In arrivo nelle sale il film Body Odyssey di Grazia Tricarico. La regista, al suo esordio al lungometraggio, racconta la storia di Mona (Jacqueline Fuchs), una bodybuilder professionista in preparazione per la competizione più importante della sua carriera. Revok, Rai Cinema, Fenix Entertainment e Amka Films Productions presentano Body Odyssey, il film di Grazia Tricarico, una co-produzione Italia-Svizzera. Alla regista abbiamo fatto alcune domande per capire meglio il film.
Body Odyssey di Grazia Tricarico
Com’è nata l’idea di questo film che a tratti sembra non essere nemmeno un film, ma quasi una forma d’arte, una sorta di installazione?
La materia corpo è una materia che da sempre rientra nei miei interessi. Sto scoprendo che un po’ torna anche nei progetti futuri.
Sicuramente l’incontro con il body building femminile è stato accidentale. Si tratta di una curiosità nata ai tempi della scuola in cui decisi di fare un cortometraggio dal titolo Mona blonde che era veramente uno studio del personaggio, quindi una cosa molto diversa, ma con la stessa protagonista. Volevo capire la materia e cosa c’era dietro questo mondo e ho scoperto un mondo fatto di sacrifici sovrumani. Sono davvero degli scienziati del corpo, in un certo senso, molto lontani dallo stereotipo del body builder. Ho scoperto atleti incredibili con un controllo e una forza psicologica veramente impressionante, quindi l’interrogativo alla base del film era quali sono i limiti e gli standard estetici per poter plasmare il nostro corpo. Nel caso di una body builder donna poi c’è una fisicità e una femminilità anomala rispetto a quella che la società ci impone per cui la ricerca è diventata: dov’è la bellezza e dov’è la femminilità? Quali sono le libertà che abbiamo rispetto al nostro corpo e quando il nostro corpo diventa una prigione? Questo involucro è sottoposto a forze esterne che generano sempre un conflitto.
Ma direi che il conflitto con il corpo non è una prerogativa del body builder, ma della specie umana. È una cosa tutta umana quella del ricercare la bellezza e di poter plasmare il corpo, ma anche il mondo esterno.
Diciamo che l’incontro con il body building e con Jacqueline Fuchs ha fatto scattare la scintilla che in 10 anni di lavoro ha dato i suoi frutti. Ed è una ricerca che non si è esaurita perché non ho trovato le risposte a molte cose, però il film è una volontà di condividere alcune scoperte, non solo informazioni, ma anche il concetto stesso di estetica e bellezza.
Tornando alla tua domanda, in effetti ci sono delle connessioni con il mondo dell’arte, ma credo sia anche un approccio cinematografico che è al servizio di questo tema. Non poteva essere secondo me un film realistico, documentaristico perché era più ampio il discorso e poi c’è tutto l’aspetto estetico e sonoro che è un vero e proprio lavoro di linguaggio con lei che fa da filtro. Viviamo già una realtà distorta, lei è già trasformata, non la prendiamo alle origini. Ed è tipo di film che lascia una riflessione personale al pubblico. Lo chiamerei comunque cinema perché penso che il cinema non debba lavorare sull’empatia sempre e comunque. Con Mona, per esempio, sarebbe difficile; sarebbe difficile capirla fino in fondo. Il suo corpo, però, deve essere uno specchio per noi, per ragionare su quali sono i rapporti con il nostro corpo. In questo senso penso che non sia un film di empatia o un film caldo, ma un film che lavora sull’immersione, sulla sensorialità.
Spazio e tempo
Mi collego a quello che hai detto per chiederti come hai lavorato con spazio e tempo. Se non ci fossero alcuni elementi che ci aiutano, in parte, a comprendere si potrebbe dire che spazio e tempo non esistono o comunque sono indefiniti. Vengono plasmati così come il corpo, non solo di Mona, ma di chiunque altro. Come hai lavorato in questo senso?
Sì, e questa era una volontà precisa: rendere il film astratto, surreale. Sempre per questo motivo abbiamo anche optato per l’inglese perché è una lingua artificiale che riconosciamo nei codici come universale (almeno nel mondo occidentale), ma qui è usata con diverse inflessioni e molte etnie diverse. La volontà era quella di non collocare il film nel reale e portare lo spettatore altrove facendolo allontanare dal suo universo. Credo che il cinema debba fare anche questo.
