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Conversation

‘Another End’ Conversazione con Piero Messina

Con 'Another End' Piero Messina utilizza l'essenza stessa del cinema per raccontare l'amore che vince la morte. Con lui siamo entrati nel cuore del film

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piero messina

Inserito nel concorso ufficiale dell’ultima edizione del Festival di Berlino, Another End di Piero Messina prende in prestito la fantascienza per raccontare l’amore che vince la morte. Dopo L’attesa Piero Messina firma un’altra opera di valore assoluto. Con lui siamo entrati nel cuore del film.

Prodotto da Indigo Film con Rai Cinema Another End è nelle sale distribuito da 01 Distribution

Another End di Piero Messina

piero messina

Se il finale di Another End lascia allo spettatore la possibilità di completare la storia, il significato dell’immagine conclusiva chiude il cerchio con la sequenza d’apertura. Il senso di unione restituito dagli sguardi tra i due protagonisti fa il paio con lo scambio di battute della scena iniziale in cui a emergere è l’isolamento e la separazione del protagonista maschile dal resto del mondo.

Hai colto perfettamente l’intento di quelle sequenze. Il finale per me ha rappresentato il punto di inizio. La prima cosa che ho visualizzato è stata l’immagine dei due corpi sdraiati sul letto che si svegliano in silenzio, per poi guardarsi e ritrovarsi. Nel mistero del loro sguardo ho capito che c’era qualcosa da esplorare, qualcosa di interessante da raccontare sull’amore e sullo stare insieme. Mi fa piacere che tu mi abbia posto questa domanda perché da quella visione iniziale ho costruito l’immaginario del film. Quando è successo non sapevo ancora dove stavo andando. Ero però cosciente della forza di quello sguardo e del sentimento derivato dall’essersi riconosciuti. Another End è partito da lì.

Sono due sequenze capaci di sinterizzare la storia raccontata nel film. Se la scena conclusiva è immersa in una luce abbacinante, quella iniziale è scura e chiusa al mondo esterno, a testimonianza del diverso stato d’animo che ne scandisce gli eventi. Nella scena d’apertura il contatto con l’altro è mediato, oltre che dalla presenza della porta chiusa, anche dal fatto di parlare attraverso il vetro dello spioncino. Mettere in campo nella prima e nell’ultima scena gli stessi elementi – il volto e il corpo degli attori – variandone però la posizione e l’inquadratura ti consente di creare un collegamento allo stesso tempo narrativo e di senso relativo al viaggio compiuto dal protagonista.

Esatto. Ora che ne parli riconosco questa circolarità di cui fin qui non mi ero accorto. Al contrario, il viaggio del protagonista, la sua separazione dal mondo e dalla sua compagna, compreso l’approdo finale, rappresentato dal riconoscersi dei loro sguardi, facevano parte di un percorso prestabilito. Volevo raccontare come una persona distaccata dal mondo e immersa in un dolore insostenibile riesca a ritrovarsi in quello sguardo finale in cui tutto si calma e si riappacifica.

La prima inquadratura

La primissima inquadratura indugia sulla donna filmata di schiena e  intenta a guardare dallo spioncino della porta. L’immobilità del corpo, schiacciato alla parete dalla resa prospettica e ripreso per un tempo più lungo del normale, unito al fatto di non vederla in faccia mentre pronuncia le prime parole, la fanno sembrare per un attimo svuotata di ogni vitalità e ridotta a semplice involucro. Anche la decisione di riprendere il corpo di Ava in maniera da evidenziarne la maggior grandezza rispetto a quello di Sal mi pare rimandare alla premessa scientifica di Another End, ovvero a quello scarto tra contenitore e contenuto, tra corpo e anima, su cui il film si basa per immaginare di far tornare in vita i defunti inserendone i ricordi nel corpo dei locatori. 

Esattamente, il film parte proprio da questo scarto iniziale, dalla separazione tra corpo e anima, tra contenitore e contenuto, per poi confluire a un’unicità in cui, come per fortuna accade nella vita, non sai dove finisce una cosa e dove inizia un’altra. Su questo aspetto del film ho ragionato molto cercando di creare situazioni in cui, soprattutto all’inizio, la separazione tra corpo e coscienza fosse portato all’estremo. Volevo che anche a livello visivo fosse evidente il più possibile, almeno fino a quando l’inizio della storia d’amore rende più complicata la definizione di questa scissione. A quel punto mi interessava che le cose iniziassero a diventare più confuse e, se vuoi, anche più vive.

