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Approfondimenti

Todd Haynes – Uno sperimentatore di linguaggi

Con una carriera lunga più di trent'anni, l'autore ha realizzato capolavori profondamente diversi tra loro, quali Poison, Safe, Velvet Goldmine, Io non sono qui, Carol ed il recente May December

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Todd Haynes

Nato nel 1961, Todd Haynes è uno dei maggiori registi della storia del cinema americano, con una carriera che parte dalla fine degli anni ’80 e continua fino al giorno d’oggi. Dopo una laurea in semiotica alla Brown University di Providence, inizia la sua produzione all’interno del cinema indipendente, che allora stava guadagnando popolarità tra il pubblico americano.

Pioniere del New Queer Cinema e vincitore del Sundance, a partire dalla fine degli anni ‘9o, le sue opere hanno iniziato ad assumere una portata e una quantità di pubblico sempre maggiore, mantenendo comunque costante la sua ricerca di un linguaggio non necessariamente conforme a quello convenzionale. Tra i suoi lavori più riusciti ricordiamo opere del calibro di Poison, Safe, Velvet Goldmine, Io non sono qui, Carol ed il recente May December.

Todd Haynes – Gli esordi

La prima opera diretta da Todd Haynes ancora disponibile al pubblico è The suicide, un breve corto girato nel 1978, a diciassette anni. Il film, dalla natura decisamente indipendente, racconta la vita di un ragazzo, costantemente vittima di bullismo. Le forti scene di prevaricazione sono narrate in prima persona dal protagonista e intervallate da inquadrature che mostrano il suo violento suicidio. Il corto mostra la volontà di sperimentare dell’autore, che alterna immagini simboliche e surreali a sezioni quasi documentaristiche. Il risultato è un efficace racconto della depressione adolescenziale e della fine dell’infanzia, con un’estetica indie a tratti quasi ispirata dal linguaggio del videoclip.

Nel corso degli anni ’80, durante gli studi, Haynes produce altri due corti, il primo dei quali è Assassins: A film concerning Rimbaud, del 1985, un’opera sulla relazione amorosa tra i poeti Rimbaud e Verlaine che, tuttavia, oggi risulta praticamente introvabile.

Il secondo è Superstar: The Karen Carpenter Story, del 1987. In un misto tra finzione e documentario, vuole raccontare la vita della giovane artista e approfondire le cause della sua morte. Ciò che la contraddistingue è, nuovamente, un’estetica indipendente (che caratterizzerà tutta la prima fase della produzione dell’autore) e, soprattutto, il fatto che questa sia girata per la sua quasi totalità con delle Barbie modificate. A tratti disturbante, il corto si apre con il ritrovamento del corpo della protagonista e, successivamente, racconta la sua ascesa al successo, affrontando le gravi problematiche dovute all’anoressia.

Karen Carpenter e i media

Per la prima volta compare uno dei temi principali del cinema di Haynes, quello dei media. A tratti, infatti, l’opera è resa con lo stile di un documentario televisivo. Come in un telegiornale, accompagnati dalla voce narrante di un presentatore, si effettua una ricerca a ritroso, basandosi su interviste a un vasto gruppo di testimoni. La freddezza della narrazione televisiva si trova a contrasto con il peso emozionale della vicenda umana raccontata.

In questo senso, l’utilizzo di una ricostruzione tramite bambole mette in evidenza quella forte necessità di un racconto che vada a scavare nell’interiorità dei suoi personaggi all’interno di un linguaggio che, tipicamente, si limita ad un esplorazione superficiale degli eventi. Lo stile televisivo, a seguito di ciò, si fa a tratti corrotto da inserti psichedelici e sperimentali, che vogliono portare alla luce la verità del dramma umano di Karen Carpenter.

Nonostante la sua natura a tratti grezza, l’opera è sicuramente fondamentale all’interno della filmografia di Haynes in quanto contiene già le radici del suo stile registico e narrativo e alcuni dei temi con i quali si confronterà maggiormente.

