Spring Fever è il film con cui Lou Ye riapparve sugli schermi, dopo l’esilio inflittogli dal governo cinese. La sua opera precedente, Palazzo d’estate (2006), costò al regista l’allontanamento dalle produzioni per cinque anni, a causa dell’argomento trattato – la disillusione politica post Tienanmen.
Presentato al Festival di Cannes, Spring Fever ha vinto il premio come miglior sceneggiatura. La sua proiezione è stata preceduta da una naturale curiosità, sia della stampa che del pubblico. Oltre ad avere una trama non rivelata, il film era stato girato di nascosto nella città di Nanchino, obbligando per la prima volta Lou a fare riprese in digitale. Tutto ciò ha alimentato le aspettative.
Lou non nasconde di avere il cinema occidentale come fonte d’ispirazione. Spring Fever ha sicuramente un legame con l’opera del regista francese François Truffaut e Rainer Werner Fassbinder. Ma il cinema non è la sua unica fonte ispiratrice: Lou rimarca anche la sua vicinanza allo scrittore cinese dei primi del Novecento Yu Dafu, noto per le tematiche sessuali proposte con purezza oltre che per le trame a forte connotazione socio-politica.
[…] quello che volevo fare, raccontare una storia d’amore, piena di desiderio, e il riferimento a Jules et Jim […] è un film per il quale ho una profonda ammirazione. (Lou Yi)
Alcuni vedono in Spring Fever un’ assonanza con il lavoro ben più noto di Ang Lee, I segreti di Brokeback Mountain (2005) ma in comune i due lavori hanno solo la tematica queer. Il film è disponibile su MUBI, in lingua originale e sottotitolato.
Jiang vertice di due triangoli amorosi
Jiang è un giovane uomo, con una vita normale, che ha accettato la sua omosessualità uscendo dal closet. Lavora in una agenzia di viaggi e ha in corso una relazione con Wang giovane libraio. Il loro legame viene spezzato a causa dell’intervento di Lin, moglie di Wang, che scopre il loro rapporto grazie all’aiuto del giovane Luo, investigatore improvvisato.
Mentre Wang cerca di fare ordine nella sua vita – arrivando a una drastica decisione – Jiang si getta nella mischia di locali queer nella speranza di allontanare il suo dolore. Luo, che continua a pedinarlo, rimane affascinato e inizia con l’uomo una relazione più per curiosità e necessità che per amore.
Anche in questo caso, la storia ha un cambio sostanziale quando si presenta Li, fidanzata di Luo. La donna, che ha una vita più complessa rispetto alla borghese Lin, pare accettare questo triangolo. Fra frastornamenti emotivi, le giornate dei tre trascorrono fino all’alba di un nuovo giorno, dove ognuno – più o meno volutamente – inizierà a percorrere la propria strada.
Quando la necessità diventa un valore aggiunto
Questa pellicola ha una doppia valenza: quella di prodotto cinematografico con un suo stile e quella politica-sociale, con il riflettore puntato sulle contraddizioni di una Cina moderna.
Lou Ye aveva già dato dimostrazione del suo valore come autore con le precedenti opere e Spring Fever non è solo la sua riconferma ma anche un salto qualitativo, forse involontario. Il regista è sempre stato attento a riprendere la realtà della società cinese, ma in questo caso è penetrato integralmente nel tessuto sociale, a seguito delle riprese nascoste.
Il montaggio rapido, l’effetto della macchina da presa a mano e gli ambienti spesso ristretti vengono amplificati dalla necessità di girare in incognito. Ciò rende Spring Fever vicino a un docudrama, con gli interpreti che si ritrovano ad assumere una connotazione che va oltre la rappresentazione. L’autore supera il ruolo del demiurgo platonico andando a riproporre “la realtà”, grazie all’intuizione di sfruttare il presunto limite e oltrepassarlo.
Il regista si muove perfettamente nello schema che si era prefissato e le sue inquadrature, le azioni quotidiane e anche gli eccessi melodrammatici paiono andare oltre il concetto di raffigurazione, inserendoci in meccanismi ben noti, proposti dalla televisione con l’imperare dei reality show.
[…] se sono riuscito a ricreare momenti di vera intimità, è stato grazie a questo metodo, a questa tecnica quasi documentaristica. I primi minuti di ripresa gli attori recitano e poi, a poco a poco, entrano in una dimensione più personale, più naturale […] (Lou Yi)
Ciò arricchisce il lavoro autoriale di uno spessore nuovo, forse inatteso, ma sicuramente significativo. Tutto diventa uno stile che è difficile ritrovare nel cinema occidentale – riscontrabile in Lo sconosciuto del lago (2013) o i film di Gaspar Noé. Ed è per questa ragione che il film ha una sua dignità ben più alta della mera narrazione di un amore queer.
