Al centro del film, come spesso accade nei suoi lavori, c’è il percorso di redenzione del protagonista, che affronta tutte le sofferenze nel tentativo di trovare una salvezza al di là del male.
«Will God forgive us for what we’re doing to his creation?»
– Menzione speciale –
Affliction (1997)
Nel New Hampshire, il tranquillo sceriffo di una piccola città, Wade Whitehouse (Nick Nolte), conduce un’esistenza solitaria e fatica a stabilire un legame affettuoso con sua figlia, anche a causa della difficile relazione con il padre anziano, Glen (uno stratosferico James Coburn), un uomo autoritario e violento con problemi di alcolismo. Quando si trova coinvolto in un caso di omicidio, Wade sospetta che sia in atto un complotto che coinvolge il suo migliore amico e il suo datore di lavoro.
Prima di passare alla medaglia d’oro, una menzione speciale va fatta a questo meraviglioso e spesso sottovalutato film in cui Schrader, basandosi sull’omonimo romanzo di Russell Banks, dirige e scrive un dramma dell’anima che percorre la strada del giallo metafisico solo per accentuare l’immobilità radicale entro cui sono confinati i suoi personaggi, afflitti da mali che, seppur sradicati, non trovano una cura. Il rapporto turbolento tra padre e figlio, al centro della narrazione, rivela un passato segnato dalla violenza e dallo scontro tra generazioni, evocato attraverso efficaci flashback. Dopo un inizio più riflessivo, il film esplode in un climax drammatico che culmina in un evento incendiario, simbolo della disperazione che pervade la provincia americana al di sotto della sua spessa coltre di neve.
«This is the story of my older brother’s strange criminal behaviour and disappearance. We who loved him no longer speak of Wade. It’s as if he never existed.»
– 1 –
Mishima – Una vita in quattro capitoli (Mishima: A Life in Four Chapters, 1985)
Tokyo, 1970. Prima di compiere il gesto estremo di togliersi la vita durante l’occupazione del Ministero della Difesa, in un simbolico atto di difesa dei valori tradizionali di un Giappone corroso dalla deriva capitalista, lo scrittore, poeta, regista e nazionalista Yukio Mishima (interpretato da Ken Ogata) rivive alcuni momenti cruciali della sua esistenza. La sua complessa figura viene esplorata attraverso la rappresentazione di tre dei suoi romanzi: Il Padiglione d’oro (Kinkaku-ji), La casa di Kyōko (Kyōko no Ie) e Cavalli in fuga (Honba).
“Bellezza”, “Arte”, “Azione” e “Armonia della penna e della spada”: sono i quattro capitoli che compongono un’opera di straordinaria profondità, che fonde la solennità della cultura orientale con la maestria visiva di un Paul Schrader (che firma anche la sceneggiatura insieme al fratello Leonard) nel suo momento di massima espressione creativa. L’uso sapiente del montaggio, che intercala tre livelli narrativi, insieme all’espressività del colore e alla composizione pittorica delle inquadrature, contribuiscono a creare una straordinaria parabola umana sulla potenza dell’immaginazione, il desiderio di liberazione interiore, la lotta contro i propri demoni, la ricerca inesausta della conoscenza e il ruolo essenziale dell’artista nella società.
Mishima, figura decadente e tormentata, esteta e martire di una patria senza speranza, esercita un fascino magnetico come un genio incompreso destinato alla propria autodistruzione. Il finale, di una bellezza struggente, vede il protagonista compiere il seppuku, unendo così realtà e finzione nel tentativo disperato di unire arte e vita. Il film, presentato in concorso al Festival di Cannes, ha visto riconoscimenti meritati per il contributo artistico di John Bailey (fotografia), Eiko Ishioka (scenografia) e Philip Glass (colonna sonora), con Francis Ford Coppola e George Lucas nel ruolo di produttori esecutivi.
«I wanted to explode, light the sky for an instant and disappear.»