Todd Haynes: Superstar the Karen Carpenter Story

Poison

Ispirato ai racconti di Jean Genet ed al cinema di Kenneth Anger, Poison decreta il successo di Todd Haynes. Il film, infatti, viene presentato al Sundance nel 1991, dove ottiene il Gran Premio della giuria. È composto da un’alternanza di tre racconti, il primo dei quali, Hero, racconta di un bambino che, dopo aver sparato al padre, salta dalla finestra. Il secondo, Horror, ha come protagonista uno scienziato che, dopo aver estratto e bevuto l’elisir della sessualità umana, diviene un lebbroso con impulsi omicidi. Il terzo, Homo, infine, racconta dell’attrazione omosessuale tra due prigionieri in un penitenziario.

I tre segmenti narrativi sono raccontati ciascuno con un linguaggio differente (sia dal punto di vista registico che narrativo), ottenendo quindi un’alternanza eterogenea di stili a contrasto. Hero si rifà, come l’opera precedente, allo stile di un telegiornale. Horror, in bianco e nero, è ispirato dagli horror classici; Homo, invece, unisce il linguaggio indipendente americano a sequenze oniriche e surreali.

Un mix eterogeneo di linguaggi

Ciò che contraddistingue il film è, ancora una volta, la sua natura indipendente e, in questo caso, il fatto che sancisce un passo importante per lo sviluppo del New Queer Cinema americano. A tratti grottesco, Poison costituisce il picco della sperimentazione di Haynes, raccontando i paradossi di una società basata sull’apparenza.

L’esplorazione del freddo mondo dei media è ancora una volta efficace. I disagi del bambino protagonista di Hero sono delineati solo attraverso le testimonianze dei suoi parenti e conoscenti. La sua figura viene quindi elevata, diventando quasi mistica. Le sue motivazioni, tuttavia, sembrano raccontate dal narratore come incomprensibili. Tutto ciò mette in evidenza l’incapacità del mezzo di cogliere la complessità degli eventi narrati. Il sesso, in Horror, si trasforma in un elemento mortifero. Le conseguenze della trasformazione che provoca nel protagonista lo portano a una situazione di isolamento talmente forte da fargli perdere il senno. Haynes descrive quindi una società completamente alienata, all’interno della quale il singolo è impossibilitato a esprimersi pienamente e la collettività sembra agire senza uno scopo ben definito.

Homo è l’episodio che sicuramente ha avuto una maggiore influenza sul cinema degli anni ’90, favorendo la maturazione del New Queer Cinema. Le scene oniriche, che mettono in evidenza l’interiorità del suo protagonista, sottolineano la sua forte volontà di espressione, opposta al violento ambiente carcerario, all’interno del quale viene costantemente oppresso. Il tema dell’omosessualità, qui raccontato in maniera esplicita e sovversiva, sarà uno dei temi portanti trattati dall’autore.

Poison è considerabile un esperimento pienamente riuscito, d’ispirazione per numerose opere successive. La sua estrema sperimentazione narrativa non verrà più riprodotta all’interno del cinema di Todd Haynes, ma le sue tematiche, tuttavia, rimarranno costanti ed affinate nel corso degli anni.

Todd Haynes: Poison

Gli anni ’90: Tra sperimentazione e perfezionamento

Nel corso degli anni ’90, Todd Haynes, a seguito del successo di Poison, dirige altre tre opere (oltre al videoclip di Disappearer, dei Sonic Youth): il mediometraggio Dottie gets spanked (1993) e i lungometraggi Safe (1995) e Velvet Goldmine (1998). Il primo si trova in continuità con le precedenti opere dell’autore, per la sua natura a tratti avanguardistica; gli altri due, invece, si discostano, procedendo nella sua ricerca personale attraverso due stili differenti.

Dottie gets spanked racconta del rapporto di un bambino, Steven, con la televisione e, in particolare, con una sitcom generalmente pensata per le ragazze. Il film, a tratti metacinematografico, mette in scena la psiche del suo protagonista attraverso l’unione di più piani, quello della realtà, quello della finzione e quello onirico. Lo spettatore assiste quindi a un susseguirsi sempre coerente di sequenze oggettive, generalmente a colori, e sequenze quasi metafisiche, in bianco e nero, che portano il protagonista all’interno del suo show preferito, plasmandolo in base al suo profilo psicologico.