Dialogo e suggestioni nel film di Piero Messina

Una delle sfide che hai raccolto con successo era quello di dover fornire al pubblico un numero molto alto di informazioni, necessarie per stabilire le regole del gioco. Non potendone argomentare all’interno di una saga, come è successo a Villeneuve per Dune, ma dovendo concentrare la fondazione del mondo all’interno della medesima storia, il rischio era quello di fare un film molto parlato, tale da appesantirne la narrazione. Sei riuscito a compensare il surplus dialogico lavorando su suggestioni che ti hanno permesso di lasciare in parte fuori campo la rappresentazione della distopia. Così succede anche per le biografie dei personaggi che lasci intuire senza entrare nel dettaglio.

Sì, esatto. Come dici, nella prima parte avevo bisogno di creare un set up molto complesso per stabilire le regole del gioco, ovvero per far capire allo spettatore come funziona la tecnologia capace di riportare in vita le persone e per fargli conoscere in che tipo di mondo siamo. Abbiamo dovuto costruire molto dal punto di vista narrativo realizzando, come giustamente dicevi, un film parlato; se vuoi molto razionale, matematico. Poi però Another End riesce a lasciarsi andare rispetto a quelle che sono le conseguenze di questi presupposti. Quando la storia diventa romantica subentra la rarefazione e dunque la tendenza a suggerire ed evocare più che a spiegare. Da parte mia ho cercato di armonizzare il più possibile queste due anime del film che, per me, è allo stesso tempo fantascientifico, romantico e anche thriller per alcuni passaggi che flirtano con quest’ultimo genere.

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Esterno e interno

Nella messa in scena stabilisci una dialettica tra spazi interni ed esterni che rimanda a quello tra contenitore e contenuto. Se l’irrequietezza dei personaggi e il loro vissuto emerge nella capacità delle scenografie di trasmetterlo attraverso la disposizione casuale e disordinata di oggetti e accessori, allo stesso modo la compostezza dei grattacieli e dello skyline metropolitano sembra rimandare alla bellezza algida e perfetta dei corpi chiamati a ospitare i defunti.

Come ne L’attesa anche in Another End lo spazio non doveva essere il frutto di un pensiero prestabilito, ma rappresentare con coerenza con i sentimenti dei personaggi. Per me funziona come il buco della chitarra, con il vuoto capace di far risuonare forte il suono delle corde che gli stanno sopra. I personaggi sono quelle corde e il vuoto lo spazio che gli sta attorno. La tua domanda mi fa enormemente piacere perché i primi giorni il set appena costruito era, per forza di cose, molto pulito e levigato e dunque non coerente con i sentimenti dei personaggi. Per questo abbiamo iniziato a riempirlo di oggetti. Io, per esempio, ho portato da casa il mio ukulele e l’ho aggiunto alla scenografia restituendo a poco a poco l’ambiente al disordine della vita vissuta. Gli esterni sono stati ricostruiti usando moltissimi scorci presi da Parigi e Roma. A un certo punto ho messo le fotografie delle location sul tavolo e le ho montate senza preoccuparmi di quale fosse la loro esatta provenienza. È stata un’associazione istintiva, ma con risultati molto vicini a quello che stavamo raccontando.

Ancora sul rapporto tra interno ed esterno e tra corpo e anima, nella prima parte, quando a prevalere è il senso di solitudine dei personaggi, lo spazio esterno è presente attraverso campi lunghi della città. Successivamente, quando prende piede l’amore tra i protagonisti, la metropoli quasi scompare e a riempire il quadro sono i corpi dei personaggi.  

Quello che dici lo abbiamo cercato quasi a livello matematico, con lo spazio che nella mia testa doveva scomparire mano a mano che il film entrava nella relazione amorosa e che la mdp si avvicinava sempre di più agli attori. All’inizio avrei voluto girare in cinemascope, poi, nella necessità di avvicinarmi ai corpi, ho optato per un formato più quadrato, capace di stare più vicino ai personaggi senza lasciare spazio attorno a loro.

I sentimenti di Sal e Ava

Nella scena in cui Sal e Ava entrano dentro la sala dei ricordi questa procedura raggiunge il suo climax. Da lì in poi è come se tutto il film si spostasse su un altro livello di percezione, mettendo in scena l’inconscio dei personaggi. A quel punto è come se stessimo dentro i loro sentimenti.