Corpo come prigione
Alla luce di queste premesse è corretto definire Mona come imprigionata? Non solo nel proprio corpo, ma anche in una vita che forse, dopo un po’, sembra non appartenerle più. Faccio riferimento, per esempio, alla scena in palestra con il coach che la guarda dall’alto in basso e aspetta fino all’ultimo per aiutarla, impedendo anche ad altri di intervenire. Lui vuole avere il controllo totale su di lei, sotto tutti i punti di vista. E lei, finché non incontra Nic, sembra assecondare ciò e apprezzare. Come in un gioco tra preda e predatore. Senza contare che c’è poi l’elemento della voce fuori campo che elenca inesorabilmente e con voce fredda muscoli e parti del corpo ai quali non sappiamo cosa succederà, come una sorta di tortura, fisica e psicologica alla quale è sottoposta Mona, ma indirettamente anche noi spettatori.
Esatto. Mona è un personaggio che arriva alla deriva e arriva a vivere quel corpo come una prigione, ma è una prigione che si è anche costruita. Come nella realtà talvolta diventa un’ossessione il prendersi cura in un senso o nell’altro del corpo, l’eccesso nel plasmare il corpo può portare veramente a un delirio psicologico come nel caso di Mona all’interno del film. Anche la presenza di Kurt contribuisce ad alimentare ciò perché è un coach particolare, e poi lo sono in generale quelli dei body builder.
Poi c’è da dire che il cinema ha sempre un po’ diviso il coach etichettato o come punitore o come grande motivatore. Lui, invece, è un pigmalione, un artista che scolpisce e ama la sua creatura, ha un’ambiguità profonda. Kurt è parte di lei e del suo corpo. Il suo modo di allenarla spesso è più psicologico, sembra quasi uno sciamano che, sotto ipnosi, la plasma. L’idea è anche mantenere, però, una forza umana in Mona che resiste anche alle forze esterne e gli permette di avere una fine dignitosa, eroica perché è una storia di ricongiungimento e allontanamento dal proprio corpo. C’è anche una volontà di ricongiungersi al proprio corpo prima della separazione.
Grazia Tricarico: il corpo è il protagonista?
Il corpo diventa protagonista a tutti gli effetti quando lo sentiamo parlare.
Sì, e alla fine è sempre più ingombrante e non lo vogliamo più sentire nemmeno noi.
Mi fa sorridere il fatto che, a un certo punto, viene pronunciata la frase sei tu che hai il controllo del tuo corpo. In realtà, però, è chiaro che non è così. Senza fare troppi spoiler capiamo con l’andare avanti della storia che il corpo diventa Corpo, un’entità a sé stante che vuole dire la sua e che vuole essere autonomo e indipendente dalla mente e dalla ragione. Diventa qualcosa di ambiguo, così come il rapporto con l’allenatore che è perennemente ambiguo (è l’allenatore? Il padre? L’amante?).
Sì, ma poi tutti gli uomini del film si ripetono. Nic è un giovane Kurt, ma lo sono anche il prete e il suo fan. In proporzione è più un mondo di feticismi dove quella bellezza c’è ed esiste, ma c’è anche il rapporto del mondo esterno che giudica Mona. Tutti i personaggi aprono uno squarcio nel microcosmo anche sopra le righe, proprio per l’approccio al film. Ma è una traduzione cinematografica di quello che ho riscontrato io, Grazia Tricarico, nella realtà, in questi 10 anni.
Sono d’accordo con quello che dici e credo che tutto questo risulti più efficace in un film di finzione come questo che non con un documentario.
Poi nel documentario c’è sempre una forma di condanna. Possono esserci delle derive negative, ma sono comunque atleti formidabili. Io non giudico questa cosa.
Secondo me, così facendo, hai reso in maniera poetica e violenta il mondo di privazioni degli atleti, naturalmente qui è portato agli estremi.
Per me lei è una creatura mitologica. Chi non ha mai visto una body builder ha un rapporto di attrazione e repulsione, c’è questo meccanismo anche di voyerismo e negazione.
Due scene a spezzare il dramma
Un’altra scena potente è quella nella quale Mona sputa l’eucarestia in chiesa. Chiaramente lo fa per il discorso del peso e della perfezione corporea alla quale è sottoposta e costretta dal coach, ma è una scena forte. Può essere considerata anche come una scena dal valore duplice, come a rinnegare qualcosa? Non parlo di religione, ma proprio di rottura degli schemi e della routine.