Un meccanismo ben strutturato
Lou Ye fa un lavoro preciso in cui i suoi collaboratori sono parte essenziale. Montaggio e scenografia sono affiancate da opportune scelte sui costumi, mai pacchiani o stereotipati, e della fotografia, che amplifica la volontà di repressione visiva, espressione di quella sociale, più adatta a una visione da buco della serratura. La musica è usata e non abusata, andando ad amalgamarsi alle immagini accentuando l’aspetto emotivo, anche quando si tratta dei momenti più confusionari nei locali.
Gli attori, consapevoli di aver accettato di lavorare in un film scomodo, riescono ad andare oltre la recitazione, in una immedesimazione nata dalla estemporaneità del momento di ripresa. I protagonisti sono stati guidati dal regista attraverso una serie di ricerche e documenti, fra cui i film Midnight Cowboy di John Schlesinger e My Own Private Idaho di Gus Van Sant.
Lin, moglie di Wang, interpretata da Jiang Jiaqi, è forse il personaggio meno complesso, ben definito nella sua caratterizzazione di donna tradita. Nonostante ciò, non si può negare a Jiang la sua bravura nel non oltrepassare certi limiti, soprattutto nei momenti più accessi.
Tan Zhuo è la giovane Li, innamorata di Luo, modesta operaia che si scontra con le difficoltà della vita che la portano al limite della prostituzione. Tan ricopre i due aspetti del personaggio senza mai mischiarli, rendendoli più drammatici ed emotivamente coinvolgenti.
Il trio che mette in discussione la mascolinità
Wu Wei invece è Wang, il giovane innamorato che cerca di conciliare il suo essere con l’aspettativa della società. Closeted ben interpretato da Wu, il quale riesce a instaurare un rapporto di complicità e affinità con l’altro protagonista rendendo le scene passionali decisamente efficaci.
Il giovane Luo è interpretato dal promettente Chen Sicheng, che riesce a portare alla luce l’animo del suo personaggio, non focalizzandolo sulla sua sessualità. Un giovane che cerca di sopravvivere e che giunge alla scoperta di un mondo per lui tanto ignoto quanto affascinante. Poco importa se poi è queer.
Qin Hao, che porta sul grande schermo l’ambiguo Jiang, è quello che ha fatto un lavoro più complicato, cercando di non banalizzare un uomo che, a prescindere dal proprio orientamento, viveva il suo amore consapevolmente rispetto al proprio io. Il suo avvicinarsi a Wang, le sue esibizioni drag e la sua sofferenza vissuta in una interiorità palpabile sono ciò di meglio a cui il regista poteva ambire.
Quando il cinema penetra nel sociale
Spring Fever ha anche un aspetto fortemente socio-politico, dichiarato dallo stesso regista e agevolato dallo sceneggiatore Mei Feng. Ed è interessante come, invece di fare un film a tematica queer connotato dal sesso, siano riusciti a raccontare delle storie d’amore travagliate innestate nel contesto cinese. Una realtà che, se per molti versi pare all’avanguardia, nel campo sociale mostra i suoi forti limiti.
A partire dal sesso, ogni singolo essere umano può imparare ad affrontare con franchezza se stesso e la libertà che ha, e imparare ad ascoltare e seguire se stesso anziché gli altri. […] Trattare l’omosessualità come il semplice opposto dell’eterosessualità sarebbe stato un approccio moraleggiante, teorico e semplicistico. (Lou Yi)
Un’accettazione del queer closeted, un po’ come avveniva all’epoca fascista – sappiamo che esiste ma facciamo finta che no. Una realtà che pare scontrarsi con i locali queer oriented e che, invece, mostra come l’apertura verso l’amore rimanga legato a una forte connotazione politica e di controllo.
Una rappresentazione, quella di Lou, che è ben lontana dalla classica stereotipizzazione che avviene nel cinema italiano, dove anche una storia queer deve essere (omo)normalizzata. Spring Fever è un film che deve essere assolutamente visto da chi vuole approfondire la tematica queer da un piano più alto rispetto alla semplice rappresentazione sessuale. Una pellicola che va oltre il commerciale del film di Ang Lee e si innesta indelebilmente nella cultura queer internazionale.