Esatto, da quel momento è come se il film iniziasse a entrare dentro ai personaggi non limitandosi più solo ad avvicinarli, ed è vero che da quel punto entriamo in una dimensione per lo più psichica. Oltretutto in quella scena c’è uno dei dialoghi che preferisco, quando Sal parla delle scarpe. Interrogandomi molto su cosa sono i ricordi mi sono reso conto che la dimensione audiovisiva è residuale. A essere importante non è il ricordo in sé, ma l’emozione che avevamo mentre facevamo una determinata cosa. Se dovessi estrarre il ricordo di questa intervista, come fanno i personaggi del film, la sua visualizzazione corrisponderebbe al pavimento che sto guardando mentre ti rispondo, anche se poi il ricordo sarebbe tutta un’altra cosa. Quello che racconto io è che nel momento che ne visualizzi uno lo semplifichi senza però far venire meno il collegamento all’emozione che produce.

Umanità e tecnologia nel film di Piero Messina

La sequenza iniziale, quella in cui Sal entra dentro l’appartamento dei vicini, è quanto di più lontano ci si possa aspettare per un film ambientato nel futuro. La scenografia degli interni è demodé così come anche la tipologia dei sanitari che Sal è chiamato a riparare. Nel contesto del film la scena appare una sorta di monito che ci avverte sul primato del fattore umano rispetto a quello scientifico e tecnologico.

Hai colto appieno un aspetto del film, in particolare di quella scena. Volevo infatti che questa storia di fantascienza si aprisse con una scena quanto più possibile realistica. Come hai notato infatti l’abbiamo girata con la telecamera a mano all’interno di una scenografia che potrebbe essere quella di mia nonna. Il protagonista doveva fare qualcosa di ordinario e quotidiano, come lo è aggiustare una doccia, e dunque qualcosa di lontano da ciò che si fa in un film di fantascienza. L’approccio delle riprese doveva essere molto fisico e vicino al personaggio perché l’apertura aveva il compito di anticipare dove sarebbe arrivato il film. In più mi divertiva fare entrare lo spettatore senza fargli capire come doveva vedere Another End e in che tempo si svolge la storia. Lì per lì è difficile comprendere se il tono è comico o drammatico. Poi, all’improvviso parte la musica, scorrono i titoli di testa e il film si manifesta per quello che è. Spiazzando chi lo guarda.

Divise tra passato e futuro, scenografia e fotografia concorrono a creare la sospensione temporale in cui il presente sembra quasi non esistere.

L’intero film è costruito per mettere i personaggi all’interno di questa sospensione. L’idea era quello di creare questo presupposto per poi liberarsene, rivelando l’essenza del film e cioè la sospensione. Capita così fin dall’inizio perché da quella stanza immersa nel passato si passa al grattacielo di una metropoli futuristica. Dall’hangar della società che organizza gli innesti andiamo ai ricordi di Zoe filmati da un cellulare. Nei primi minuti del film tutto è mescolato.  

Anche la visione della metropolitana vetusta e malmessa fa parte di questa vertigine visiva.

Era il gioco che avevamo pensato di fare, quello di alternare i grattacieli al loro contraltare. Ci doveva essere sempre un elemento che li compensasse. In una scenografia, se vuoi consueta, doveva sempre intravedersi lo skyline dei grattacieli, anche fuori fuoco ma sufficiente per evocarlo. Così facendo il futuro è diventato una questione di equilibri giocati sul centimetro.

Another End è una riflessione sul cinema?

Another End parla di simulazione, di fantasmi e di messinscena. Quando Zoe torna in vita la simulazione assume la forma di un vero backstage cinematografico. Questo per dire che il film non si sottrae a più di una riflessione sul cinema.

Sì, in realtà me ne sono accorto mentre lo giravamo. Se vuoi la scena che lo rende più palese è quella in cui loro due si godono un film distesi sul divano, quando a un certo punto Sal si volta a guardarla mentre lei è assorta nella storia. Vedere quel volto frammentarsi in mille espressioni di piacere e di dolore me lo ha ricordato perché quella che mettiamo in scena è una finzione talmente vera che finisci per crederci. Cosa che capita anche ai personaggi e pure allo spettatore. A un certo punto sono stato consapevole che stavo mettendo in scena una simulazione che però era talmente emozionante da essere vera. Tu come spettatore ci credi quando vedi il film così come Sal riconosce la persona che ha amato in una che non aveva mai visto.