Il film è uno studio del rapporto con il media televisivo durante l’infanzia. Il programma, quindi, viene raccontato in funzione della percezione che ne ha il suo giovane spettatore. Ancora una volta, tra i temi principali vi è quello della repressione. Prima i coetanei e poi i genitori reputeranno allarmante il genuino rapporto di Steven con la sitcom, portando quest’ultimo prima a una percezione distorta, e poi al suo rifiuto.

Ispirato alla sua infanzia (ed in particolare al suo rapporto con la sitcom I love Lucy), Dottie gets spanked costituisce un’opera essenziale nella filmografia di Todd Haynes. La sua natura sperimentale e trasgressiva testimonia la volontà dell’autore di andare oltre al linguaggio convenzionale, costante nella maggior parte dei suoi lavori.

Todd Haynes: Dottie Gets Spanked

Safe

Uscito nel 1995, Safe è da considerarsi, forse, il film più riuscito di Todd Haynes. Inizialmente incompreso da critica e pubblico, ha iniziato ad essere apprezzato solo anni dopo. Testimonianza di ciò è la sua vittoria al Village Voice Film Poll nel 1999, per la categoria Film del Decennio. Costituisce, inoltre, la sua prima collaborazione con Julianne Moore che (insieme a Cate Blanchett), sarà una delle sue principali interpreti.

Safe racconta la storia di Carol, una donna sposata con una vita semplice e tranquilla. Improvvisamente inizia a sviluppare una strana malattia che, apparentemente senza motivo, le porta difficoltà respiratorie, nausea, mancamenti e una generale sensazione di debolezza. Dopo una serie di consultazioni mediche, scoprirà di essere allergica a una quantità imprecisata di sostanze chimiche rilasciate nell’aria da oggetti di tutti i giorni. Svilupperà, quindi, una sorta di allergia al ventesimo secolo.

La vita di Carol prima della malattia è presentata come un falso idillio (come avverrà per molte delle protagoniste del cinema di Haynes). I colori spenti, i dialoghi asettici ed il focalizzarsi su eventi a tratti futili rivela il vuoto della sua vita, che diventa un vero e proprio circolo di avvenimenti insignificanti. La malattia si presenta, inizialmente, come un forte rifiuto degli ideali del sogno americano, un rigetto talmente forte da diventare fisico.

Il freddo racconto di una malattia

Safe si discosta quasi del tutto dallo stile registico e narrativo delle precedenti opere dell’autore. Le vicende di Carol sono raccontate attraverso la costante ricerca di un distacco con lo spettatore. A ciò contribuisce la fredda fotografia, l’approccio surrealista al sound design, la composizione geometrica delle inquadrature e l’effettiva lontananza dei personaggi generata dall’utilizzo di campi lunghi. Tutto ciò crea un’atmosfera straniante: lo spettatore, da lontano, riesce a notare tutte le piccolezze della messa in scena che, insieme, rivelano una realtà a tratti grottesca.

La grandezza di Safe, e la sua componente orrorifica, risiede nel modo in cui costringe lo spettatore ad osservare le costanti insicurezze ed i fallimenti della protagonista, sottolineando come non esista una vera soluzione al suo stato. Se la prima fase dell’opera mette in scena una sensazione simile al panico, la seconda descrive la follia del suo escapismo. La fuga da una società violenta e alienata, porta infatti Carol in quello che è un vero e proprio culto, all’interno del quale, con il pretesto medico, i membri giustificano il loro illudersi. Più attuale che mai, Safe mette in scena l’isolamento come vera e propria paura del vivere. Ciò rappresentato alla perfezione dal grottesco personaggio di Lester, ormai al limite dell’umano.

La scelta di non raccontare nel dettaglio la vera natura della malattia di Carol e di non mostrare ciò che le accadrà a seguito della cura, rende lo spettatore il distaccato giudice di una vicenda che non fornisce alcuna risposta e che, al contrario, richiede una certa introspezione. Sono proprio le perfette modalità di raccontare un orrore tanto silenzioso quanto assoluto che rende il film di Haynes una delle opere più efficaci degli anni ’90.

