Nella prospettiva del filosofo Gilles Deleuze, il cinema non si limita ad esporre comportamenti ma restituisce la ricchezza della vita, configurando possibili relazioni tra soggetto e mondo.
Nell’isolamento della soggettività individuale, Alex Garland, ora nelle sale italiane con il suo ultimo film Civil War , ha sempre interfacciato il cinema-cervello fondendo il tragico con l’apocalittico, le battaglie ambientali con quelle dell’intelligenza artificiale fino alla resa catartica dei suoi personaggi.
Isolare l’esperienza – Alex Garland
Nel film di Danny Boyle le buone intenzioni di un gruppo di animalisti danno origine a una concatenazione di eventi apocalittici al servizio di esterne ed interne letture morali. L’inettitudine dei potenti, i danni del capitalismo, l’autodistruzione dell’uomo. Osteggiando i governi il gruppo degli ambientalisti sfida se stesso non riuscendo a fermare ciò che ha creato.
Il linguaggio dello zombie-movie serve ad Alex Garland per parlare di qualcosa di più profondo: l’esperienza umana dinnanzi all’isolamento delle proprie sensazioni. Seguendo l’ottica deleuzeiana il vissuto è astrazione non rappresentazione e i protagonisti di 28 giorni dopo non sono eroi ma sprovveduti che hanno attivato un virus per un bene superiore, senza sapere ciò che avrebbero irrimediabilmente provocato.
Un concetto che nel cinema di Alex Garland ritorna sempre. L’uomo deve confrontarsi con le proprie scelte e i propri errori, a cui non può porre rimedio ma può solo sperimentare una lenta sofferenza. Nel caso specifico di 28 giorni dopo l’agonia dei protagonisti è l’essenza stessa del film. Questi ultimi devono rassegnarsi alla paradossale realtà di un’epidemia che si estende solo dentro i confini inglesi dove è ambientato il film. L’uomo quindi nel mondo stabile costituito dalla realtà-rappresentazione diventa da soggetto oggetto dell’instabilità di ciò che osserva, vede e non può cambiare. Tornando nell’astrazione che ha causato, dominata dall’universo dell’esperienza selvaggia.
Annientare l’umano – Alex Garland
I film di Garland sono nella sostanza un mezzo per estendere i timori e le utopie come antidoto all’annientamento della morte. La tecnologia ha un ruolo fondamentale, come avviene in Ex Machina. Il robot Ava, interpretato da Alicia Vikander, è il simbolo della macchina che sfida e manipola i sentimenti umani per una libertà che seppur robotica ha a che fare col piano delle sensazioni di Deluaze. In Ex Machina l’uomo tenta di essere Dio, sicuro di controllare le macchine che egli stesso ha creato. Non c’è idolatria però nel rapporto uomo-macchina ma, di nuovo, ricorre il tema forte, pulsante, delle inevitabili conseguenze della creazione dell’uomo. Ava nella sua meccanicità fa del proprio libero arbitrio l’autonomia della tecnologia dal controllo umano. Il robot è un corpo senza organi, un corpo isterico caratterizzato da un eccesso di presenza. Nel film di Garland è forte il superamento del corpo vissuto. Il robot della Vikander da prigioniera è aguzzina ed esecutrice del composto di sensazioni, di forze non umane e quindi astratte. Libera dal potere antropologico.
Annientamento invece ha per protagonista Lena, Natalie Portman, affascinata dal mondo sci-fi della mutazione genetica. Nell’Aria X, terreno e cuore fantascientifico del film, l’essere umano donna è posto nel bivio di cosa costituisce la natura e la scienza. Prima complici e poi ostili in una gara di supremazia tra il dominio e l’essere dominato. La biologia e la sua trasformazione qui fanno un discorso di confusione e di ambiguità. Il discorso di Alex Garland rimane sempre ben saldo sugli effetti dell’uomo su ciò che tocca e modifica. Ma identificando la modifica forzata del normale corso della scienza e della natura come inevitabile annientamento dell’utopia. Le forme aliene usano gli eccessi dell’abuso dell’uomo come duplicazione del proprio dominio sul mondo umano. E Garland, facendo suo il linguaggio del cinema di genere e dello sci-fi, estende il punto di non ritorno ad una inerzia che trasforma la causa in normalità, e l’abuso della specie umana in inevitabile cortocircuito genetico.
Qualcosa è cambiato – Alex Garland
Con Men Alex Garland arriva alla resa catartica definitiva. Influenzato da tendenze alla David Cronenberg, Garland realizza un manifesto femminista che parla di violenza ma estendendolo oltre la vita e usando il corpo nella forma dell’incubo per estinguere l’abuso sul genere femminile. Il personaggio di Jessie Buckley, Harper, dopo il suicido di suo marito a causa del divorzio, si trasferisce in Inghilterra per elaborare il lutto in un piccolo cottage di Cotson. Alex Garland gioca con la realtà della protagonista e i suoi rimorsi riguardo all’atto estremo del marito. L’intero film è un’apparente purificazione per Harper. Il processo catartico viene messo in moto mediante una serie di personaggi freaks, grotteschi, quasi inumani, che esplorano la psiche della Harper.
Figure che rappresentano lo schema mentalmente fragile della donna. Alex Garland usa lo stile allegorico e il body horror per far rinascere attraverso la trappola della coscienza della protagonista la sua colpa. La catarsi per il regista inglese viene costruita per essere annientata. E il corpo, con le sue varie mutazioni e lacerazioni, diventa una ricomposizione della percezione umana del giusto e della realtà. Un’estetica dell’intensità, usando l’approccio di Deluaze, che Garland fa incontrare col fuori di Harper trasformando la catarsi mancata in una rivendicazione del libero arbitrio della non colpa.
Il cinema di Alex Garland è dunque un labirinto senza uscita per la condizione umana. Al centro delle sue opere l’essere umano genera, mediante futuro e finzione dell’irreale, l’irrisolutezza della propria natura, in perenne conflitto con le proprie azioni e la propria volontà.
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