“Voglio riuscire a vederla com’era”: la frase pronunciata da Sal allude ai meccanismi dell’illusione cinematografica. Peraltro tutto il film è attraversato da riflessioni sullo sguardo, come dimostra la sequenza all’interno del vagone della metro, dominata dalla dialettica del vedere e non vedere.

Le immagini delle persone nella metro erano di quelle che ancora non sapevo come collocare e che però mi sembravano essere molto centrate rispetto alla storia. Della questione del metacinema ne parlavo molto con gli attori. Gael mi diceva che prestare il corpo ai ricordi di un’altra persona non era molto diverso da quello che facevano loro come attori. In questo modo gli interpreti fin da subito si sono sentiti vicini ai personaggi perché conoscevano la sfasatura tra attore e personaggio. Una cosa che accade anche allo spettatore. Se ci pensi tu guardi Gael ma ami Sal.

Nel film si parla anche di residui onirici riferendosi a quella parte di ricordi che a un certo punto rimangono per errore nel corpo dei locatori. Another End continua a parlare di cinema; della sua capacità di rimanere impresso e di concorrere a formare l’immaginario collettivo.

Rispetto a questo concetto c’è un bellissima immagine di Gianni Rodari in cui racconta del sasso nello stagno. Dopo averlo lanciato questo crea le onde per poi depositarsi sul fondo. Quando sbatte sulla sabbia per un momento la fa risalire in alto. Ecco, io trovo questa immagine molto vicina a ciò che fa a me il cinema come spettatore. E come se quest’ultimo facesse rimuovere le cose depositate nel tempo permettendoti per un attimo di risentirle e di rivederle. Come regista la trovo un’immagine molto fertile.

Richiami e rievocazioni nel film di Piero Messina

A proposito di cose che tornano a galla, Another End evoca anche il grande cinema e per quanto mi riguarda due film in particolare: il primo è Un sogno lungo un giorno di Francis Ford Coppola, ricordato iconograficamente dalla vicinanza del personaggio di Renate Reinsve a quello di Nastassja Kinski. Penso in particolare alla sequenza all’interno del night che fa il paio con l’epifania “over size” girata a suo tempo dal maestro americano. E ancora a La donna che visse due volte quando, nella seconda parte, la figura di Ava diventa preponderante.

Ciò che mi emoziona come spettatore riemerge in tutto ciò che faccio. Il film di Coppola non è qualcosa a cui ho pensato razionalmente, ma l’ho talmente amato che non mi meraviglio possa essere entrato a far parte dell’immaginario di Another End. Proprio l’altra sera riguardando L’attesa passato su Sky mi sono accorto per la prima volta che la sequenza iniziale rimandava all’installazione di Bill Viola che avevo ammirato anni prima al Moma di New York.  Se me lo avessi chiesto subito dopo aver girato il film ti avrei detto di no perché solo oggi ne sono diventato consapevole.

Peraltro la sequenza del film di Coppola da te citata l’ho amata così tanto che non mi sorprenderei se in qualche modo avesse a che fare con la scena del night. A La donna che visse due volte invece ci ho pensato spesso sia in fase di scrittura che sul set. Era comunque un riferimento che in qualche modo volevo citare.

La musica e la fotografia

Nel film la musica ha un forte senso drammaturgico al punto da diventare una sorta di secondo narratore, di secondo sguardo sulle vicende del film. Per certi versi il suo utilizzo mi ha ricordato il lavoro fatto da Krzysztof Kieślowski e Zbigniew Preisner in Film Blu.

Per me Kieślowski è un regista clamoroso e dunque sì, mi piace tantissimo come usa la musica che, oltre a enfatizzare le emozioni, ha anche un ruolo espressivo e narrativo. In questo film lavorarci è stato molto divertente. Una parte della colonna sonora è stata fatta dal bravissimo Bruno Falanga, però c’era una scena in cui stavo facendo le prove con Renate senza riuscire a visualizzarla con le musiche esistenti. A un certo punto mi sono reso conto che stavamo utilizzando un pezzo da quattro quarti mentre io immaginavo un dondolio più simile a un valzer, per cui sono andato a casa e ho iniziato a scrivere un nuovo brano che ha permesso prima a Renate poi a me di trovare i giusti movimenti. Questo anche per dirti come per me le immagini siano legate alla musica.