Todd Haynes: Safe

Velvet Goldmine

Velvet Goldmine (il cui titolo è tratto da una canzone di David Bowie), costituisce un ulteriore cambio di stile, discostandosi come mai prima d’ora dalle opere realizzate in precedenza. Uscito nel 1998 ed interpretato da Ewan McGregor, Jonathan Rhys Meyers, Toni Colette e Christian Bale, il film ha ottenuto un discreto successo di critica, ma è stato un flop al box office. Ha garantito all’autore alcuni premi, tra cui Miglior Contributo Artistico al Festival di Cannes.

L’opera ha come tematica centrale la nascita ed il declino del glam rock nell’Inghilterra degli anni ’70, analizzando il genere sia da un punto di vista musicale sia come fenomeno sociale. Il protagonista è Arthur Stuart, giornalista che, nel 1984, ottiene l’incarico di scrivere una retrospettiva sulla star glam Brian Slade, e in particolare sui motivi che l’hanno portato a fingere la sua morte durante un concerto.

Il film è disponibile su Prime Video.

Il glam tra mito e realtà

Velvet Goldmine vuole combinare elementi fantastici e quasi mitologici a un racconto più oggettivo, come in un incontro tra favola e documentario. I primi sono sono osservabili sia nel modo di narrare l’inusuale vita di protagonisti, sia in una serie di sequenze esplicitamente irreali. Alcuni esempi di ciò sono quelle scene all’interno delle quali viene accennato il rapporto tra i protagonisti e Oscar Wilde (il cui estetismo viene indicato come forma originale del glam), quest’ultimo portato sulla terra da entità aliene. La focalizzazione su questo tipo di elementi contribuisce alla percezione del movimento come un evento culturale di breve durata che nonostante la sua natura estranea, ha posto le basi per una rivoluzione musicale e culturale.

La struttura delle parti biografiche si configura in maniera analoga a quella di Quarto Potere, capolavoro di Orson Welles. Lo spettatore viene a conoscenza di alcuni episodi ed aspetti della vita di Brian Slade attraverso una serie di flashback, corrispondenti alle testimonianze di alcuni suoi conoscenti, intervistati da Arthur Stuart. Il risultato è un forte senso di nostalgia verso una realtà ormai decaduta. L’introduzione del giornalista, inoltre, permette di narrare la forza liberatoria che il glam ha avuto sui suoi ascoltatori, Arthur stesso, infatti, è riuscito ad esprimere per la propria omosessualità proprio grazie al fenomeno sociale.

In maniera analoga a Safe (ma opposta nella sua realizzazione), Velvet Goldmine utilizza il suo forte stile estetico (visivo e sonoro), per enfatizzare e creare un parallelismo con le vicende dei suoi personaggi. Il risultato è un opera colorata ed over the top, che eccelle nel mischiare elementi tipici del fantasy, del biopic, del musical e del videoclip. Anche se attraverso una sperimentazione meno appariscente, l’ibridazione di più linguaggi rende il film in continuità con le prime opere di Todd Haynes, in particolare Poison.

Todd Haynes: Velvet Goldmine

Musica ed emancipazione

La carriera di Todd Haynes procede con due lungometraggi: Lontano dal Paradiso, del 2002, e Io non sono qui, del 2007. Il primo, ambientato negli anni ’50 racconta del complicato rapporto tra una donna, Cathy (interpretata da Julianne Moore), e suo marito, Frank, che scopre essere l’amante di un altro uomo. Il secondo invece, di natura ben più complessa (trattato nel capitolo successivo), costituisce un particolare ritratto di Bob Dylan, diviso in sei episodi, ciascuno intepretato da un attore differente.