In quella scena il suo delirio diventa pubblico. Noi lo sappiamo, ma chi è intorno a lei non ha capito, nemmeno Kurt. E io ho pensato: dove rompere quella struttura se non in un contesto sacro? Ci sono, però, anche dei toni a smorzare questo delirio in aumento, in chiesa così come nella scena a casa di Nic. Ma credo sia un momento che spesso suscita un sorriso più che un turbamento per come è strutturata.
E infatti volevo chiederti della scena a casa di Nic che si può considerare la più divertente dell’intero film.
Sì, ci siamo divertiti molto a pensarla e girarla. Perché hai bisogno di respirare prima di arrivare al finale. Quando arriva a casa di Nic è come se arrivasse a casa nostra. Infatti lì è un delirio di lei, ma anche di loro, non sappiamo quale sia veramente il punto di vista, il pubblico sta un po’ con lei un po’ con loro. Lì volevamo perdere i riferimenti. Anche gli attori erano disorientati.
Inizio e fine
Due momenti sui quali vorrei porre l’attenzione sono l’inizio e la fine, che, in qualche modo, si ripetono. Sembra quasi di essere in un fondale marino, all’inizio, risalendo in superficie e, alla fine, sprofondando. La sensazione iniziale è quella che il corpo sia come una roccia che con l’acqua (e non solo) si può plasmare. Alla fine, invece, Mona è come plasmata in una sorta di alga, di corallo. Quindi da una parte è diventata qualcosa di nuovo, dall’altra parte è diventata ciò per cui è stata plasmata.
Sono contenta tu l’abbia capito. I fondali sono l’interno del corpo di Mona che torna anche alla fine. C’è tutto questo riferimento con il rapporto dentro/fuori di Mona. C’è un qualcosa che ricorda il corpo umano. Ed è stata una linea che abbiamo seguito anche nelle location e negli ambienti cercando qualcosa che sembrasse il corpo di Mona. Non c’è mai una location che riconosci come realistica ed era l’intento di tutto il film.
Una divisione in capitoli nel film di Grazia Tricarico
La sensazione che ho avuto è che si tratti di un film che si potrebbe definire un’evoluzione per tappe e, come nella vera Odissea, è un film diviso in capitoli ogni volta introdotti da parti del corpo diverse perché la voce fuori campo che li elenca è posta all’inizio di alcune sequenze dopo il buio.
Esatto. Nei neri hai l’interno del corpo (a volte, invece, è dopo). Si tratta di descrizioni dei paesaggi interni che sono il suo modo di comunicare. Ci sono riferimenti a un mondo classico, anche all’odissea omerica perché è anche una volontà di ricongiungersi, di tornare a casa e quindi è veramente un’odissea.
Anche a livello di scansione temporale noi viviamo circa 2/3 mesi della vita di Mona di cui raccogliamo i momenti centrali. Infatti non abbiamo mai scene di transizione in favore di un racconto che è sintesi di un microcosmo che si è creato in quella scena con quei personaggi che aggiunge al racconto di lei. Poi c’è da dire che è una tragedia con il destino di Mona annunciato fin dall’inizio (e non è un caso che la voce di Corpo sia maschile).
La scena in cui è dorata è una liberazione, ma è anche emblema di vittoria (la medaglia d’oro, la coppa…).
Sì perché Corpo va alla gara. Quando riemerge è lui che canta. Sicuramente la trasformazione è compiuta, però la domanda è: abbiamo perso la parte umana di lei o l’abbiamo liberata?
Prima parlavamo di corpo-prigione, sto pensando a quello che succede a noi con gli avatar, quel qualcosa che ci sospende. La materia corpo oggi è un tema centrale. Quindi chi vince veramente? Alla fine con questo film condivido domande e interrogativi.
Il cinema di riferimento di Grazia Tricarico
Hai un cinema di riferimento? Per questo film hai avuto qualcuno o qualcosa di riferimento? A me è venuto subito in mente Cronenberg.
In realtà faccio sempre fatica a trovare reference nei miei lavori. Sono stata sempre piuttosto onnivora. Sugli autori, però, vario tanto. Penso a Jodorowsky, Cronenberg per i temi, Fritz Lang, Lanthimos. Però devo dire che ho studiato storia e critica del cinema, quindi nel periodo di studi ho assorbito una quantità di cose che sto rigettando, ma non saprei identificarle. C’è tanto di quello che amo, anche Buñuel e il cinema espressionista tedesco.
Progetti futuri? Hai accennato all’inizio al tema del corpo che ritorna…
Sì, c’è qualcosa
Sono Veronica e qui puoi trovare altri miei articoli