La fotografia del film è molto complessa. La luce cambia continuamente attraversando una gamma sentimentale che la portano ogni volta a riformulare se stessa. A me, per esempio, è rimasto impresso il bianco e nero espressionista con cui riprendi i protagonisti dietro i vetri della casa di Ava. In alcune parti sono i colori acidi a farla da padrone, in altri a prevalere sono tonalità più fredde ancorché riscaldate da fonti più calde. Quello fatto insieme a Fabrizio La Palombara è stato un lavoro a trecentosessanta gradi.

La tua domanda coglie la sfida del comparto fotografico. A Fabrizio, che nelle prime riunioni mi chiedeva quale fosse l’idea di massima, ho detto che non ce n’era una perché la fotografia doveva variare silenziosamente su più piani, come poi hanno fatto sia la musica che la mdp. In Another End non esiste un unico modo di iniziare e finire poiché ogni reparto ha lavorato in maniera mimetica per assicurare un continuo cambiamento. Per la fotografia abbiamo ragionato assecondando i sentimenti dei personaggi, con la prima parte più astratta e direi metafisica e la seconda, quella all’interno del night, notturna e acida.

L’espressionismo tedesco di cui parli non è una citazione sbagliata perché avevo immaginato un film di quel tipo. Senza dimenticare i chiaroscuri dei passaggi più vicini al thriller. Volendo semplificare possiamo dire che l’alternarsi dei colori ha lavorato per arrivare alla luce finale, quella più pura emessa dai raggi del sole.

Il lavoro con gli attori

La scelta di lavorare con un’attrice come Renate Reinsve unisce il talento interpretativo a un portato fisiognomico capace di imprimersi nell’immaginario dello spettatore. Lei ha questo corpo modernissimo che fa il paio con un viso d’altri tempi.

Antico e anche cangiante. Il suo è un viso stupendo da inquadrare perché ti dà la possibilità di farlo risplendere in maniera diversa, a seconda di come lo guardi. Può essere bellissima, anonima, misteriosa. Renate ha la stranezza di questo corpo nordico e statuario insieme a un volto antico di una bellezza inconsueta. Inquadrarla è stato un autentico viaggio perchè lei ti dà la possibilità di lavorare su mille sfumature. Considera che stiamo parlando solo di fisiognomica e che a questo dobbiamo aggiungere il fatto che lei è un’attrice mostruosa. È sempre vera, sempre viva, non recita mai. Questo per un regista è un costante regalo.

C’è una scena che mi permette di prendere in considerazione il lavoro fatto insieme agli attori. Quella in cui Sal e Zoe si incontrano per la prima volta nella loro casa dopo il “risveglio”, caratterizzata dal litigio che permette a Sal di avere davvero l’impressione di trovarsi di fronte alla compagna. Nel breve lasso di tempo a disposizione gli interpreti non solo cambiano continuamente spazio tornando più volte su sentimenti di segno opposto, ma sono chiamati a fare della distanza o meno dei corpi la misura del loro innamoramento. Parliamo di una sequenza impegnativa sia dal punto di vista emotivo che fisico. Me ne puoi parlare?

Se tu mi dovessi chiedere di quale tra le scene più difficili da me realizzate vado più fiero ti direi proprio quella. Penso che sia stata la cosa migliore che abbia mai girato anche se poi è una di quelle dove il mio lavoro di regia è pressoché invisibile. Per riuscire a farla come si vede nel film ci siamo concentrati soprattutto sulla questione ritmica. Arrivare alla discussione tra Sal e Zoe, e dunque al punto di tensione massima tra di loro, equivaleva a una repentina accelerazione di ritmo e a dover passare da una iniziale situazione statica a un’altra che diventa sempre più veloce. Allo stesso tempo, se all’inizio il confronto è solo mentale, successivamente diventa sempre più fisico e dipendente dal contatto dei corpi. L’abbiamo costruita in diverse fasi. Nella prima Sal è seduto, Zoe in piedi intenta a versarsi il caffè. Si guardano mentre la pioggia fuori cade in maniera rarefatta. Poi lui si alza, si muove verso la tartaruga. Lei si sposta in bagno e da lì entrambi vanno verso il corridoio.