Lontano dal paradiso si configura come il racconto di un idillio spezzato (messo in evidenza dalla regia molto classica e dai colori caldi) e della presa di coscienza dei paradossi del nascente sogno americano. I temi principali sono due, quello dell’omofobia e quello del razzismo, messi in parallelo e rappresentati dai due personaggi che principalmente si relazionano con la protagonista, Frank e Raymond, giardiniere afroamericano della quale si innamorerà. L’opera, come in Safe, mette in scena la volontà di escapismo dei propri personaggi. Questa volta, tuttavia, lasciando una sensazione di speranza, mai illusoria e sempre radicata nella realtà.

Le collaborazioni con HBO

Negli anni successivi Haynes si dedica a due opere per HBO. La prima è la miniserie Mildred Pierce, del 2011, una reinterpretazione dell’omonimo film del 1945, a sua volta tratto da un romanzo. Interpretata da Kate Winslet, Guy Pearce, Evan Rachel Wood e Melissa Leo, ed ambientata negli anni ’30, racconta di una donna che cerca di ricostruire la propria vita a seguito del divorzio con il marito. La serie è da considerarsi un successo, in particolare nel modo in cui riesce a raccontare il complicato rapporto tra la protagonista e la figlia.

La serie è disponibile su Now Tv.

La seconda opera per HBO è il documentario Six by Sondheim, del 2013, che vuole analizzare la figura del compositore Stephen Sondheim attraverso il racconto di sei suoi brani. L’opera, realizzata in collaborazione con i registi James Lapine e Autumn de Wilde, utilizza un linguaggio documentaristico prevalentemente televisivo, risultando efficace ma mai eccellente.

Todd Haynes: Lontano dal Paradiso

Io non sono qui

Io non sono qui costituisce un esperienza cinematografica unica nel suo genere. Allontanandosi radicalmente da ciò che aveva già realizzato in precedenza, Todd Haynes dirige un biopic atipico. Focalizzata sulla figura di Bob Dylan, racconta il personaggio attraverso l’alternarsi di sei episodi.

La particolarità è che ogni segmento non ha come protagonista l’artista, ma, al contrario, un soggetto ispirato a determinati suoi aspetti e fasi di vita. Ciascuno di essi è interpretato da un attore differente: Christian Bale, Cate Blanchett, Marcus Carl Franklin, Richard Gere, Heath Ledger e Ben Whishaw.

Gli stessi personaggi, poi, sono profondamente diversi, sia dal punto di vista fisico che psicologico. Tra questi, per esempio, abbiamo Jack Rollins, star emergente rappresentate il periodo acustico di Bob Dylan, e Robbie Clark, attore che sta vivendo un divorzio e si trova a dover interpretare il primo in un documentario. Sono associati a Dylan anche personaggi reali, come il cantautore Woody Guthrie, qui rappresentato come un giovane viaggiatore squattrinato appassionato di musica folk, ma anche Arthur Rimbaud (protagonista di uno dei primi corti di Haynes), condannato ed interrogato per la sua arte.

Il film è disponibile su Prime Video.

Un non-ritratto a 360 gradi.

Ancora una volta, ciò che contraddistingue il film di Todd Haynes è l’utilizzo di un linguaggio libero ed eterogeneo. I sei episodi, costantemente alternati ed a tratti interconnessi, sono messi in scena in maniera molto diversa tra loro, sia, come già citato, per la non continuità dei personaggi, sia, più in generale, per le scelte registiche e fotografiche. Alcuni episodi, per esempio, sono a colori, altri in bianco e nero, in alcuni casi il linguaggio è simile a quello del documentario, in altri molto vicino ad un’avventurosa epopea.

Io non sono qui, oltre che un sincero omaggio nei confronti di Bob Dylan e della musica folk in generale, è un opera sulla molteplicità e sull’inafferrabilità dell’animo umano. L’artista infatti, nonostante non venga praticamente mai citato, viene comunque analizzato nella sua complessità attraverso sei ritratti esterni alla sua persona.

Facendo un passo indietro dalla volontà di una documentazione oggettiva, infatti, Todd Haynes riesce ad avvicinarsi meglio di chiunque altro e rappresentare tutte le sfumature che vanno a comporre la persona Bob Dylan senza a ridurlo ad icona. Non a caso, nella sequenza di apertura del film, assistiamo all’inizio di un’autopsia sul cadavere dell’artista e, subito dopo, allontanandoci da essa, come in un rifiuto di un racconto meramente rappresentativo, vediamo i sei primi piani dei protagonisti, simbolo della sua complessità.

L’opera, da considerarsi perfettamente riuscita, è nuovamente in linea con la costante sperimentazione sul linguaggio cinematografico portata avanti dal regista. In questo senso, è da considerarsi, insieme a Poison, quella che fa utilizzo di una struttura più complessa, in questo caso, però, del tutto accessibile ed apprezzabile da un’ampia fetta di pubblico.

Todd Haynes: Io non sono Qui

Carol

Uscito nel 2015, Carol è probabilmente il film più celebre di Todd Haynes. È stato presentato al 68° Festival di Cannes, dove ha vinto il premio Queer Palm e quello per la Miglior Interpretazione Femminile, assegnato a Rooney Mara. Tra gli altri membri del cast sono presenti anche Cate Blanchett, Sarah Paulson e Kyle Chandler.

Basato sull’omonimo romanzo di Patricia Highsmith del 1952 (in lingua originale intitolato The Price of Salt),  racconta la storia d’amore tra la giovane aspirante fotografa Therese e Carol, una donna che sta divorziando e si trova in difficoltà con la gestione della custodia della figlia.

Il film riprende le atmosfere di Lontano dal Paradiso. La sua fotografia calda ed accogliente, infatti, mette nuovamente in evidenza l’idillio spezzato di una società basata sull’apparire. Racconta in maniera efficace e delicata il periodo di crescita di Therese che, per la prima volta, esplora la sua sessualità, scoprendo la sua attrazione per le donne. Lo sviluppo del forte rapporto tra le due protagoniste avviene in un periodo di tempo limitato. Va quindi a configurarsi come una breve fuga da una realtà avversa, che, tuttavia, non potranno mai ignorare del tutto.

Carol è un opera semplice ma sicuramente efficace, in grado di scavare in profondità nella psicologia delle due protagoniste e di delineare alla perfezione la natura della loro relazione, non rientrando mai nel banale.

Todd Haynes: Carol

Narrazioni classiche e sperimentali

Nella seconda metà del 2010 Haynes dirige due film, La stanza delle meraviglie, del 2017, e Cattive acque, del 2019.

La stanza delle meraviglie

La stanza delle meraviglie, forse il meno noto tra i suoi lungometraggi, è un film d’avventura basato sull’omonimo romanzo per ragazzi di Brian Selznick, del 2011. L’opera mette in parallelo le vicende di due bambini sordi persi a New York. La prima è Rose che, nel 1927, fugge dal padre per cercare la madre attrice, il secondo è Ben che, dopo la morte della madre, va alla ricerca del padre.

Ancora una volta, Todd Haynes ricerca un linguaggio peculiare e personale, adatto, questa volta, a raccontare il punto di vista dei due bambini, rendendolo accessibile ad un ampia fetta di pubblico, comprendente anche gli spettatori più giovani. La sordità è messa in scena attraverso un alternarsi di silenzi, e quindi soggettive sonore, musica e scene in cui il suono si presenta in maniera oggettiva. Vero protagonista è l’atto dell’osservare e il sentimento di meraviglia che ne deriva. La fotografia, per metà in bianco e nero (nelle parti ambientate negli anni ’20), riesce a creare immagini di forte impatto, che restituiscono la sensazione di guardare dal fantasioso punto di vista di un bambino, in un periodo di costanti scoperte.

Il film è disponibile su Prime Video.

Cattive acque

Cattive acque, al contrario, è il film di Haynes che adotta una struttura più convenzionale e che, contemporaneamente, risulta tra i meno interessanti dell’autore. Racconta il vero caso legale che ha visto l’avvocato Robert Billot (Mark Ruffalo) in una causa contro la DuPont, un’azienda chimica responsabile di un caso di inquinamento idrico e dell’utilizzo di sostanze nocive, quali il PFOA per la produzione di teflon.