Per farti capire la follia di questa scena, sono arrivato ad allungare il corridoio di cinque metri per permettere agli attori di arrivare fin lì con la progressione naturale e non in anticipo rispetto al montare della tensione. È stata una scena girata quasi col metronomo, così musicale che per realizzarla vi abbiamo lavorato come lo si fa per una coreografia. Parti in un modo, e finisci in un altro. Ogni spostamento, ogni nuovo spazio corrisponde a un’accelerazione di emozioni. Dentro la camera da letto c’è la rabbia vera, c’è un sentimento genuino, quello che permette a Sal di credere davvero che Zoe sia la persona che sta abbracciando. Lì il ritmo è così alto da non consentirgli alcun dubbio rispetto a quello che sta vivendo.

L’unione dei corpi è anticipato in maniera poetica dal dettaglio sulle mani che si toccano, dapprima circospette poi sempre più decise. Mani che esprimono il senso di cura e di protezione nei confronti della donna amata.  

Esatto. Alla fine, dopo tutto quel movimento, c’è una stasi e subito dopo il contatto. Ti ripeto, quella è la scena di cui vado più fiero. Ti ringrazio di averla scelta e di avermene fatto parlare.

È una sequenza da brividi perché racconta una situazione che bene o male abbiamo vissuto tutti non so quante volte. 

Esatto.

La direzione degli attori di Piero Messina

Detto che nel film recita anche un’altra attrice straordinaria, come Olivia Williams, un altro elemento di forza delle tue regie è la direzione degli attori. Nonostante tu abbia a che fare con attori di fama internazionale, e dunque con una carriera già consolidata, ogni volta li metti nella condizione di superarsi. Così succedeva a Juliette Binoche ne L’attesa, coì succede in Another End a Gael Garcia Berna e a Renate Reinsve.

È un complimento bellissimo. Posso solo dirti che lavorare con gli attori è la cosa che amo di più. Nonostante nel mio cinema le immagini abbiano un ruolo importante e forse più evidente di altre cose, il lavoro con gli attori per me è l’aspetto più prezioso. Quando arrivano sul set mi dedico solo a loro e tutto ciò che faccio insieme agli altri comparti è per metterli nella condizione di farli esprimere al meglio. Un giorno ho fatto notare al direttore della fotografia il fatto che a mensa ci sedevamo sempre allo stesso posto non in maniera razionale ma solo perché lì c’era la luce migliore. Così gli ho detto che anche se giravamo in teatro di posa sarebbe stato bello che la luce funzionasse come quella vera, e cioè che non si doveva spostarla a nostro piacimento, ma doveva restare sempre nella stessa collocazione. In questa maniera gli attori sarebbero stati spinti a muoversi verso quella in maniera naturale. Questa impostazione ha stimolato non solo la loro parte più istintiva, ma ha generato un’alchimia creativa capace di coinvolgere ogni persona del set, me per primo. Se tu decidi di non cambiare più la posizione della luce, cosa che in un teatro di posa potresti fare a tuo piacimento, tutto il resto vi si deve adeguare, compreso il posizionamento della mdp. Il vantaggio di questo tipo di organizzazione sta anche nel fatto che puoi lavorare senza interrompere il flusso creativo. Non ci sono tempi morti, si gira subito e questo penso esalti anche gli attori oltre che me come regista.

Il cinema di Piero Messima

Parliamo del cinema che ti piace.

Per quanto riguarda il cinema sono un po’ schizofrenico, nel senso che guardo di tutto anche se non è che mi piace ogni cosa. Ho avuto diverse fasi di innamoramento. C’è stato un tempo in cui amavo Aleksandr Sokurov in maniera così viscerale da mandargli un sacco di mail in cui in sostanza gli chiedevo il segreto del suo modo di girare. Però se devo trovare una sintesi per farti capire cosa mi piace ti dico che amo il tipo di cinema che quando esci dalla sala è difficile da raccontare senza ridurne la bellezza, quello in cui l’esperienza della visione rimane la cosa più importante.   

Another End

  • Anno: 2024
  • Durata: 130'
  • Distribuzione: 01 Distribution
  • Genere: Fantascienza, Thriller, drammatico
  • Nazionalita: Italia, Francia, Gran Bretagna
  • Regia: Piero Messina
  • Data di uscita: 21-March-2024