Ciò che colpisce, all’inerno di una struttura da legal drama parecchio semplice, è il modo di raccontare il senso di oppressione generato dalla società chimica, raffigurata come un male assoluto difficilmente estirpabile. A ciò contribuisce l’utilizzo di una fotografia scura e desaturata, che richiama le atmosfere del folk horror o del J-horror (in lingua originale il film è intitolato Dark Waters, come il capolavoro del 2002 di Hideo Nakata). L’America di Cattive Acque assume quindi un’aria malata, la natura risulta corrotta e le stesse acque, fonte di vita, si fanno malevole.

Il film è disponibile su Prime Video.

Todd Haynes: Wonderstruck

The Velvet Underground

The Velvet Underground, uscito nel 2021, è un documentario sull’omonima band newyorkese. Inizia focalizzandosi sulle origini dei membri e sul panorama culturale della New York degli anni ’60. Prosegue poi con un racconto cronologico degli eventi più importati riguardanti il gruppo, mettendo in evidenza, in particolare, ciò che ha portato alla creazione dei quattro album principali e alla loro profonda diversità.

Il documentario si compone, per lo più, da materiale d’archivio accompagnato da interviste ai membri del gruppo ancora in vita e ad un ampio gruppo di persone a loro vicine o familiari con la New York del periodo. Uno dei suoi meriti è quello di non limitarsi ad una narrazione monografica della storia dei Velvet Underground, focalizzandosi molto sul contesto artistico e culturale che ha permesso la loro formazione e lo sviluppo. Il film si compone anche, quindi, di funzionali digressioni su altre personalità, una su tutte Andy Warhol, indispensabile nella crescita della band, e molte altri, tra cui il poeta e regista sperimentale Jonas Mekas, al quale il film è dedicato.

Il film è disponibile su Apple Tv+.

L’efficace utilizzo dell’archivio

Ciò che colpisce maggiormente è l’efficace utilizzo dell’archivio, che non si limita alla semplice rappresentazione ma, al contrario, tramite l’eccellente montaggio, crea profondi legami di senso tra immagini e voice-over. Le registrazioni non sono lasciate scorrere in maniera fine a sè stessa; spesso sono alternate ad altro materiale e talvolta sono presentate in split-screen con ulteriori contenuti, che ne amplificano il senso e, contemporaneamente, generano un’estetica memorabile.

Più volte, per esempio, un lato del frame viene dedicato a un lungo primo piano di uno dei componenti del gruppo, mentre l’altro a filmati che riguardano un determinato periodo della sua vita. Questo contribuisce a rafforzare il legame tra i due contenuti, permettendo allo spettatore, inoltre, di percepirli uno in relazione all’altro, e quindi di scavare più in profondità nel personaggio che si sta descrivendo.

Il montaggio, talvolta, assume una natura più strettamente avanguardistica. I contenuti sono ridotti a pura immagine e il loro susseguirsi, legato alla musica, assume una valenza per lo più emotiva. Tutto ciò vuole replicare l’esperienza del nuovo sistema artistico sviluppatosi nella New York degli anni ’60, caratterizzato dall’ibridazione di linguaggi considerati fino ad allora autosufficienti.

The Velvet Underground è sicuramente uno dei miglior documentari a tema musicale degli ultimi anni. L’egregio utilizzo delle musiche e l’efficace montaggio del materiale d’archivio rendono l’opera estrememente consigliata a tutti gli ascoltatori della band e, in generale, a coloro che vorrebbero approfondirne la conoscenza.

Todd Haynes: The Velvet Underground

May December

Presentato al 76° Festival di Cannes, nel 2023, May December è l’ultimo lungometraggio realizzato da Todd Haynes. L’opera, i cui protagonisti sono interpretati magistralmente da Natalie Portman, Julienne Moore e Charles Melton, è da considerarsi una delle migliori realizzate dall’autore.

La protagonista è Elizabeth Berry, una giovane attrice che, per interpretare al meglio il suo ruolo, decide di passare un periodo insieme alla donna la cui storia verrà adattata nel film. Questa è Gracie Atherton-Yoo (basata sulla vera vicenda di Mary Kay Letourneau), la quale è stata, anni prima, al centro di un noto scandalo. La donna, infatti, dopo aver convinto un l’allora tredicenne Joe Yoo ad entrare in una relazione sentimentale con lei, è stata scoperta mentre aveva un rapporto sessuale con quest’ultimo. Rimasta incinta, ha scontato più di vent’anni di prigione e, dopo il periodo reclusione, si è sposata con Joe, dal quale ha avuto altri due figli.

Il tema del non detto

May December, Haynes propone un’analisi imparziale di una tematica a dir poco disturbante. Ciò che colpisce istantaneamente è il modo di raccontare il rapporto di dipendenza all’interno della coppia, basato, in realtà, su un forte ricatto morale. Al centro dell’opera vi è un costante non detto che, appunto, è quello che permette la disfunzionale relazione tra Gracie e Joe. Tutto ciò è messo in scena attraverso l’utilizzo di una regia essenziale, una composizione geometrica ed una fotografia basata su colori freddi.

Per tutta la durata del film vi è la sensazione che un forte contrasto stia per scoppiare, cosa che in realtà non avverrà praticamente mai, se non in una breve sequenza nell’ultimo atto. Questa è indotta anche dall’astuto utilizzo del sound design, che in più di un’occasione genera una sensazione di tensione durante situazioni che non porteranno ad effettivi scontri, o, in maniera ancora più esplicita, in corrispondenza di avvenimenti completamente insignificanti.

Ruoli, persone e personaggi

Ancora una volta Haynes si conferma estremamente talentuoso nel mettere in scena la psicologia di personaggi complessi in tutta la loro profondità. Non a caso le loro vere motivazioni risulteranno spesso criptiche e a tratti difficilmente comprensibili. Rientra in questa categoria la protagonista, Elizabeth che sarà attratta in maniera quasi morbosa dallo studio del rapporto della coppia. A ciò si aggiunge la componente che maggiormente eleva il film di Todd Haynes, ovvero la progressiva sovrapposizione delle figure delle due donne.

Questa è sottolineata costantemente dalla composizione delle inquadrature, che, molto spesso, le vede completamente allineate. Un esempio è la scena in cui, mentre le due aspettano la figlia di Gracie, nel camerino di un negozio, l’attrice risulta circondata da specchi che riflettono la sua figura. Attraverso l’elemento della mimesi, il film vuole quindi riflettere sul concetto dell’interpretazione di un personaggio, o più in generale, di un ruolo.

Partendo dalla fredda interpretazione di Gracie e Joe di una normale famiglia, utile per evitare il confronto, questa riflessione si espande attraverso la figura di Elizabeth, arrivando quindi a costituire una profonda analisi del rapporto tra attore e personaggio. A ciò va aggiunto il tema della possibilità di un racconto cinematografico veritiero ed oggettivo che sembra essere messa in discussione nell’efficace finale.

Todd Haynes: May December

Conclusione

Ciò che, nel corso degli anni, ha sancito la grandezza del cinema di Todd Haynes, è stata la sua costante volontà di sperimentare a più livelli il linguaggio cinematografico. Partito con opere dalla natura trasgressiva, come Superstar: The Karen Carpenter Story o Poison, che costituiscono un forte rifiuto dei canoni del cinema hollywoodiano dell’epoca, ha poi portato avanti la sua ricerca con film come Io non sono qui e il recente May December, nei quali l’utilizzo di un linguaggio che rappresenti in maniera efficace le loro tematiche va di pari passo con la ricerca di una maggiore accessibilità.

La tendenza a non rimanere fisso su una formula vincente, lavorando a progetti profondamente diversi tra loro, rivela il grande talento di un artista mai autoreferenziale, la cui ricerca si colloca sempre in direzione delle peculiari necessità di ogni racconto. Sempre in grado di scavare in profondità nei suoi personaggi e di esplorare a 360° le tematiche messe in scena, Haynes è sicuramente uno dei registi che maggiormente ha influenzato, e continua ad influenzare il panorama contemporaneo. A questo punto l’unica cosa che rimane da chiedersi è in che direzione porterà il suo cinema con la sua prossima opera.

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